L’ignoranza creativa ci salverà, da noi stessi

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    In questi giorni, ritmati da un inverno (bi)polare e da questa scomposta invasione di sì e di no (più i no che i sì), legati a una sostanziale messa in discussione di una parte importante del nostro passato, mi è venuta voglia di rileggere uno dei libri che negli scorsi anni mi è stato più amico, Gli anni  (L’orma), guarda caso, di Annie Ernaux.

    Avendolo già letto, e avendo già infittito le pagine con sottolineature sbadate, macchie di caffè e appunti sconnessi, la lettura non andava cercando la bellezza puntuale, l’intuizione o la tecnica. Non cercava neanche la storia, ché la storia la sapevo già. Insomma, non c’era traccia nello scorrere delle pagine di attentati intellettuali, di approcci conosciuti. L’ho letto e basta.

    Quello che cercavo era forse un significato, una ragione, un tratto comune che potesse far dedurre una traiettoria, una direzione, una spiegazione plausibile a quello che, passando da lì, siamo diventati oggi (si fa riferimento, per chi non avesse letto il libro, alla storia della generazione che ha vissuto la seconda guerra mondiale in età infantile). Tra le righe di simboli sociali usuali, di retorica post secondo conflitto mondiale, di emozioni di ragazza che c’era quando quel tempo passava, quello che più mi ha colpito è rintracciare, nemmeno tanto ai bordi, uno dei retaggi più potenti nonché, per certi versi, positivi e necessari, che ci siamo portati dietro negli ultimi duecento anni: l’istruzione.

    Negli anni della Ernaux, come nei nostri, sembra fondamentale e imprescindibile, procedere in maniera lineare, se non piramidale, dalla completa ignoranza alla totale conoscenza. Un percorso standardizzato da eseguirsi con fiducia un po’ cieca nei confronti di un sistema creato per produrre esseri umani seduti su un vertice, ermeticamente chiusi dentro il proprio settore, dentro il proprio argomento, chiusi dentro al tema che hanno selezionato più o meno scientemente attorno ai diciotto anni. Non è tutto. Appare, inoltre, necessario non solo appropriarsi di una materia, ma diventare di quella stessa un esperto unico, un conoscitore profondo e ineccepibile, un vero e proprio punto di riferimento. Questa scalata culturale coincide in maniera più o meno precisa con una scalata sociale di approvazione e riconoscimento.

    Nel tentativo di approdare a questa massima conoscenza, il percorso impone, ça va sans dire, la frequentazione di ambienti dedicati, di nicchie specializzate, di situazioni (più modernamente di eventi) e cerchie, che di quella tematica hanno fatto il proprio mondo. E ci si rinchiude, così, in piccoli universi popolati da persone (poi negli anni sempre le stesse), che parlano e discutono e forse anche decidono come quel sistema debba funzionare; salotti invero noiosi dove, nel giro di poche stagioni, l’innovazione resta in seno solo ai titoli e forse (ma non sempre) alle scelte dei catering.

    Chiudo il libro della Ernaux e inizio a pensare pesantemente a queste due cose: l’istruzione e l’innovazione. A quanto il più delle volte una non sia affatto conseguenza dell’altra, anzi. Mi torna in mente un saggio, che avevo comprato, ma non letto, dopo aver incontrato per caso l’autore, il professor Piero Formica (docente alla Maynooth University di Dublino), The Role of Creative Ignorance. Portraits of Path Finders and Path Creators. Il tentativo di Formica, ormai divenuto il suo argomento preferito, è quello di studiare e raccontare la bellezza e la potenza dell’ignoranza creativa. Leggo il saggio e provo una sensazione di rilassante somiglianza.

    Formica attacca duramente il modello formativo attuale, l’ossessione per la creazione di esperti, la linearità, la specializzazione, il progredire scavando verso l’essenza di qualcosa, come a scavare un pozzo. Il risultato della metafora è forte: giunti in fondo, come si guarda il mondo? L’alternativa, banale ma forse neanche tanto, è l’esaltazione di un’educazione caotica e leggera, trasversale, organizzata nel disordine, allenata a non farsi imbrigliare da quello che si sta imparando. Un tentativo di recuperare quella distinzione, troppo spesso dimenticata, che esiste tra la cultura e l’erudizione.

    Non si tratta, badate, di scivolare verso l’anti-intellettualismo tanto caro agli americani, quanto di conservare un punto di vista ingenuo e fantasioso rispetto a un tema, quanto di costruire, ci siamo, un elogio all’ignoranza. Ma quale ignoranza? Quella che si apprende, che è genuina, che è consapevole, intenzionale e determinata. Insomma, che è creativa. La connessione con l’innovazione a questo punto è fin troppo semplice. L’innovazione, quella vera, passa per la rottura di quelli che sono i fondamenti stessi dell’ambito che si sta cambiando. Chi davvero è capace di apportare il nuovo? Gli esperti, espertissimi, va’, che ormai sono accecati dalla loro profonda e sentita conoscenza delle cose? I salotti o simil-salotti che per colpa di quell’innovazione potrebbero essere scossi e costretti a tirar fuori la testa dalla loro zona di confort? Penso di no.

    La potenza di una conoscenza scevra da debiti morali nei confronti del suo stesso oggetto è forse l’unica strada percorribile per raggiungere innovazioni vere. A nulla servirà utilizzare esempi di retorica popolare, tipo che l’energia elettrica non è stata inventata migliorando le candele, per avvalorare questa tesi. Il punto non è così scientifico e non è nemmeno necessario che lo sia. Il punto è che la capacità di rimanere ignoranti, di non farsi etichettare, di preferire una strada orizzontale, sembra l’unica soluzione affinché l’innovazione sia reale.

    Affermare questo non comporta la messa al bando degli esperti. È la convivenza tra chi padroneggia un settore, le sue dinamiche e la sua essenza, e chi padroneggia la propria capacità di non sapere che può rappresentare la chiave decisiva in un momento storico e culturale dove l’innovazione è qualcosa di quotidiano eppure di sempre meno potente e sempre più confuso.

    Il centro è che bisogna interrogarsi su se stessi e trovare e assecondare la propria indole, riconoscendosi, se è quello il caso, incapaci di stare seduti per giorni a discutere approfonditamente di un argomento esclusivo. Quello che mi colpisce, mentre chiudo il saggio di Formica e torno alla Ernaux, è che conosco tante persone frustrate dalla loro posizione incerta, da questa sfumatura che gli tocca rappresentare nel sistema. Strette in questa anti-sociale posizione indefinita, giacché se non sei un esperto, non sei nessuno, quindi tendenzialmente non vieni immediatamente riconosciuto come individuo riuscito, le persone tendono a reagire in due modi.

    Da un lato, è diffusa questa ansiogena ossessione nei confronti di un tema, scelto più sulla base di trend modaioli che come risposta a una profonda interrogazione della propria essenza, con un conseguente cieco proseguimento di quella carriera formativa – più o meno accademica – che già all’inizio del discorso non sembrava lodevole, e un relativo entusiasmo isterico, come se avendo colto quale materia ci piace, avessimo capito chi siamo. Dall’altra parte, si trova, invece, questa schiera, di quantità sempre crescente, di persone che si sono stancate di dare spiegazioni, direbbe Flaiano, e vivono e studiano e lavorano e saltellano tra spazi diversi, facendo bene attenzione a non restare troppo tempo nello stesso posto.

    Quelle persone che molto spesso stanno parecchio zitte e poi verso la fine alzano la mano e fanno la differenza. Quelle persone che quando gli chiedi “ma tu che lavoro fai?”, sorridono e passano oltre. Perché sono ignoranti, un poco anche di se stesse. L’ignoranza creativa ci salverà, dice Formica. Da noi stessi, aggiungo io.

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