Venezia, campo San Giacomo da l’Orio. Dove, a detta di molti, ci giocano ancora i bambini. A garanzia di qualità della vita, di insediamento abitato, di quartiere (inteso come porzione del più ampio sestiere di Santa Croce) autentico. Lo sottolinea anche il noto portale Airbnb che definisce campo San Giacomo, “sicuramente una delle piazze più vive e vere della città”. I bambini qui ci giocano davvero perché escono da alcune delle numerose sedi delle scuole (primarie o di primo grado) che insistono nelle calle (vie) adiacenti. E per le sue dimensioni e la sua forma: una sorta di U allargata che abbraccia il perimetro dell’omonima chiesa. Così i più grandi giocano verso il lato sud e i più piccoli giocano verso il lat nord dove è meno rischioso che il pallone finisca in acqua o sui balconi delle case.
In una città iper turistificata il “campo dove giocano i bambini” diventa metafora di molte cose: di luogo di resistenza, di controtendenza, quasi di unicità. Un pezzo della città in cui gli abitanti sembrano semplicemente esserci: a fronte di una Venezia schiacciata dal peso delle migliaia di visitatori che ogni giorno si riversano al suo interno (per aria, per terra e per mare), che ne influenzano inevitabilmente l’aspetto e l’economia, trasformandola in un enorme museo a cielo aperto corredata di bar e ristoranti, terrazze nei campi e nelle fondamenta, alberghi nei palazzi storici o nelle stesse abitazioni.
Un destino che accomuna i centri storici di molte città e che qui si amplifica perché siamo in un’isola. In alcuni fine settimana l’accesso per via terra alla città lagunare risulta impossibile a causa dell’eccessivo numero di persone che via automobile o mezzi pubblici tentano di raggiungere questo luogo “unico al mondo” restando bloccati sul Ponte della Libertà.
Attorno a Campo San Giacomo insistono, oltre alle scuole, una sede universitaria, un ferramenta, una cartoleria, alcuni laboratori di giovani artigiani e ancora dei piccoli alimentari e alcuni bar di quartiere.
Non è un caso che proprio qui si stia giocando la partita de La Vida.
L’immobile che si affaccia sulla parte orientale del campo ospita al pianterreno l’edificio che in città è conosciuto come La Vida. Il nome lo deve al pergolato di viti che ombreggiava i tavolini di una rinomata trattoria che ha accompagnato pasti e aperitivi fino a circa la metà degli anni ’70. Fino ad allora in campo c’era solo un altro ristorante, ancora oggi aperto, dalla parte opposta, anzi un po’ più in là ancora, dopo Palazzo Pemma, una volta sede dell’Università, oggi albergo, accanto alla abitazione del poeta Mario Stefani, che ha accompagnato con i suoi versi il grido di dolore di questa città.
Sulla targa in pietra sopra alla porta d’entrata dell’edificio – oggi chiusa – si legge chiaramente la sua antica origine: si tratta di un Teatro Stabile per la sezione anatomica, voluto e costruito a metà del Seicento dal Senato della Repubblica, anche grazie a una donazione privata. L’edificio, che si estendeva dal piano terra ai piani superiori (oggi appartamenti), e del tutto simile al più noto Teatro Anatomico di Padova, per oltre un secolo e mezzo ha quindi ospitato il luogo in cui si sezionavano cadaveri a fini di studio. Ma anche: il Collegio dei Medici Fisici e dei Chirurghi, la Scuola per i dottorati in medicina e chirurgia con relativi archivi e biblioteche e per qualche decennio la prima scuola di Ostetricia. Inserito nel contesto urbano, visibile, quindi e riconoscibile a testimoniare il progresso scientifico e la lungimiranza delle istituzioni veneziane.
Ma torniamo alla partita che oggi si sta giocando qui. Una partita che si muove su più campi: quello degli spazi cittadini, della turistificazione, della vendita del patrimonio pubblico, degli standard urbanistici. Da una parte un ente pubblico e un piano di dismissione (in questo caso la Regione Veneto, proprietaria di tutti i locali al pianterreno dagli anni ’80), un imprenditore privato, che quei locali acquista (siamo nel 2017) e che vorrebbe trasformare in un ristorante (l’ennesimo sul campo che dalla metà degli anni ’70 ad oggi qualche trasformazione ha vissuto), dall’altra un gruppo di abitanti che ne contesta vendita e cambio di destinazione d’uso.
Nel 1996 infatti l’amministrazione comunale vincola l’immobile a tipo SU: “Unità edilizia speciale preottocentesca a struttura unitaria, compatibile con attività museali, sedi espositive, biblioteche, archivi, attrezzature associative, teatri, sale di ritrovo e attrezzature religiose”.
La Regione in questi decenni lo sotto-utilizza in questo senso: ne fa un archivio, la sede dell’Organismo Culturale Ricreativo Assistenza Dipendenti regionali e poi lo chiude.
Affacciato com’è sul campo, sono in molti a chiederne l’utilizzo: per farne sede per le associazioni, realizzare una ludoteca per bambini, un museo etnografico. Negli anni ’90 nel mezzo di una manifestazione promossa dall’arcigay viene occupato e ne diventa per qualche anno la sede. Nuovamente chiuso. Ospita per qualche anno le sporadiche iniziative ricreative dell’OCRAD del Veneto e infine viene messo all’asta e venduto.
È il settembre 2017. Il progetto presentato alla Regione da alcune associazioni e le firme dei cittadini raccolte contro la vendita si rivelano inutili. Il giorno della notizia dell’acquisto, gli abitanti entrano nell’immobile e lo riaprono: La Vida diventa per oltre cinque mesi un luogo in cui succedono molte cose. Attività ricreative e momenti di confronto sulle funzioni e il destino dello spazio pubblico, il suo utilizzo le regole e la sostenibilità di quell’utilizzo.
Attorno alla Vida nasce, cresce e si forma una comunità che è fatta di uomini e donne di ogni età, di diversa estrazione sociale e con esperienze e appartenenze politiche e sociali molto diversificate, accomunati, tutti, da obiettivi chiari: lo spazio, amministrato per conto dei cittadini, dalla Regione deve restare pubblico e utilizzato in modo collettivo. In questi mesi si affaccia all’interno delle assemblee l’esigenza di un linguaggio condiviso che definisca chi sono i cittadini, cosa vuole dire “collettivo”, quali sono le regole della partecipazione e della condivisione.
Una riflessione che mette al centro di tutto, il tempo. In una città unica come Venezia, che favorisce le relazioni umane, in cui il tempo è ancora un tempo lento e umanizzato, in cui le distanze sono percorribili e i percorsi a piedi invitano all’incontro, in una città così fortunata si avverte comunque la perdita dello spazio pubblico come spazio collettivo. Il recupero dei laboratori in campo, dei pranzi domenicali in tavolate conviviali in cui “ognuno porta quello che vorrebbe trovare”, la proposta di letture per bambini, del cinema per ragazzi domenicale, delle presentazioni… rappresentano una forma di riappropriazione non solo dello spazio ma anche del tempo collettivo. Il tempo dei cittadini di prendersi cura di un pezzo della loro città: che è fatto di pareti, di proposte e di persone.
Al momento dello sgombero (6 marzo 2018) con un ingente e inspiegabile dispiegamento di forze dell’ordine, la comunità si raccoglie sotto un tendone in campo per riprendersi lo spazio e soprattutto non perdere quanto conquistato e costruito.
La vendita del patrimonio pubblico accomuna tutto il territorio nazionale, diversi soggetti (Demanio, Regioni, Comuni), alcuni provvedimenti legislativi e la medesima ragione: i conti del bilancio. La gestione della città diventa pratica di ragioneria ed esercizio contabile.
L’operazione inizia più di qualche anno fa (già nel 1991 con la privatizzazione degli Enti Pubblici) e subisce una serie di accelerazioni: la più forte, forse, nel 2008 con le “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica” che permettono agli Enti Locali di programmare “piani di alienazione” in cui inserire la lista degli immobili pubblici in vendita e poi allegarli al bilancio.
In questa ottica palazzi, scuole, caserme, terreni, isole vengono alienate (privatizzate) e monetizzate. Se guardiamo la cosa dall’altra parte vediamo che interi pezzi di città e di territorio vengono privati e preclusi ai cittadini. Bilancio ed erosione del patrimonio. Profitto immediato e definitiva perdita dei beni pubblici. Quadratura dei conti e mancata progettualità. In mezzo la città o quel che ne rimane: un’isola trasformata in albergo di lusso ne preclude l’accesso ai cittadini, cambia funzione, impedisce ogni progettualità futura. Un edificio “a caratteristiche ricreative e associative” che diventa ristorante toglie agli abitanti 200 metri quadri di spazio di aggregazione, di condivisione e di “vissuto”. Il futuro plateatico di quel ristorante, divorerà un altro pezzo di suolo.
L’alienazione del patrimonio pubblico di fatto depaupera la città dei suoi spazi e spossessa i suoi abitanti dei luoghi del ambiente di vita e quindi delle prospettive a questo legate.
La riappropriazione di uno spazio cittadino (sia esso un’isola, un terreno agricolo, una caserma, una scuola, un palazzo) assume un’importanza strategica in termini di presa di coscienza collettiva delle esigenze della vita civica per chi quelle città vive e abita. Ma anche in termini di governance: di ruolo attivo dei cittadini nel tessere relazioni, nel prendersi cura degli spazi del vivere comune e su queste operare delle scelte condivise. Ha, cioè a che fare con il concetto stesso di comunità.
A Venezia in questa straordinaria e quasi futuristica dimensione urbana che nel suo policentrismo vede nel “campo”, nella piazza che si moltiplica in ogni quartiere, il cuore pulsante della vita sociale e relazionale cittadina (qui si affacciavano le case, i canali, la chiesa, il cimitero, il mercato, il pozzo per l’acqua), si riparte dallo spazio collettivo, dalla piazza appunto e dai beni pubblici che in quelle campo si affacciano.
La riappropriazione del campo dopo lo sgombero è al tempo stesso necessaria e simbolica, materiale e metaforica: se da una parte guarda all’edificio pubblico che non si vuole e non si deve lasciare priv[atizz]are, dall’altra guarda proprio alla dimensione dello spazio urbano e della sua riconquista da parte di chi, nuovi e vecchi abitanti, non accetta di vivere in una città condannata alla monocultura turistica e, per questo, quello spazio pubblico, intende riprendersi e vivere.
Al centro della battaglia per la Vida, che sta assumendo i caratteri di una rivendicazione e dibattito anche emblematici, ci stanno non solo l’idea di stare insieme e di fare delle cose insieme ma anche una lettura attenta delle trasformazioni della città, della pericolosità della sottrazione dello spazio pubblico, della necessità di poter usufruire e saper governare quegli spazi. Di rimettere al centro gli abitanti e recuperare le funzioni che la città ha in quanto tale. Di prendersi cura della città che deve essere il luogo in cui se i bambini ci giocano non è una cosa straordinaria.