Il movimento ci rende liberi? La mobilità contemporanea

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    Se io ho questo nuovo media, la possibilità cioè di veicolare un numero enorme di informazioni in un microsecondo, mettiamo caso ad un aborigeno dalla parte opposta del pianeta, ma il problema è… aborigeno ma io e te che cazzo se dovemo dì?

    Forse Corrado Guzzanti aveva capito tutto già qualche anno fa. Non basta avere a disposizione strumenti tecnologici sensazionali, se non sappiamo o non vogliamo farne uso. È proprio questo il paradosso che stiamo vivendo negli ultimi tempi: grazie a infrastrutture e tecnologie digitali i nostri territori sono sempre più connessi, eppure le nostre società appaiono sempre più divise.

    Sempre più persone sfruttano possibilità di movimento mai viste prima nella storia dell’uomo, così come fanno le rotte commerciali e i processi di produzione, ma allo stesso tempo aumenta il desiderio di chiusura, illudendosi che basti tornare all’età delle frontiere per mettersi al riparo dai cambiamenti di un mondo sempre più interdipendente.

    Persino la divisione tra città e campagna è tornata d’attualità, mostrando approcci opposti – razionali o emotivi – alle trasformazioni sociali in corso.

    Sembra quindi che avere inedite, infinite opportunità di mobilità non basti per creare società più aperte, in cui persone e luoghi possano interagire con estrema facilità.

    Per questo, diventa importante chiedersi in che modo la mobilità ci permetta di prendere parte alla società. O meglio, a quale società ci permette di appartenere, e a quali soggetti lo rende possibile?

    La mobilità è fondamentale per ciascun individuo: permette di accedere alle opportunità messe a disposizione dalle città, rendendo possibile realizzare gli obiettivi di vita personali e partecipare alla vita collettiva.

    La mobilità come strumento chiave per società più coese è da anni al centro di filoni di ricerca accademica, nonché di politiche dedicate, sviluppate a livello nazionale ed europeo. Inoltre, mobilità e città sono ugualmente associabili ad ideali di dinamismo, cambiamento, libertà. È già dal Medioevo che lo sappiamo: Stadtluft macht frei, l’aria della città rende liberi.

    Del resto, la città non può esistere senza le interazioni permesse (anche) dalla mobilità. E non è una scoperta di oggi, se già negli anni Sessanta Melvin Webber affermava che “it is interaction, not place, that is the essence of the city and of city life”.

    Proprio grazie alla mobilità, diventa necessario parlare di urbano più che di città: riferirsi cioè non più ad uno specifico tipo di insediamento, dai confini ben definiti, bensì ad uno specifico modo di vivere, fatto di peculiari attività quotidiane e dinamiche socio-economiche, che richiede nuove categorie per comprendere ed affrontare le questioni affrontate da piani e politiche urbane.

    Basta però interagire con la città, o meglio, con l’urbano, per esserne parte? Il solco crescente tra città e campagna, con i loro modi opposti di definire problemi e soluzioni desiderabili, sembra mettere in dubbio questa possibilità. Le molteplici vite, anche segrete, delle società urbane non necessariamente interagiscono con quanto rimane fuori.

    Soprattutto se la città è vista come un nodo e i territori circostanti soltanto come aree a cui accedere per immetterne le risorse nei circuiti globali del mercato, come racconta Parag Khanna. Una visione neo-medievalista, fatta di nodi, reti… e grandi vuoti nel mezzo.

    Reti e sistemi di mobilità possono creare relazioni privilegiate e meccanismi di esclusione, contribuendo ad una vera e propria geografia del potere che garantisce le opportunità offerte dalla mobilità soltanto ad alcuni soggetti e territori.

    È il caso, ad esempio, dell’alta velocità ferroviaria: abitare a ridosso dei suoi pochi nodi apre le porte a collegamenti rapidi in grado di avvicinare tra loro le principali città italiane, almeno dal Piemonte alla Campania.

    Il riflesso di questi territori veloci, così ben collegati tra loro, sono però i territori lenti attraversati e non serviti dalle reti; territori che vengono rallentati dal passaggio di una ferrovia i cui servizi non sono direttamente disponibili se non nelle stazioni principali, a loro volta raggiungibili soltanto con collegamenti lenti e insoddisfacenti.

    Anche a causa del servizio che offre, la rete ad alta velocità non è parte dei paesaggi e dei territori che attraversa, ma è piuttosto una presenza estranea che risponde ad altre esigenze di mobilità, dividendo territori, proprio mentre ne unisce altri.

    mobilità, movimento

    Se non le infrastrutture, saranno allora le innovazioni tecnologiche a permettere migliori opportunità di spostamento per tutti?

    Non esattamente – non fuori dalle grandi città, almeno. Se infatti gli smartphone sono disponibili a tutti, i servizi innovativi a cui permettono l’acceso si limitano a servire le principali città italiane; i pochi tentativi di estendere tali servizi alle aree metropolitane adiacenti, come nel caso delle auto in condivisione, hanno spesso dovuto fare marcia indietro.

    Allora quanti, tra coloro che negli scorsi giorni hanno scaricato l’app di Uber come protesta contro i tassisti in sciopero, potranno davvero farne uso? Lo stesso sembra valere, purtroppo, per le innovazioni legate alle comunità di pratiche, che richiedono comunque una densità di domanda e alcune caratteristiche difficilmente rintracciabili al di fuori delle città più grandi.

    Fuori dalle città sono altre le pratiche di mobilità che emergono, mostrando, in forme diverse, legami profondi con le realtà territoriali più lontane da ciò che riconosciamo come urbano. Si tratta però di legami affettivi o di dipendenze forzate? A porre la domanda sono due fenomeni, evidenziati da recenti ricerche sulla regione urbana milanese.

    Il primo fenomeno fa riferimento ai pendolari che, per motivi di lavoro, ogni giorno percorrono lunghe distanze (di oltre 150 km). Si tratta della conseguenza congiunta della contrazione del mercato del lavoro e del miglioramento delle opportunità di spostamento, ad esempio grazie a nuovi servizi di trasporto pubblico su tragitti medio-lunghi.

    Un fenomeno che, per quanto numericamente contenuto, negli ultimi anni ha fatto registrare un considerevole aumento, in Italia come in Europa. Invece che trasferirsi nella città in cui si lavora, i pendolari su lunghe distanze scelgono di mantenere la propria residenza e raggiungere quotidianamente il proprio posto di lavoro.

    Si tratta però di scelte volontarie, legate alla volontà di mantenere la propria vita in contesti non urbani, o di decisioni dettate dall’impossibilità di poter davvero partecipare alla vita urbana, non potendo sostenere i costi che permettano di farne parte anche come abitanti?

    Il secondo fenomeno invece riguarda i più tradizionali spostamenti pendolari che dall’area metropolitana convergono ogni giorno su Milano. Da una parte, rispetto agli anni precedenti si nota una ridistribuzione dei flussi in movimento su base quotidiana: l’area di influenza di Milano cresce, così come i flussi in entrata ogni giorno, mentre diminuisce l’importanza di altri centri che erano emersi come polarità regionali, dando vita ad un modello policentrico.

    L’evoluzione economica dell’area milanese, anche alla luce della crisi nel mercato del lavoro, ha quindi dato nuova enfasi al ruolo della città capoluogo.

    Anche fuori dall’orario di lavoro, però, la città sembra offrire opportunità che invece sono assenti al di fuori: come mostrano i dati del traffico telefonico, i flussi pendolari diretti ai comuni a sud di Milano occupano una fascia oraria più tarda rispetto a quella degli omologhi spostamenti verso le aree fortemente urbanizzate a nord di Milano.

    Una differenza che può essere spiegata con la diversa dotazione di servizi e attività, maggiore nei centri a nord di Milano, che rende necessaria una permanenza più lunga in città per quanti, abitando invece nei comuni meridionali, intendano compiere attività o utilizzare servizi dopo l’orario di lavoro.

    Entrambi i casi sono soltanto due esempi delle relazioni nuove tra le città e ciò che urbano non è, così come permesse (anche) dalla mobilità. Possono essere intesi non come semplici spostamenti, ma come forme nuove di partecipazione alla vita urbana, accedendone alle opportunità grazie a pratiche di mobilità che permettono di superare alcuni limiti dei propri territori di provenienza (che siano le distanze dalle città centrali o le scarse dotazioni di servizi dei territori di origine).

    Non si tratta soltanto di flussi di mobilità, bensì del riflesso di più complessi elementi – stili di vita, preferenze, idee – che influenzano tanto i singoli, quanto le comunità che compongono. E ovviamente i territori in cui vivono, che richiedono di essere interpretati con nuove concettualizzazioni – come, tra le altre, l’idea di postmetropoli.

    Le nuove forme di mobilità configurano rapporti molteplici con i contesti urbani, richiedendo nuovi sforzi per ridurre il potenziale divario tra territori (e popolazioni) connessi ed esclusi. Intanto, sono necessari approcci tecnici e politici per affrontare le nuove pratiche che nascono dal bisogno di poter vivere l’urbano anche a scale inedite rispetto al passato.

    È il caso dei bus low-cost, come FlixBus, che permettono di fare periodicamente la spola tra le città in cui si lavora e le province d’origine. O ancora, è il caso della mobilità pendolare su lunga distanza, che usa i treni ad alta velocità (FrecciaRossa e FrecciaBianca) chiedendo abbonamenti dedicati.

    mobilità, movimento

    Sono solo due esempi di nuove pratiche che mostrano come per appartenere all’urbano e godere delle opportunità che mette a disposizione sia necessario coinvolgere dimensioni territoriali inedite. E non è un caso che entrambi, recentemente e in modi diversi, abbiano suscitato un aspro dibattito politico a livello regionale e nazionale, a partire dall’incapacità di riconoscere le nuove esigenze a cui servizi del genere rispondono.

    Le nuove forme di mobilità richiedono però anche uno sforzo interpretativo: quali sono le motivazioni, le finalità, gli stili di vita che riflettono? In una società in cui le tendenze alla chiusura sono sempre più forti, così come le dinamiche di segregazione, quale può essere il contributo delle politiche per la mobilità per contrastare tali processi?

    Diventa importante allora pensare servizi e politiche in modo da rompere l’isolamento di quanto resta al di fuori delle città – o, meglio, dell’urbano: e cominciare a romperlo a partire da alcune opportunità di base, come scuole, servizi e negozi, che sono fondamentali per garantire sufficienti occasioni per prendere parte alla vita delle proprie società.

    A poter garantire questo accesso di base possono essere tanto interventi dall’alto, quanto iniziative dal basso. Un obiettivo semplice e al tempo stesso decisivo: come ricorda Franco Cassano, non è (solo) con le grandi fughe in avanti, ma con il paziente lavoro con quanti rimangono indietro che si deve garantire lo sviluppo di una società e di ogni suo membro.

    In definitiva, si tratta di sforzi necessari per pensare quali società riteniamo desiderabili per il nostro futuro. Uno sforzo che già il sociologo John Urry faceva per immaginare i futuri sviluppi che avrebbero potuto riguardare la mobilità e, con essa, le nostre società.

    Considerando diverse forme di mobilità per persone, merci e informazioni, Urry dipingeva due scenari estremi: un’Hobbesiana guerra di tutti contro tutti, tra regioni in conflitto per l’uso di risorse scarse e l’adattamento ai cambiamenti climatici, e un Orwelliano panotpicon digitale, basato su un estensivo uso della tecnologia a scopo di sorveglianza. Nessuno dei due scenari appare particolarmente desiderabile.

    La sfida allora sta nel cercare una terza via che permetta di costruire società a cui tutti possano e vogliano prendere parte, anche attraverso la mobilità.

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