Le profonde trasformazioni sul piano economico-finanziario hanno modificato e frammentato gli assetti professionali e le relazioni tra giovani e anziani sul luogo di lavoro e nella vita familiare. L’insicurezza è tratto dominante di ogni età della vita, che si ripercuote anche sul piano formativo. Come osserva Vanna Iori, la trasmissione intergenerazionale dovrebbe essere bidirezionale, ma in un’epoca veloce e votata al consumo, è difficile, seppur necessario, anche solo porre le basi di un dialogo.
Inoltre, la crisi economica degli ultimi anni ha aperto spazi di fragilità nuovi.
Una situazione che ha spinto il Censis a studiare la questione del «conflitto latente fra le generazioni sul mercato del lavoro». Non si tratta solo del ricambio generazionale e del deficit di turn over, ma di una concorrenza nelle opportunità tra giovani e over 50, per i quali sarebbe scattata «la ricerca affannosa del mantenimento dei livelli di benessere raggiunti e comportamenti conservativi, che alimentano un egoismo difensivo».
La dinamica intergenerazionale sul luogo di lavoro è spesso letta in termini di presenza/assenza: si associa la permanenza della generazione più anziana in ambito professionale, dovuta in tutta Europa alle modificazioni dell’assetto pensionistico, per far fronte alle variazioni demografiche, al difficile ingresso nel mercato del lavoro e alla precarizzazione della condizione giovanile.
La conclusione è, quindi, in termini di un conflitto generazionale, nel quale si attribuisce la responsabilità delle mancate opportunità di occupazione e di stabilizzazione dei giovani alla permanenza in servizio dei lavoratori più anziani.
Altra questione cruciale è il confronto tra le generazioni sul luogo di lavoro. La ricerca Workforce view in Europe, realizzata dalla multinazionale di servizi per le risorse umane ADP, ha posto in evidenza che, per i dipendenti italiani, il 77% dei conflitti possono essere ricondotti a differenze generazionali tra valori, stili di lavoro e competenze.
Dal punto di vista professionale, i lavoratori più anziani subiscono in molti casi il gap tecnologico e sono criticati dai giovani per l’insistenza nel voler insegnare sulla base dell’esperienza, per loro ormai superata; i giovani, infatti, ritengono di trovare risposte nella tecnologia e non sentono l’esperienza tramandata come un valore.
L’Italia, inoltre, può essere vista come un laboratorio, poiché, il difficile ingresso dei giovani nel mercato del lavoro e le forme contrattuali sempre più flessibili, si uniscono, a un aumento dell’età che consente il raggiungimento della pensione e a un sistema di diritti e tutele dati per acquisiti. La ricerca parla, infatti, della possibilità, nel 2020, di vedere in ambito lavorativo la presenza di cinque generazioni, ognuna con un proprio bagaglio di esperienze e attese, oltre che pre-giudizi.
Tuttavia, secondo altri studiosi, questa lettura è utile soltanto ad alimentare un clima di mancato dialogo e non è associata a un riscontro di dati ufficiali.
L’aspetto che realmente inciderebbe sulla disoccupazione giovanile, sarebbe da ricercare nell’inclusività dei mercati del lavoro, ossia nella capacità di offrire opportunità d’impiego, indipendentemente dal fattore età. Un aspetto che è rilevante, in un momento storico di profondi cambiamenti nel mercato del lavoro, con la nascita di nuove occupazioni (legate alle innovazioni tecnologiche e ai nuovi media) e la richiesta di competenze in continua evoluzione. Strade che sembrano far muovere le generazioni su binari paralleli, senza punti d’incontro.
Si giunge in questo modo a un disinteresse asettico, una concentrazione sul presente senza alcuna garanzia di progettare rivolta al futuro (i contratti sono a progetto, con un inizio e una scadenza, oppure a chiamata, che durano il tempo della richiesta), con l’obbligo a liberarsi da qualsiasi responsabilità, perché ognuno è “imprenditore di se stesso”, senza doveri di solidarietà.
In particolare, nel saggio di Pier Luigi Celli, dal titolo eloquente Generazione tradita, si ripercorre il percorso che porta un giovane oggi alla preparazione (attraverso una disamina anche della formazione professionale e universitaria), alla ricerca e all’inserimento nel mondo del lavoro. Con amarezza si osserva che «l’indifferenza degli adulti priva i più giovani di un terreno essenziale per sperimentare lo sviluppo di capacità innovative mettendosi alla prova: quello della passione, dell’e- mozione, dei sentimenti legati ai saperi multipli, che affinano spiriti liberi».
Il mancato incontro generazionale e lo scontro che spesso si alimenta su questo piano in termini di diritti-doveri dell’uno a discapito dell’altro, non è soltanto questione di posti da occupare, ma di responsabilità testimoniale.
L’inserimento di un giovane nell’età adulta, secondo Levinson, dipende dall’assolvimento di alcuni compiti, tra cui
l’intraprendere una carriera lavorativa e il definire un “sogno” su se stesso da adulto. Questo pensiero fantastico rappresenta per l’adolescente una sorta di “stella polare” perché, metaforica- mente, definisce una “direzione” all’esistenza personale, che ispira e dona energia motivazionale all’attività presente: «Il Sogno nella sua forma primordiale è un vago senso di sé-nel- mondo (adulto). Esso possiede la qualità di una visione, una possibilità immaginaria che genera eccitazione e vitalità». La crescita del ragazzo dipende da quanto il sogno riesce a trovare spazio nella sua esistenza, in particolare quella professionale.
Questa immagine di sé nel futuro si trasforma e tende, crescendo, a tradursi in un progetto di vita. I sogni per l’adolescente non sono il segno di un permanere nell’infanzia, anzi, se mancano, con essi «scompariranno ogni senso di vitalità e di intenzionalità».
L’adulto senza passione, che non testimonia il piacere del lavoro ben fatto, dell’impegno e della fatica per il perseguimento di un risultato, sta bruciando gran parte dei sogni dei ragazzi.
L’enfasi sul patto tra le generazioni, in ambito lavorativo (spesso legato al tema pensionistico), ha il rischio di ricorrere a un uso retorico dell’espressione, svuotata delle sue potenzialità, nel momento in cui non si ammette che ogni gene- razione è risorsa per le altre e la relazione è chiamata non a omologare, bensì a valorizzare le differenze generazionali in un progetto comune. Al contrario, il patto tra le generazioni potrebbe essere visto come una soluzione calata dall’alto, con il desiderio di controllare la generazione più giovane o limita- re quella più anziana. Lo sforzo del confronto nasce sempre da una conoscenza e da un incontro, in cui ognuno porta la propria originalità, anche generazionale. L’istituzionalizzazione di regole per determinare in maniera burocratica e rigida il patto generazionale ha il rischio di imbrigliare ciò che per sua natura è sfuggente, perché si fonda sulla relazione tra soggetti liberi chiamati a condividere un processo di responsabilità reciproche.
Il patto generazionale, anche in ambito lavorativo, deve essere frutto di un processo condiviso e non un atto formale definito da una parte e ratificato dall’altra. Allo stesso tempo, il patto deve essere parte di un progetto (umano) che ne rappresenta l’orizzonte di riferimento. La ripresa di rapporti di fiducia, l’apertura relazionale, il rispetto della dignità, la cultura della condivisione e della co-responsabilità sono elementi che non interessano unicamente ambiti della vita con mandato educativo, quasi l’ambiente di lavoro sia una terra di nessuno, in cui l’umanità si degenera. La prospettiva culturale del patto intergenerazionale deve provocare e animare tutti i territori del vivere condiviso da cui, in seguito potranno derivare specifici progetti d’azione.
Pubblichiamo un estratto dal volume di Monica Crotti, Generazioni interrotte (Mimesis)
Immagine di copertina: ph. Clem Onojeghuo da Unsplash