Fa buio. Nel secolo ancora non è mezzanotte, ma quello da poco nato sembra cominciare sotto cattivi auspici: il nazionalismo esacerbato, la xenofobia rivendicata con orgoglio, il fondamentalismo religioso che dichiara guerra, i cui volti più inquietanti assumono la forma di un desiderio di morte, fenomeni che ricordano gli orrori del secolo trascorso nei loro risvolti più tragici.
Nelle diverse varianti del neofascismo contemporaneo, si fanno giorno strane alleanze nelle quali la pressione capitalistica più sfrenata e più criminale si mischia a forme di irredentismo identitario tra le più variegate.
La globalizzazione del neoliberismo, lungi dal partorire un mondo pacificato nel commercio, come pretendeva l’irenico Vangelo dei suoi predicatori, è il terreno fertile di uno scontro sanguinoso tra identità, che fa sembrare il fondamentalismo religioso e il fondamentalismo del mercato come due versioni complementari della reazione postmoderna.
Ritorno alle origini, ripiegamento sulla comunità di appartenenza, sottomissione assoluta alla trascendenza: la grande regressione che abbiamo davanti è portatrice di nuovi disastri, c’è da starne certi.
La paralisi del pensiero di fronte alle forme più mortifere di questa regressione è tale da farci sembrare un’impresa titanica quella di aprire nuovi possibili, come affascinati dallo spettacolo del peggio. Ma non c’è altra scelta. Anzitutto, occorre guardare con lucidità la condizione alla quale siamo ridotti.
Pubblichiamo un estratto da Guerra alla democrazia di Pierre Dardot e Christian Laval (DeriveApprodi)
Come mettere in cantiere l’elaborazione di un’alternativa al neoliberismo? Un prerequisito di metodo è d’obbligo. Se non può esserci altra contestazione al liberismo se non nell’opporgli nuove forme di vita, occorre allora guardare a coloro che inventano e sperimentano tali forme. Non c’è niente da aspettarsi dai partiti e dagli apparati che si contendono il riconoscimento dello Stato e da essi attendono posti e sovvenzioni. Perché abbia qualche possibilità, l’elaborazione di un’alternativa può venire solo dal basso, cioè dai cittadini. Il che non significa che occorra riannodare in modo puro e semplice i fili interrotti del cahiers de doléances.
Occorre, invece, smetterla di rivolgere rimostranze a rappresentanti indegni di essere rappresentanti. Il presente impone di mettere radicalmente in discussione la logica stessa della rappresentazione politica, anzitutto nel modo di elaborare il progetto alternativo. Perderemmo qualunque credibilità nel voler separare il «modo» di elaborare tale progetto dal con- tenuto di questa alternativa. Se, come crediamo, il contenuto non può essere altro che quello di una democrazia spinta fino all’estremo, l’elaborazione dell’alternativa deve già essa stessa consistere nella sperimentazione di una tale democrazia, ovvero nella sperimentazione di un comune politico.
Affidare questa elaborazione a tecnici ed esperti renderebbe sterile la pretesa di costituire una vera alternativa o, peggio, finirebbe col portare acqua al mulino del neoliberismo. Lo abbiamo visto poco sopra, la governance liberale svilisce la democrazia elettorale in nome dell’expertise. L’esperienza alla quale fa appello è l’esperienza non condivisa dei banchieri e dei manager. In questo senso, il neoliberismo rappresenta il sequestro dell’esperienza comune attraverso l’expertise: solo l’esperienza della quale si fa garante l’esperto ha valore di esperienza, mentre l’esperienza comune viene squalificata come incompetenza. Invocare, contro l’expertise finanziaria-manageriale, una qualunque «expertise politica» significa, che lo si voglia o meno, accettare la logica di questa confisca.
Eppure non è più sufficiente fare appello all’esperienza comune. Ciò che importa non è tanto riabilitare l’esperienza comune quanto ridare tutto il suo peso all’esperienza del comune, ovvero all’esperienza di una copartecipazione alle questioni pubbliche.
In gioco c’è la differenza tra ciò che è comune e il comune. Per questo l’espressione «democrazia partecipativa» non basta: qualunque democrazia è partecipazione diretta alle cose pubbliche (e non solo alle elezioni dei rappresentanti). Qui sta precisamente il senso di quello che abbiamo chiamato il «principio del Comune». Un’esperienza che è comune, perché ordinaria, non significa che sia un’esperienza del comune. Al contrario, un’esperienza del comune può essere oggetto della maggiore condivisione e in questo senso diventare un’esperienza comune.
Vale la pena ricordare che la democrazia ateniese si è premunita contro il rischio della formazione politica dell’expertise. Qui gli esperti avevano lo statuto di «schiavi pubblici» (demosioi), erano cioè di proprietà dell’intera polis e non di singoli cittadini.
Questi schiavi svolgevano un certo numero di mansioni indispensabili alla continuità della vita civile: gestione degli archivi pubblici, gestione della moneta, inventario dei beni pubblici, controllo contabile dei magistrati in carica… In una polis nella quale vigevano il rinnovo annuale dei magistrati e il principio della non iterazione per tutti i magistrati, estratti a sorteggio, questi schiavi restavano spesso in funzione diversi anni di seguito, cosa che gli conferiva un certo potere sui membri della comunità civile. Affidando la propria amministrazione a esperti che non avevano alcun ruolo nelle delibere e nella decisione pubblica, la polis intendeva difendersi dal pericolo che la «statalizzazione» avrebbe potuto far correre alla sua stessa esistenza.
Questa istituzione ricorda così che la libertà degli uni ad Atene si traduceva nella schiavitù degli altri, ma testimonia anche «della resistenza della comunità civile all’avvento dello Stato inteso come istanza separata dalla società», o del rifiuto di un apparato politico capace di imporsi sull’«accordo istituente» che fonda la comunità dei cittadini uguali o politeia. Se l’expertise era esplicitamente esclusa dall’ambito politico, è perché il sapere dell’esperto non doveva in alcun modo costituire un titolo all’esercizio del potere politico.
L’originalità della democrazia in questo senso è quella di invalidare il teorema della giuria di Condorcet, secondo il quale l’elaborazione della decisione è una funzione «del livello di expertise di ciascuno dei partecipanti al processo deliberativo».
Quello che fa la qualità della delibera in un’assemblea non è tanto l’expertise di ciascuno dei partecipanti, quanto la messa in comune dell’esperienza da parte della massa dei non esperti, ovvero da parte di coloro che presi singolarmente risulterebbero degli «incompetenti».