La città autistica

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    La città autistica di Alberto Vanolo (edito da Einaudi), professore associato di geografia economico-politica presso il Dipartimento di Culture, Politiche e Società dell’Università degli Studi di Torino, è un saggio divulgativo che riflette sul rapporto tra autismo e città. Comunemente, l’autismo è inteso come un disturbo del neurosviluppo che interessa aspetti del comportamento sia comunicativi, sia sociali e cognitivi. Tema centrale del libro è l’autismo in quanto esperienza che si realizza nello spazio urbano, intrecciando sfera personale e pubblica, incluso lo spazio dell’immaginazione collettiva e politica.

    Quello che rende originale il testo è la narrazione, e cioè il modo in cui l’autore restituisce le proprie esperienze dirette e capacità di osservazione con le competenze di studioso, combinando stili di scrittura differenti (scientifico-divulgativa, autobiografica, etnografica). Le riflessioni contenute in La città autistica derivano dall’essere genitore di una persona autistica. Queste esperienze personali sono descritte in modo dettagliato, spesso includendo sentimenti, emozioni, posizioni e giudizi, ma sempre contestualizzate all’interno di un quadro più ampio, che include prospettive sociali e ambientali, oltre che mediche. Queste prospettive sono poste in costante dialogo con l’autore e la città in cui risiede (Torino). La storia personale diventa il veicolo attraverso cui l’autismo è esplorato in quanto categoria medico-scientifica e sociale, mettendo insieme la profondità e capacità di scrittura di un ricercatore con le intuizioni teoriche della geografia culturale e urbana.

    Il libro è strutturato in quattro capitoli seguiti da una raccolta di proposte generali per una città più inclusiva verso chi vive una condizione di neurodivergenza.

    Nel primo capitolo, «Il potere delle categorie», Vanolo esplora gli ambiti di produzione dell’autismo come concetto epistemico, ossia come risultato di un processo di produzione di conoscenza. Questo processo implica, almeno nella tradizione scientifica e culturale occidentale, una serie di strategie per indicare, classificare e comprendere i confini tra neurotipicità e neurodivergenza. Il capitolo fornisce una sintesi delle teorie mediche (genetiche, ambientali e comportamentiste) e, al contempo, attingendo alla narrazione letteraria, cinematografica e televisiva, crea un dialogo con filoni critici delle scienze sociali, in particolare con le teorie femministe e di critica razziale, inclusi gli studi queer e quelli critici sulla disabilità, noti anche come teoria crip. Il nome crip deriva da cripple, insulto usato in lingua inglese nei confronti di persone con disabilità, riappropriato e rovesciato nel suo significato per creare una teoria di affermazione intersezionale e culturale della disabilità. Per un approfondimento si rimanda al libro di Robert McRuer, Crip Times: Disability, Globalization, and Resistance, pubblicato nel 2018 dalla University of New York University Press. L’autore esamina l’idea stessa di autismo come categoria con l’obiettivo di erodere i confini della sua apparente staticità. Vanolo ci presenta l’autismo come un sistema di norme medico-diagnostiche, modelli di misurazione, aspettative sociali, stereotipi, legami strutturali tra neoliberismo e abilità obbligatoria che affermano, producono e riproducono la superiorità neurotipica su ogni forma di neurodiversità. L’autore sottolinea come la categoria di autismo non è mai neutrale ma è il risultato di relazioni sociali e di potere, come ogni tentativo di creare categorie, misurare e classificare un fenomeno specifico. Decenni di attivismo hanno trasformato profondamente la definizione di autismo e il modo di inquadrare le neurodiversità, sostituendo un approccio medico spesso teso a localizzarla come patologia all’interno dei singoli corpi, con un modello sociale e ambientale in cui tutte le persone sono riconosciute come aventi menti, corpi e capacità diverse.

    Il discorso non si limita all’autismo e, non a caso, si utilizza spesso il termine di neurodiversità come condizione più ampia, che si sviluppa nell’interazione relazionale con fattori sociali e fisici. Tutte queste riflessioni sono radicate in quel vasto campo di ricerca sugli spazi pubblici e la politica dei corpi, i processi di trasformazione urbana entro cui si inseriscono relazioni, pratiche quotidiane e immaginari. Contestualizzata nell’infrastruttura urbana, tuttə nel corso della vita faremo esperienza di forme di disabilità. La città capitalista «disabilita», e cioè ci pone difronte ad una serie di esperienze che nel corso della vita potremmo percepire come disabilitanti e difronte alle quali potremmo attivare forme di resistenza e raggiramento. Questo avviene poiché le città sono costruite su presupposti neurotipici, che includono più facilmente persone abili, performanti e normodotate, quindi più facilmente allineabili con gli standard di vita urbana. Eppure, dalla prospettiva di padre, caregiver e studioso, la città assomiglia a uno spazio ludico in cui l’atto concreto del camminare e del prendere un mezzo pubblico possono attivare processi di auto-apprendimento e consapevolezza che variano enormemente da persona a persona, da caregiver a caregiver.

    L’inclusività dello spazio passa dal nostro modo essere sociali

    Portando l’attenzione sul camminare, nel capitolo successivo intitolato «Spazio e autismo», l’autore ci mostra come l’autismo prende forma nella città, nelle forme dell’attraversare e la relazionalità che essa impone, enfatizzando i margini di un territorio familiare, sottolineando la fluidità dell’urbano. Ispirandosi all’esperienza culturale e letteraria delle passeggiate situazioniste e psico-geografiche, e attingendo a memorie personali di derive urbane, l’autore esamina come ambienti e infrastrutture influenzano la gestione e negoziazione pubblica di fenomeni di crisi, difficoltà collegate a percezioni sensoriali, note anche come meltdown. Gli ambienti e le infrastrutture comprendono contesti geografici disparati: le persone che si incontrano nello spazio pubblico, le scarpe, i mezzi pubblici di trasporto, le strade, le regole di convivenza sociale, i semafori, i parchi, il rumore, le tipologie di illuminazione, gli esercizi commerciali e i sistemi tecnologici di localizzazione digitale. La passeggiata è una pratica autistica che si sviluppa nell’interazione tra soggetti neurodivergenti, caregivers e le qualità socio-spaziali. Queste qualità socio-spaziali possono funzionare da trigger in modo considerevolmente differente tra una persona autistica e l’altra, determinando strategie di camuffamento e mascheramento diverse. In un modo quasi viscerale, l’autore ha sperimentato ciò che probabilmente ha insegnato per anni, ovvero che diverse infrastrutture possono dare vita a specifiche attività, interazioni, intimità ed emozioni, come anche la vergogna. Il libro porta a una consapevolezza fondamentale: ci mostra come le caratteristiche socio-spaziali di un luogo abbiano implicazioni significative, a volte inattese, per l’esperienza dell’autismo. Allo stesso tempo, ci fa interrogare sulle possibilità concrete di progettare ambienti urbani maggiormente piacevoli e inclusivi, perché la pluralità di esperienze autistiche non sono riconducibili a una modalità spaziale omogenea di progettazione di ciò che ci circonda.

    In questo modo di situarsi attento e narrativamente piacevole, il capitolo successivo «Scene di vita urbana» prova a rispondere alla domanda «quale tipo di città autistica possiamo sognare e desiderare?». L’autore non fornisce allə lettricə una risposta cristallizabile, una ricetta pronta, poiché il progetto di città autistica non può limitarsi ad un insieme di caratteristiche sociali, culturali e spaziali. La domanda, infatti, invoca una riflessione sul diritto alla città. Con l’espressione «diritto alla città», mi riferisco all’affermazione e riconoscimento di modi radicalmente diversi di stare, fare cose e vivere lo spazio urbano e come la città dovrebbe aprirsi a forme di convivenza e modalità di relazione con identità sociali sempre multiple e intersezionali. Dal livello socio-spaziale, quindi, la riflessione si amplia arricchendosi di elaborazione politica e scegliendo il diritto alla città come metodo che informa i capitoli successivi. Da questa prospettiva, si approfondisce il ruolo della passeggiata come pratica terapeutica, di resistenza e detournment, per usare un vocabolario psico-geografico, che mette in luce i tentativi «punk-autistici» di raggirare, sospendere, negoziare i processi di normalizzazione sia nello spazio pubblico sia in ambito terapeutico-educativo. Di fronte ad una città neoliberale e consumista che governa i corpi per indirizzarli verso pratiche di consumo standard, la riflessione proposta da Vanolo ci spinge a domandarci se sia possibile cambiare l’«infrastruttura dell’individualismo», secondo la definizione di Elizabeth Roberts, che ci fa sentire indipendenti dagli altri, quello che l’antropologa Elizabeth Roberts chiama (Roberts, 2016). L’autore cerca di farci vedere lo spazio urbano come uno spazio di tensione, in cui differenti percorsi inclusione ed esclusione coesistono, senza necessariamente risolversi in uno o nell’altro percorso.

    Nel capitolo successivo, «Tattiche queer», l’autore amplia ulteriormente la riflessione tracciando un percorso per le geografie urbane autistiche che si salda con le traiettorie d’azione e dibattiti dei movimenti queer e transfemministi. Nel costruire questa risonanza e alleanza, l’autore non si limita a sottoscrivere un posizionamento che celebra una dipendenza inevitabile e reciproca tra corpi, spazi, tecnologie ed elementi inanimati e organici, una celebrazione dell’inclusività che mette in mostra le differenze, con il rischio di disinnescarne il potenziale critico e di trasformazione. Quello che queste pagine contribuiscono a fare è dare ulteriore presenza all’autismo, rivendicando la città autistica in quanto spazio di affermazione che spesso stride, richiede impegno e attenzione, anche da parte di unə passantə, di chi gestisce un pub o una pizzeria. Assumendo una postura queer dello spazio urbano, l’autore ci ricorda ancora una volta come l’autismo sia una condizione fortemente determinata dall’esperienza del soggetto e dal modo in cui quello stesso soggetto performante si muove e risignifica lo spazio.

    Quello che rimane dalla lettura di La città autistica è la forte consapevolezza di come l’inclusività dello spazio urbano passi anche attraverso il nostro modo di essere sociali, di posizionarci costantemente nella tensione tra interno e esterno, biologico e sociale, personale e pubblico. La dimensione individuale della neurodiversità è portata ad un livello collettivo, senza romanticizzare la sofferenza e vulnerabilità, forzandoci invece a ripensare autonomia, intimità e cura.

     

    Bibliografia
    Roberts, E. F. S. (2016). Gods, Germs, and Petri Dishes: Toward a Nonsecular Medical Anthropology. Medical Anthropology, 35(3), 209–219.

     

    Immagine di copertina di Amsterdam City Archives su Unsplash

    Note