Gli appunti di ‘Traiettorie’, il tavolo di discussione sui finanziamenti alla cultura di cheFare

Scarica come pdf

Scarica l'articolo in PDF.

Per scaricare l’articolo in PDF bisogna essere iscritti alla newsletter di cheFare, completando il campo qui sotto l’iscrizione è automatica.

Inserisci i dati richiesti anche se sei già iscritto e usa un indirizzo email corretto e funzionante: ti manderemo una mail con il link per scaricare il PDF.


    Se inserisci il tuo indirizzo mail riceverai la nostra newsletter.

    image_pdfimage_print

    Per il primo incontro di “Traiettorie. Percorsi possibili nel finanziamento della cultura” abbiamo scelto di interrogarci insieme a soggetti appartenenti ad ambiti diversi del settore culturale. Erano presenti reti di organizzazioni (Carlo Testini di Arci), Maurizio Mumolo del Forum del Terzo Settore, Carlo Borgomeo di Fondazione con il Sud, fondazioni d’impresa (Roberta Franceschinelli di Unipolis), fondazioni private (Daniele Pittèri di Fondazione Modena Arti Visive, Renato Quaglia di Foqus: Fondazione Quartieri Spagnoli), centri di ricerca (Alessandro Leon di Cles), dirigenti di amministrazioni pubbliche (Roberto Ferrari della Regione Toscana).

    Abbiamo costruito preliminarmente uno schema di domande a maglie larghe per permettere una discussione il più possibile libera e generativa. Tra queste:

    • Quale è il futuro della co-programmazione e co-progettazione?
    • È possibile andare oltre la logica dei bandi per finanziare progetti?
    • Come tenere assieme sperimentazione e consolidamento delle forme organizzative, dei processi, dei linguaggi?

    Il testo che segue è un tentativo di riorganizzare la ricchezza emersa nella lunga discussione attraverso alcune aree tematiche trasversali. La sintesi ragionata non ha reso possibile valorizzare pienamente la ricchezza del dibattito e dei contributi. Il documento quindi potrà essere integrato se gli intervenuti vorranno farci avere i loro contributi, i loro suggerimenti, le loro osservazioni. Inviate il vostro contributo a posta@che-fare.com. Ogni pezzo proposto non deve superare le cinquemila battute ed evidenziare o ampliare punti specifici già previsti nel documento. I pezzi scelti verranno pubblicati di volta in volta su cheFare in modo da stimolare e ampliare il dibattito

    Il problema di un orizzonte di senso condiviso

    Una necessità emersa da parte di tutti i presenti è quella di identificare degli strumenti puntuali per rendere più chiare le richieste degli erogatori e dei policy makers agli applicant.

    Per gli applicant ancora troppo spesso le motivazioni, gli obiettivi e le cornici di rifermento culturale degli erogatori e dei policy makers restano difficili da comprendere appieno.

    Questo ha a che fare con problemi di ordini diversi, inerente alla natura della cultura organizzativa, del sistema di priorità, del linguaggio e del retroterra disciplinare di chi abita la PA e gli enti erogatori, da un lato, e degli applicant, dall’altro.

    Gli enti erogatori sono spesso organizzazioni grandi, molto articolate e con missioni multi- settoriali, quando non direttamente cross-settoriali.
Rispondono quindi a logiche complesse e trovano una parte importante della propria coerenza d’azione in una grande attenzione ai processi.

    Gli applicant, al contrario, fanno spesso parte di organizzazioni relativamente piccole, caratterizzate da un forte tasso di omogeneità. Sono nate prevalentemente per far fronte ad urgenze culturali specifiche (la sperimentazione con un dato linguaggio, la valorizzazione di un determinato patrimonio, l’organizzazione di un festival, di un evento culturale, etc) e da un retroterra disciplinare diverso, che pone l’accento principale sui contenuti.

    Il rilievo che il management culturale ha assunto nel tempo ha avuto il pregio, da questo punto di vista, di avvicinare parzialmente le culture organizzative ed i linguaggi delle due parti, sensibilizzando le organizzazioni culturali sull’importanza dei processi.

    Rimane, di fatto, uno scollamento: talvolta, alcune formule utilizzate nella costruzione dei bandi (come “impresa culturale”, “partecipazione”, “impatto”, “partnership”, “rete”, etc) restano per gli applicant e i progettisti dei “significanti vuoti” di provenienza e senso per i quali ci si affanna a trovare significati di volta in volta diversi.

    Si tratta, quindi, di un vero e proprio problema di senso che rivela la necessità di percorsi di traduzione e mediazione al fine di ridurre il disallineamento tra la domanda e l’offerta.

    Se, come è stato detto, c’è un deficit di confronto fra erogatori e soggetti culturali, allora le forme introdotte dal Codice del Terzo settore devono diventare un terreno su cui spendere fino in fondo le capacità di “mobilitazione” del mondo associativo e dell’imprenditoria culturale (dalla co-programmazione alla co-progettazione). Un obiettivo di breve periodo potrebbe essere estendere le poche esperienze realizzate in questa direzione, cercando nuove interlocuzioni e alleanze.

    È importante ricordare anche che i bandi non sono l’unico strumento per crescere. Sempre nel Codice si fa riferimento ai Social bonus (norma inapplicata). Un’altra tessera da collocare negli obiettivi di breve e medio termine

    Potrebbe essere utile costruire dei quadri di riferimento in termini di sistemi comunicazione, FAQ, esempi di casi che, in sinergia tra le azioni di soggetti diversi, aiutino produttori e progettisti ed orientarsi nella traduzione.

    Bandi e sperimentazioni

    C’è una domanda crescente di comprensione e sistematizzazione delle logiche sottese ai sistemi dei bandi per la cultura. I bandi non sono tutti uguali: esistono quelli sperimentali e quelli prescrittivi. La maggior parte dei territori si trova di fronte ad uno stesso problema: come combinare strumenti di finanziamento in grado di stimolare la nascita di soluzioni innovative e strumenti che, al contrario, consolidino attività più ordinarie e di mantenimento?
In altri termini, ci si trova sempre di fronte a due domande: “come aprirsi al nuovo?” e ”come continuare a finanziare quello che già funziona”?

    Da questo punto di vista sono emersi due tipi di tassonomie utilizzate dagli enti erogatori. La prima tipologia ha che fare con il livello di intervento degli enti erogatori nella costruzione di domande specifiche al tessuto culturale e si articola in bandi “proattivi” e “bandi di regolazione”. Nei primi l’ente erogatore agisce come un enzima, decidendo le priorità, definendo le domande e costruendo misure specifiche per generare risposte. Nei secondi, l’ente erogatore si pone in ascolto delle domande di continuità ed armonizzazione che emergono dagli operatori sui territori (tenendo conto che la gran parte del sostegno in questo senso avviene comunque fuori dalla logica dei bandi).

    I bandi “proattivi” sono strumenti per spingere gli applicant a ragionare su questioni identificate come prioritarie dagli enti erogatori e che, spesso, introducono pratiche e concetti inediti per i soggetti ai quali si rivolgono. Si ha avuto questa situazione in diversi casi:

    • quando sono stati introdotti focus progettuali derivati da linee guida elaborate in contesto europeo (è stato il caso dell’audience engagement o di diverse forme di innovazione sociale);
    • quando sono avvenuti fenomeni di cooptazione di prassi diffuse sul territorio e ancora relativamente poco codificate (come nel caso dell’innovazione culturale);
    • quando sono stati replicati ed adattati casi di successo internazionali (come nel caso delle varie formule simili ai Tandem della European Cultural Foundation).

    Un’altra tassonomia possibile è la distinzione tra bandi “stretti” (prescrittivi) e bandi “larghi” (sperimentali), ed ha a che fare con la volontà di lavorare o meno su domande pre-definite. I primi definiscono in modo più stringente obiettivi e metodi, mentre i secondi lasciano le maglie più larghe possibile. I bandi “stretti”, quindi, cercano risposte specifiche a domande puntuali, mentre i bandi “larghi” sollecitano la produzione di nuove domande (e ipotesi di risposte) dalle organizzazioni stesse.

    Queste distinzioni sembrano essere relativamente chiare nella prassi interna degli enti erogatori ma lo sono molto meno dal punto di vista della capacità interpretativa degli applicant. In alcuni casi, la natura più o meno sperimentale dei bandi non può essere esplicitata per motivi di missione o istituzionali. In altri casi, tuttavia, resta tra le righe in quanto prodotto di una consuetudine radicata nella cultura organizzativa che si incorpora poi nelle scelte di comunicazione, formale e informale.

    Dall’incontro è emerso nitidamente come la domanda di una maggiore chiarezza sulla natura di queste misure sia espressa con forza dagli applicant, dalle organizzazioni di settore e dagli altri stakeholder sui territori.

    Un enfasi particolare è stata posta sulla necessità che enti erogatori, pubblici e privati, adottino una programmazione di lungo corso, almeno biennale se non triennale. Oltre a rendere più chiari gli obiettivi che si intendono perseguire, i soggetti culturali avrebbero tempo e modo per organizzare le proprie risorse progettuali.

    Gli enti erogatori potrebbero incoraggiare la crescita e l’innovazione intervenendo sui contenuti dei bandi adottato una serie di misure:

    • incoraggiare partnership e tutoraggi fra soggetti piccoli e meno piccoli;
    • premiare le reti stabili e non occasionali;
    • premiare le strutture con una prevalenza di giovani e donne negli organi dirigenziali;
    • promuovere bandi con tempi più lunghi, con maggiore dotazione, più orientati a
    • sostenere partenariati concreti.

    Il paradosso dell’abbondanza

    Molti hanno manifestato il desiderio di indagare ulteriormente quello che possiamo definire il “paradosso dell’abbondanza”. 
Chi si occupa di analisi delle governance territoriali della cultura si trova spesso di fronte ad un paradosso.

    I progetti più innovativi (capaci di generare coesione sociale, radicali dal punto di vista della sperimentazione e soprattutto capaci di intercettare le istanze che emergono dai territori) sono spesso quelli che nascono nei territori nei quali l’intervento del settore pubblico è più scarso.

    I progetti che nascono in zone più ricche di opportunità, al contrario, tendono ad essere meno radicali e meno innovativi. Sono questi ultimi però che sono in grado di accedere a risorse economiche, formative e umani tali da garantire una sostenibilità economica nel tempo.

    I primi, al contrario, faticano enormemente e si rassegnano alla logica di “fare più con meno”. 
All’interno di questo paradosso si possono leggere sia le dinamiche tra un nord del paese irraggiato da reti di finanziamento relativamente capillari e un sud incomparabilmente più povero, così come la distanza tra aree interne e territori iper-connessi.

    I progetti innovativi che nascono in territori deboli sono spesso caratterizzati da:

    • una dimensione di urgenza (economica, sociale, culturale, politica) molto più forte che altrove;
    • l’abitudine ad agire in contesti caratterizzati da un alto tasso di informalità e da una diversa attenzione alle regole che permette di sperimentare maggiormente;
    • una maggior propensione all’autorganizzazione, su tutti i livelli.

    Studiare il paradosso dell’abbondanza e le dinamiche territoriali del rapporto tra qualità, efficacia, efficienza e radicalità dell’azione culturale potrebbe aprire la via a interventi più mirati e consapevoli sia nelle aree più ricche che in quelle caratterizzate da maggiore marginalità. La dicotomia fra Nord e Sud, aree interne e fascia costiera, dovrebbe incoraggiare la costruzione di reti e partnership nazionali. Se prevalgono, soprattutto da parte delle fondazioni bancarie, le logiche dei territori di riferimento come ambiti esclusivi di erogazione, la dicotomia permane e non può essere colmata dalla sola Fondazione con il Sud. La situazione è ancora più complessa se si pensa ai contesti del centro Italia, relativamente poco innervati dal punto di vista delle erogazioni. Da questo punto di vista, le prime edizioni di Funder 35 avevano forse offerto alcuni spunti che si potrebbero riesaminare.

    Le reti, i sistemi e la formazione

    Un importante elemento di riflessione è stato portato da alcune considerazioni sulla scarsità delle reti di secondo livello nel settore culturale.
 Il terzo settore nel suo insieme è caratterizzato da una consolidata attitudine a organizzarsi in reti associative di diversa natura; attitudine, questa, che sembra essere poco presente nell’ambito culturale.

    Le ragioni principali di questa scarsa densità sono da ricondursi principalmente a due ordini di motivi. 
Il primo ha a che fare con la natura stessa delle organizzazioni. Nel terzo settore che opera nell’ ambito sociale, molte strutture nascono per rispondere direttamente a specifiche esigenze di welfare sui territori; è inevitabile quindi che la loro esistenza sia concepita sin da subito come parte integrante di reti di sussidiarietà orizzontale e verticale, filiere, consorzi.

    Le organizzazioni culturali, al contrario, nascono per dare seguito a urgenze culturali ed espressive fortemente puntuali e vincolate a specifici linguaggi, pratiche e patrimoni; proprio l’unicità delle loro vocazioni rende piuttosto difficile il sentirsi parte di disegni più ampi.

    Il secondo ordine di motivi ha a che fare con la diversa disponibilità di risorse. In un contesto come quello del terzo settore culturale, caratterizzato da un alto tasso di competizione per l’accesso a risorse scarse, faticano ad innescarsi logiche di cooperazione virtuose.
 E tuttavia la frammentazione e la dimensione micro delle organizzazioni del settore non può essere un alibi per giustificare uno stato di sostanziale inerzia, su questo versante, che rischia di compromettere la crescita e lo sviluppo di tante piccole quanto dinamiche realtà.

    Pertanto favorire attivamente la nascita di reti del terzo settore culturale potrebbe consolidare la qualità, l’efficacia e l’efficienza della progettazione culturale ed innescare meccanismi virtuosi di co-progettazione sia in senso orizzontale (all’interno di reti, consorzi e filiere) che in senso verticale (in relazione con gli altri stakeholder dei territori, in un’ottica di governance culturale allargata).

    In questo scenario, alcuni territori hanno lavorato per favorire la crescita di tavoli tematici o settoriali e per costruire piani di indirizzo e di sviluppo concertati tra settore pubblico, enti erogatori privati, organi strumentali e corpi intermedi di diversa natura. Potrebbe essere di estrema utilità raccogliere alcuni casi, studiarne le dinamiche e metterli a disposizione dei policy makers.

    È emerso in più interventi la debolezza delle capacità progettuali delle organizzazioni piccole e meno piccole. Più interventi hanno richiamato la necessità di organizzare una formazione di medio-lungo periodo, rivolta soprattutto alle strutture più piccole.
    Qui si apre un altro grande tema: chi e come fa formazione? Alcuni erogatori hanno fatto sperimentazioni significative con alcuni soggetti ma il tema resta aperto.
Senza questa attività di democratizzazione delle competenze di progettazione c’è il rischio, denunciato in riunione, di una “prevalenza dei professionisti” nella costruzione dei progetti che non favorisce la crescita interna alle organizzazioni ma che, al contrario, costruisce un’omologazione e standardizzazione delle proposte.

    Impatti

    La questione degli impatti sociali è stata assunta come prioritaria nella governance del terzo settore. Questa urgenza si riscontra, in qualche modo, anche nel settore della progettazione culturale, coerentemente con la crescente domanda di sviluppo di percorsi di coesione sociale a base culturale.
Molti bandi in anni recenti hanno inserito tra i criteri richiesti un’analisi di impatto dei progetti presentati. Tuttavia, il mondo degli operatori fatica ad adeguarsi a questa logica per una serie di motivi.

    Innanzitutto, viene percepita diffusamente la mancanza di punti di riferimento interni al settore o adottabili da altri settori: c’è una richiesta, forte ma poco rappresentata, di benchmark e riferimenti pratici e teorici

    In secondo luogo, stabilire e sviluppare delle prassi di misurazione degli impatti implica risorse dedicate che sono a disposizione solo delle organizzazioni più grandi.

    Inoltre, sempre che siano rilevabili, gli impatti delle iniziative culturali sono spesso estremamente diluiti nel tempo e vanno oltre l’arco temporale dell’erogazione e dello svolgimento del progetto.

    Infine, visto che le iniziative culturali non si svolgono in contesti “in vitro”, anche per i progettisti è particolarmente difficile identificare degli indicatori affidabili e realistici.

    Il risultato di questo disallineamento è che alla domanda di sviluppo di sistemi di valutazione, autovalutazione e misurazione molte organizzazioni rispondono in forma critica considerando la questione come un’imposizione da parte di un sistema burocratico che non coglie le loro motivazioni ed i loro obiettivi.

    C’è quindi la necessità di aprire una discussione sistematica sugli aspetti strategici della valutazione, che potrebbe tendere alla costruzione di sistemi di riferimento su impatti, valutazioni e misurazioni ad uso del terzo settore culturale.

    Note