Local impact fund: il modello inglese

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    Certo “Local impact fund” suona molto meglio di “fondo rotativo cofinanziato”, ma si sa: gli anglosassoni sono bravi a confezionare quel che fanno, anche in campo finanziario, ricorrendo a denominazioni cool.

    Perché, al fondo, di questo si tratta: il fondo di impatto locale in corso di sperimentazione a Liverpool non è altro che un fondo di rotazione costituito in parti uguali da risorse provenienti dalla Social Investment Business Foundation – la fondazione che si affianca alla omonima società d’investimento e che collabora, tra gli altri, con Big Society Capital – e dal fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr).

    In totale due milioni di sterline investiti in due round (il primo in corso, il secondo è previsto tra il 2017 e il 2019) con tagli che vanno da un minimo di 50mila a un massimo di 250mila, a tassi variabili tra il 6% e il 12% spalmati su un periodo temporale superiore ai 5 anni. Un’offerta non propriamente vantaggiosissima, ma sono prestiti catalogati ad alto rischio e che non prevedono la sottoscrizione di garanzie da parte dei beneficiari. Alla fine del periodo di attuazione (dieci anni), la metà delle risorse restituite dai beneficiari andranno a costituire una “eredità” (una specie di tesoretto?) per le imprese sociali del territorio che potranno utilizzarla come leva per l’accesso a ulteriori risorse d’investimento.

    Sarebbe facile chiudere la vicenda con un po’ di spocchia (tipicamente briton peraltro), affermando che iniziative come questa si sono già viste e che quindi dopo la sbornia dell’innovazione finanziaria a elevato “impatto sociale” come i social impact bond, ci si risveglia con un più tradizionale fondo di rotazione per imprese sociali.

    Ma in realtà questa iniziativa – che peraltro farà da pilota per altri fondi simili nel Regno Unito – contiene almeno un paio di apprendimenti utili, anche per coloro a cui “il modello inglese” di finanza e impresa sociale non piace.

    In primo luogo il Local impact fund di Liverpool insegna che, con la giusta “volontà politica” (che significa anche capacità di lobby) si possono superare gli ostacoli normativi alla costituzione di fondi misti che prevedono una quota di cofinanziamento da parte di risorse di origine europea.

    Il Fesr in particolare è stato individuato come il fondo più coerente da utilizzare come risorsa finanziaria per investire su iniziative di social business che facciano da motore di sviluppo locale. Una modalità e una strategia d’uso ben diversa dalle sovvenzioni settoriali destinate anche a soggetti nonprofit (tipicamente via Fondo Sociale Europeo). Si tratta quindi di una policy facilmente scalabile, a patto di centrarla sulla dimensione locale più adeguata.

    Certamente in ambito urbano (come dimostra il caso di Liverpool), ma potrebbe essere ugualmente efficace nelle italiche aree interne dove il tema è ricostruire modelli di gestione e governance dei servizi pubblici incentrati su imprese comunitarie. Tutto questo è reso possibile, oltre che dalle risorse economiche, da un più articolato “ecosistema” di competenze che accompagni i soggetti beneficiari nella definizione di progettualità complesse, come non mancano di sottolineare, ancora una volta, i gestori del local impact fund.

    Il secondo apprendimento è legato ai destinatari del fondo. Pioneer Post riporta due progetti che, guarda caso, riguardano iniziative di produzione culturale finalizzate all’inclusione e alla coesione sociale. A dimostrazione che, dopo averla molto evocata, la cultura è in effetti un driver sempre più consolidato per rigenerare welfare e imprenditorialità sociale.

    Da questo punto di vista il fondo rappresenta una sorta di “mezzanino” per colmare il divario, ancora piuttosto ampio, tra il sostegno a iniziative d’impresa culturale assicurato da erogazioni provenienti da fondazioni e altri donors e la finanza di investimento che forse non è ancora riuscita a interpretare e quindi a sostenere i nuovi business model culturali.

    Un insegnamento non da poco, considerando le caratteristiche dell’imprenditorialità culturale nostrana e le iniziative – come quella promossa da Make a Cube – che accompagnano le sue declinazioni più innovative. In sintesi: qualche fondo a impatto locale in più potrebbe rappresentare lo strumento giusto per un’imprenditorialità che ridefinisce in chiave di interesse collettivo la produzione culturale, ma che fino ad oggi ha faticato ad emergere anche nell’ambito del dibattito sulla riforma normativa del terzo settore e dell’impresa sociale.

    E se rimanessero ancora dubbi non resta che affidarsi alle affinità elettive: non trovate che l’impresa sociale “The reader organization” finanziata dal local impact fund inglese assomigli, e non poco, a Liberos, il vincitore della prima edizione di cheFare?

    Note