Orrore vs Terrore. Spazi pubblici e sicurezza

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    Nizza, Berlino, Londra, Stoccolma, Parigi e infine Barcellona. Dal 14 luglio 2016 al 17 agosto scorso, le città preferite dal turismo culturale e balneare occidentale sono state colpite dalla più recente tipologia di attenti jihadisti, oltre cento le vittime innocenti, centinaia i feriti.

    Il modus operandi è comune, improvviso: camion, furgoni e autoveicoli attraversano ad alta velocità spazi pubblici affollati falciando chiunque si trovi lungo la loro linea di morte.

    Un tipo di terrorismo diverso rispetto a quello di Al Qaeda, coordinato da una rete clandestina molto strutturata e ben solida, gli attentati più recenti delineano un processo di progressiva frammentazione in cellule, il Cesi (Centro studi internazionali) rileva come “L’Isis ha destrutturato l’elitarismo di Al Qaeda, dove per operare occorreva essere iniziati e aderire a un’ideologia profondamente radicata. L’Isis invece lancia un messaggio jihadista generico, invitando tutti a lottare contro gli infedeli con qualunque mezzo, anche semplice. Un concetto ben lontano dall’idea del foreign fighter che va in Siria a fare esperienza operativa”.

    Sì perché le armi a disposizione, di questi nuovi terroristi, sono facilmente reperibili: veicoli rubati o presi a noleggio, bombole di gas, finte cinture esplosive, coltelli.

    Le città europee sono investite dalle correnti imprevedibili di un fiume carsico, che affiorano improvvise secondo una casualità che sfugge alle più sofisticate azioni di prevenzione delle agenzie di sicurezza.

    Siamo di fronte alla follia generalizzata di piccoli gruppi spontanei che intraprendono un autonomo percorso di auto radicalizzazione attraverso la rete. Relazioni che si concretizzano spesso in contesti dove il contatto umano tende a scomparire, sacche di radicalismo violento che trovano il loro terreno di crescita nelle fragilità e povertà della società delle aree metropolitane.

    Questo lo stato grave delle cose, che va segnando l’acuirsi di un diffuso senso di impotenza, che anima sentimenti di rancore, che neutralizzano qualsiasi comune sforzo di analisi e alimentano solo ignoranza e razzismo.

    Ci assale la percezione di angoscia, siamo tutti vittime indifese della follia, una guerra combattuta da un gruppo minoritario di lupi solitari che abbracciano un nichilismo orfano di un’identità apparente.

    Un conflitto, che seppure manifesta le coerenze di possibili geografie nei grandi sistemi urbani europei, non ha più le regole classiche del terrorismo che pianifica il dolore, dobbiamo difenderci da un sistema senza alcuna pianificazione, quasi invisibile.

    Si diffonde un bisogno di misure di sicurezza più efficaci, ci si interroga su come migliorare la collaborazione tra le forze di polizia in Europa, affinare l’intelligenza geo –strategica, la paura si nutre di diffidenza nel diverso mentre dovremmo tutti comprendere come affermare costantemente il valore universale della vita.

    Non a caso il terrorismo concentra le proprie azioni di morte nei luoghi simbolo delle città dove più intensamente si manifestano le relazioni vitali delle persone, gli spazi pubblici più preziosi, il lungomare di Nizza, il mercato di Natale di Breitscheidplatz, allestito nelle strade di Charlottenburg, nel centro di Berlino, Westminster Bridge a Londra fino al recente assalto alla Rambla di Barcellona a pochi metri da Plaça de Catalunya.

    Quale immediata e spaventosa conseguenza, percepiamo proprio nei luoghi delle città dove identifichiamo i nostri sentimenti di appartenenza e in cui fino a poco tempo fa sentivamo la protezione della storia e dalla nostra cultura, li riconosciamo essere diventati spazi di pubblica vulnerabilità.

    Ciò che sta succedendo è sotto gli occhi di tutti, nelle ultime settimane, in uno dei momenti dell’anno di maggiore intensità dei flussi turistici, le amministrazioni comunali hanno approntato speciali misure di prevenzione.

    Ad una iniziale militarizzazione degli accessi dei centri storici si è provveduto a sistemare sulle soglie più critiche e sensibili ogni forma di barriera. Queste forme di brutale dissuasione, transenne, paracarri, monoliti di cemento, hanno ferito le nostre sensibilità.

    L’ambiente urbano dell’ozio e delle passeggiate, piazze e viali pedonali, si sono trasformati in recinti sgradevoli. Un catalogo di aggeggi a strisce bianche e rosse, metalli zincati e cementaccio invade improvvisamente i suoli di pietra della città aulica.

    Sono bastati pochi giorni, l’inevitabile polemica è divampata sulle cronache, sindaci e assessori si difendono trincerandosi convinti di aver dato risposta all’urgenza con le forme essenziali di ciò che le esigue casse comunali permettono.

    La polemica avrebbe potuto avviare una proficua discussione pubblica, coinvolgendo la stampa nazionale sul valore culturale, per la nostra società, di saper salvaguardare e progettare il suolo dei nostri spazi pubblici. Rispondere con la volontà e il linguaggio del progetto a questo improvviso cambio di stato.

    Avremmo potuto imparare, una volta di più, in queste ultime settimane che le nostre città sono il teatro vitale delle nostre esistenze e che gli spazi che condividiamo meriterebbero una maggiore cura e attenzione.

    Trovare le vie politiche per richiamare l’attenzione della comunità europea sulla necessità di disporre un cospicuo fondo finanziario da mettere a disposizione delle grandi aree metropolitane per avviare progetti che trovino soluzioni adeguate alle nuove forme necessarie di sicurezza degli spazi pubblici. Superare con una svolta culturale importante. facilmente condivisibile da tutti, lo strazio degli arredi urbani da catalogo.

    Purtuttavia le cose sono andate diversamente, Stefano Boeri, uno dei più riconosciuti architetti italiani, consapevole delle difficoltà di sostenere idee di progetto più robuste e ambiziose, accorre in soccorso delle amministrazioni e lancia un appello semplice: la vegetazione ci proteggerà dagli assalti terroristici, gli alberi saranno gli alfieri a difesa dei nostri spazi pubblici, filari di alberi in vaso, grandi vasi, alti un metro, dal diametro di tre, alberi importanti, come la quercia.

    A supporto della sua proposta, S.B. sceglie una nobile citazione, l’opera di Joseph Beuys pensata per la città di Kassel per l’edizione di Documenta 7 del 1982. Settemila pietre di basalto accumulate davanti al museo Federiciano verranno vendute per finanziare la piantumazione di altrettante querce nei viali della città.

    L’idea di Boeri attecchisce in poche ore, invade i social, la discussione è fitta, c’è chi la trova un’ottima idea, altri discutono sul rischio filologico di mortificare con le chiome degli alberi le visuali degli spazi urbani, altri ancora fanno notare che si tratta comunque di interventi non così economici, servono manutenzione e impianti automatici di irrigazione dell’acqua, eppure da Torino, Firenze, Bari i sindaci e gli assessori rispondono che sì, sì può fare.

    Firenze convoca subito un tavolo di lavoro, verranno coinvolte le scuole, si parte. L’idea appare tanto ovvia e proprio per questo geniale, i maligni leggono nella proposta di S.B. come il velato tentativo di affermare un gesto che di fatto rappresenta, in questa fase della sua attività, i connotati di una vera e propria cifra stilistica.

    Lui che dopo anni di nobile impegno professionale e lavoro teorico ha affermato la propria carriera a livello internazionale con un progetto molto dibattuto e controverso di un grattacielo zeppo di alberi, nel centro direzionale ai margini proprio del quartiere Isola, simbolo di tante lotte sociali a Milano, il bosco verticale.

    All’ipotesi degli alberi in vaso si contrappone un fronte di scettici, sostengono che in fondo i blocchi di cementaccio sono utili e costano meno, basterebbe decorarli, liberando la creatività della street art, o chi come Franco Noero, gallerista di una sofisticata galleria d’arte contemporanea, invita a considerare l’ipotesi di coinvolgere artisti e musei nella produzione di sculture che al contempo siano interessanti artisticamente e funzionali per la sicurezza.

    In questo corto circuito di linguaggi sovvengono alla mente i diabolici interventi sulle architetture, Parigi ne è piena, per evitare lo stazionamento dei senzatetto, zoccoli, muretti, porticati ricoperti di spunzoni metallici, vetri taglienti e superfici diamantate.

    Nelle prossime ore può essere che la discussione sul destino dei nostri spazi pubblici torni a languire.

    A questo punto delle cose. approfondire il grado di analisi è diventato più complesso, ottenuti i titoli a pieno campo sui giornali è il momento di mettersi a ragionare, fare distinguo, scegliere, appunto progettare.

    Cose difficili che il nostro Paese ha ripetutamente dimostrato di non saper fare. Così la proposta di verniciare di colori un blocco di cemento rappresenta di fatto un doppio colpo, uppercut e gancio, da un lato si sottrae agli architetti la responsabilità professionale di affrontare e disegnare con serietà e competenza i nuovi assetti di sicurezza di questi inediti spazi di vulnerabilità urbana, dall’altro si umilia il ruolo espressivo dell’arte a una mera chiamata alla decorazione del cemento, e di questa triste, doppia miseria si fa vanto di ricchezza.

    E proprio su questo, la proposta di S.B. svela tutta la sua fragilità e il mio personale disagio, nell’era dei social è delicato perdere il controllo delle proprie convinzioni.

    In questo caso il rischio è di diventare vittime di chi sulla mancanza di confine fra arte e architettura, fa proprio un territorio su cui piantare la bandiera per governare processi di consenso e legittimazione.

    L’invito che rivolgo in primo luogo a S.B., agli artisti e agli architetti è di prendere voce, con fermezza su questo tema delicato e serissimo.

    Elevare il grado di analisi critica e portare alla discussione la grazia del linguaggio e i contenuti culturali del buon progetto. Per recuperare il valore urbano della bellezza vitale capace di includere e non dividere, sgomberando definitivamente il campo dalle inutili e sfilacciate trame di chiacchiere e sciocchezze che rischiano esclusivamente di sostituire l’orrore al terrore.

    Note