Nel 2008 Obama diventava presidente degli Stati Uniti. Io ricordo il momento in cui sale sul palco, a Chicago e il suo staff fa partire la musica dei The National, un gruppo indie-rock americano, bianco, originario dell’Ohio, che suona Fake Empire. Il brano era stato scelto come colonna sonora di un video promozionale rivolto ai cittadini dell’Ohio, uno swinging state, uno stato in bilico, che si rivelò fondamentale per la vittoria finale del candidato democratico.
La vittoria di Obama segna anche, in tutto il mondo, l’inizio dell’era dello “storytelling”, o meglio, il suo sdoganamento definitivo come strumento di comunicazione “strategica”, imbracciato da marketing e politica.
Da quel momento in poi, in ogni agenzia di comunicazione che si occupava di lanciare un prodotto o un nuovo candidato alle elezioni politiche, a un certo momento si alzava uno che diceva: “Bisogna usare lo storytelling, avete visto Obama?”
La presidenza Obama ha rappresentato l’apice dell’impiego strategico delle tecniche narrative per fini persuasivi. Se Martin Luther King aveva un sogno, Obama aveva una storia: da “I have a dream” a “I have a story”.
E tutto il mondo ha creduto alla sua storia, che, attenzione, non era una finzione. Solo che, come ci insegna la storia della letteratura, non esiste una storia vera, anche quando si scrive un’autobiografia. La storia che Obama ha raccontato al mondo non era né falsa, né vera. Era storytelling. Se Obama ha rappresentato il momento in cui lo storytelling si è svelato al mondo diventando mainstream, la storia del suo impiego “strategico” è molto più lunga.
Insegnando per un anno il corso di Public Diplomacy a Siena, ho imparato per esempio che la USIA (United States Information Agency), un’agenzia governativa nata nel 1953 per esercitare, attraverso la comunicazione di massa, l’egemonia culturale americana nel mondo, aveva lo storytelling nel suo DNA. Durante la guerra fredda, il ruolo dell’USIA era quello di influenzare l’opinione pubblica mondiale attraverso una narrazione coerente dello stile di vita americano, veicolata attraverso film, mostre internazionali, volantini, libri, videocassette…, come dimostra il libro di Nicholas J. Cull, The Cold war and the US Information Agency. Il motto della USIA era infatti: “Telling America’s story to the world”.
Quindi Obama è solo il più famoso, e forse il più bravo, tra i presidenti americani, ad applicare le tecniche narrative alla comunicazione politica. Nel 2008 è uscito anche un libro molto importante, e molto avanti per i tempi: Storytelling: la fabbrica delle storie, del filosofo francese Christian Salmon, per Fazi. Salmon concludeva quel libro lungimirante proprio con l’analisi della storia di Obama, criticando la trasformazione della politica ad opera del marketing.
Gli anni successivi al 2008 hanno visto lo storytelling colonizzare ogni spazio della comunicazione pubblica, istituzionale, politica, commerciale e finanche letteraria e giornalistica. Se un politico non ha una storia da raccontare, è morto. Se un giornalista non ha una storia da raccontare, è morto. Se un brand non ha una storia da raccontare, è morto. Se un povero scrittore non ha una storia, nel senso che non ha una trama, è morto anche lui. Se un sindaco o un’agenzia comunale non avevano una storia, erano anche loro morti. Ci hanno detto che il mondo vuole storie, che le storie aiutano a empatizzare con l’altro, a farci sentire davvero nei suoi panni. Per un po’ ha funzionato.
Lo storytelling ha fatto vincere qualche elezione a qualche politico, ma in realtà, come ci racconta Christian Salmon, nel suo nuovo libro – Fake, come la politica mondiale ha divorato se stessa, (Laterza), – lo storytelling stava già agonizzando, vittima del suo stesso abuso. E di nuovo, come nel 2008, credo che Salmon anticipi di qualche passo lo spirito del tempo. Questo declino ha a che fare con la collissione dello storytelling con la diffusione dei social media da un lato, e i sentimenti populisti, dall’altro:
“L’uso totalizzante dello storytelling ha prodotto il discredito della parola pubblica. Dopo aver creato un ambiente favorevole alla produzione e alla diffusione delle storie, i social networks hanno secreto una sorta di incredulità generalizzata, di sospetto. Così come l’inflazione monetaria distrugge la fiducia nella moneta, l’inflazione di storie ha distrutto la fiducia nella narrazione e nei narratori. Il narratore che ha perso credibilità viene chiamato dai teorici della narrazione “narratore poco affidabile (unreliable narrator)” (p. 63)
Salmon chiarisce ancora meglio il cambio di passo accaduto nella comunicazione politica da Obama a Trump:
“Venivano chiamati speech writers sotto Nixon, spin doctors tra Nixon e Reagan, e hanno fondato negli anni Ottanta la «Repubblica dello spin». Poi all’alba dei Novanta sono comparsi gli story spinners di Bill Clinton, che hanno lasciato il posto agli storytellers sotto George W. Bush e Barack Obama, il quale ha ancorato il potere della narrazione ai social networks inventando la Facebook politics.
La campagna presidenziale di Trump ha interrotto bruscamente questa staffetta: Steve Bannon, lo stratega di Trump, non si è minimamente preoccupato di avere una storia da raccontare. La sua strategia, postnarrativa, era ispirata alla dottrina militare dispiegatasi con l’invasione dell’Iraq nel 2003: Shock and Awe (“shock e sgomento”). I due termini designano una tattica che consiste nel paralizzare il nemico, nell’annullare ogni percezione del campo di battaglia tramite la potenza di fuoco” (p. 37)
“La presidenza Obama resterà nella storia come l’epoca d’oro dello storytelling, il suo zenit. Mai prima di allora si era lavorato tanto sullo storytelling. Tuttavia in concreto esso si è rivelato per ciò che era, non un mezzo per restituire credito al politico ma il sintomo del suo discredito. È stato il proseguimento della politica con altri mezzi e al servizio di un altro padrone, non più il popolo, i cittadini, ma l’audience, un’audience senza volto che paga la sua decima in dati personali consolidati in big data: un’audience classificata dagli algoritmi e soggiogata dal marketing”. (p. 52)
Salmon ci racconta come mai, in un’epoca di big data, le storie non bastino più: “La ragione (…) è l’esplosione dei dati. There is too much information to compete with for stories to be as effective as they once were, “ci sono troppe informazioni che entrano in concorrenza con le storie perché queste ultime siano efficaci come prima”. (p. 64)
Il testo di Salmon è illuminante, perché ci fa vedere all’acceleratore il rapporto tra narrazione e politica
Il testo di Salmon è davvero illuminante, perché ci fa vedere all’acceleratore il rapporto tra narrazione e politica degli ultimi 100 anni, per mostrarci, alla fine, il punto in cui siamo ora. Salmon qui riprende il noto lavoro di un altro francese, Francois Lyotard, sulle grandi narrazioni del mondo e propone una tesi molto interessante: lo storytelling dilaga proprio quando hanno fine le grandi narrazioni del novecento: con la fine della guerra fredda, che qualcuno scambia per la fine della Storia, le grandi Narrazioni non riescono più a fornire a milioni di persone l’ordine di riferimento per inquadrare il mondo, ma le persone continuano ad aver bisogno di storie, ci dice Salmon, e per questo lo storytelling inizia a dilagare. Il mondo si popola di storie minori, storie vere di persone ordinarie, storie “autentiche”, di cui il marketing e la politica si impossessano per combattere la crisi del consumo di massa e la crisi delle grandi narrazioni politiche.
Per un po’, almeno fino al 2008, questa tattica regge e Obama sembra segnare l’inizio della Golden Age dello storytelling. In realtà, ci dice Salmon, con la crisi del 2008 va in crisi anche l’ultima grande narrazione che era rimasta sulla scena, quella della rivoluzione neoliberale: “Dal 2008 questo grande racconto non riesce più ad illudere, e i governanti sono condannati a gestire e a tenere sotto controllo un’opinione pubblica ribelle e resa consapevole dagli effetti concreti della crisi finanziaria. La deregulation del mondo, di cui quella finanziaria non è che un elemento, ha un suo prolungamento nel discredito delle istituzioni politiche” (p. 188)
La fase in cui siamo entrati, secondo Salmon, è, da un punto di vista narrativo, la fase delle micro-stories, del non-storytelling, del disincanto dalle strategie di pianificazione narrativa a tavolino. Prima sono finite le grandi narrazioni, poi è finito lo storytelling, e ora siamo in una nuova età dove il potere delle storie dura pochissimi giorni o minuti. Personaggi politici con una nova storia da raccontare salgono rapidamente nei sondaggi per poi bruciarsi pochi mesi dopo, non c’è tempo per creare narrazioni coerenti, lineari, “hollywoodiane”: con un inizio, uno sviluppo e una fine. Il pubblico, sovra-stimolato da un’offerta di “storie” e contenuti debordante, governata da algoritmi che alterano continuamente la visibilità di questa offerta secondo logiche incomprensibili, non ha più il tempo di seguire la trama di una storia, di seguire lo sviluppo narrativo di un politico outsider, afro-americano, che piano piano si presenta al mondo raccontando la sua storia e andando a vincere.
Le storie oggi si consumano al ritmo delle stories su Instagram, sono effimere, durano 24 ore, e i loro archi narrativi si esauriscono in pochi secondi. La bulimia di storie disponibili ci ha portato a ridurre il tempo delle singole storie, per consumarne, più distrattamente, un numero maggiore. Il tempo di attenzione disponibile è sempre lo stesso, ma le storie si sono moltiplicate, quindi è difficile seguire tante storie con la stessa attenzione. Ecco perché Salmon afferma che lo storytelling è finito. Come avevo scritto qui, siamo passati dall’epoca dei fan a quella dei follower, dove l’attenzione dedicata all’oggetto del proprio “fanatismo” si è frammentata, divenendo più labile, fragile, temporanea, saltuaria. Un follower oggi mi segue, domani non più. Come faccio a raccontargli una storia, se ha l’attenzione di un moscerino?
Il ritmo delle storie quindi è diventato frenetico, come quello del capitalismo finanziario che caratterizza, secondo Arrighi, la fase finale di ogni ciclo capitalista. E qui Salmon è magistrale:
“All’accumulazione primitiva del capitalismo industriale si è sostituita l’agitazione primitiva del capitalismo finanziario. Lo stesso è avvenuto nell’economia del discorso, dove la volatilità degli enunciati prevale sulla loro validità. La produzione degli enunciati non intende produrre o condividere nuove conoscenze, ma accelerare la velocità degli scambi, intensificare la loro circolazione.
La fine dello storytelling apre uno scenario preoccupante: se nemmeno le storie funzionano più, il governo dei corpi e delle menti rischia di scivolare verso tecniche più autoritarie
Si tratta di creare l’impulso primitivo che innescherà una reazione a catena, metterà in movimento un’accumulazione di likes o di retweets poi notati e ripresi dalle macchine di Google, creando allora un autentico vortice mediatico simile a un fenomenale aspiratore capace di attirare e inghiottire istantaneamente l’attenzione di migliaia di internauti… Da qui il successo dei discorsi improntati all’odio, per i quali ci si allarma in nome di non si sa quale morale, ma che hanno a che fare con la razionalità, la razionalità dei mercati finanziari e quella delle reti sociali. Queste due razionalità sono funzionali alla trasgressione in una sorta di spirale, provocano non empatia ma antipatia, non appartenenza ma divisione, non continuità ma rottura…” (p. 66)
Se Obama ha governato con una narrazione strategica di lunga durata, coerente e seriale, come una soap-opera, Trump governa con una narrazione schizofrenica, risicata a poche parole (“Great”, “Very Happy”, “This is Bad”), temporanea, che deve essere rinsaldata ogni giorno a colpi di 165 caratteri. In un certo senso, il libro di Salmon, conferma l’intuizione, davvero brillante, di un sociologo italiano, Nello Barile, che in Politica a bassa fedeltà (2018) sostiene come la comunicazione politica dei leader populisti si fondi su una narrazione “lo-fi”, a bassa fedeltà, costruita per sembrare autentica, non mediata, non frutto di un’agenzia di storytelling (anche se poi lo è davvero, come sempre).
Il libro di Salmon è importante, in questa epoca, quanto lo fu quello di Lyotard per gli anni ’70-’80, anche se non ne ha lo stesso spessore intellettuale. E’ importante perché ci fa realizzare questo passaggio epocale, e spettrale: dalle grandi narrazioni, alle micro-narrazioni, alla frantumazione delle narrazioni, alla perdita di senso e di fiducia nel linguaggio. Se Lyotard era post-moderno, cos’è Salmon? La strada è quella della post-modernità, ma qui siamo al post post-moderno. Forse la visione di Salmon è eccessivamente apocalittica? Lo speriamo tutti. Ma questa visione si può leggere in maniera ambivalente, o almeno con il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà.
Da una parte, potremmo salutare con un senso di liberazione la fine dello storytelling: in fondo la fortuna, temporanea, di personaggi come Corbyn e Bernie Sanders si è fondata sì su il racconto di una “storia”, ma ha funzionato perché quella storia non era costruita a tavolino, ma era la loro storia personale, corroborata da una coerenza politica che a un certo punto è diventata un capitale sul quale fare leva. Dall’altro però, la fine dello storytelling apre uno scenario ancora più preoccupante: se nemmeno le storie funzionano più, il governo dei corpi e delle menti rischia di scivolare verso tecniche più autoritarie. Ma forse, anche Salmon ha dato le storie per morte troppo presto.