Coincidenze premeditate e nuovi scenari

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    “Tutto può accadere, tutto è possibile e verosimile. Il tempo e lo spazio non esistono, solo l’immaginazione fila e tesse nuovi disegni”, racconta Nonna Helena al nipote, alla fine del mitico Fanny e Alexander di Ingmar Bergman. Una frase che sembra tracciare anche la rotta dei Fanny&Alexander romagnoli (che al cineasta svedese devono molto più che il loro nome), atterrati dalla ricerca teatrale contemporanea sul palco del Teatro Comunale di Bologna per la prima assoluta de Il Flauto Magico di Mozart, lo scorso maggio.

    Non solo la loro, in effetti, ma la rotta di un’intera squadra che ha giocato per un paio d’anni nell’intessere “coincidenze premeditate” e nuovi scenari (come racconta Luigi De Angelis in questa bella intervista a cura del gruppo di critica delle arti sceniche Altre Velocità), perché una delle opere più classiche del repertorio lirico finisse meravigliosamente sporcata d’innovazione.

    E non è tanto l’elaborazione delle scenografie video in 3D, che pure hanno fatto scalpore e costretto il pubblico alla scelta inusuale di interagire o no con uno spettacolo d’opera. E nemmeno il gioco scenotecnico delle quinte – rimando all’obiettivo di una macchina da presa che si apre e si chiude, ma anche alle geometrie massoniche che permeano la poetica mozartiana –, che ha reso ambigua la comprensione dei ruoli tra chi guarda e chi effettivamente è guardato durante tutto lo spettacolo.

    È che tutto II Flauto Magico (e questa trasposizione in particolare), nel suo essere un continuo di ambiguità nei ruoli, di contaminazioni tra bene e male, dove nulla effettivamente appare per quello che è e dove non esiste un nettamente giusto e un nettamente sbagliato, apre ampie riflessioni a margine. Tanto sulla produzione artistica che sul management culturale.

    Il più basico dei principi mozartiani per cui è solo “l’amore che manda avanti il mondo”, rimanda ad un universo, quello della produzione di cultura, in cui oggi più che mai la passione sembra essere l’unico motore consistente, mentre tutto intorno langue o rema contro. Passione che – parafrasando Andrea Inglese, nella sua critica al lavoratore culturale – appare come unico balsamo alle piaghe economiche di un settore abituato a vivere di soddisfazioni simboliche e poco più.

    Il gioco di ruoli si complica molto, in una lotta tra poveri, quando in ballo poi c’è da un lato l’emblema dell’Istituzione culturale di stampo ottocentesco, il teatro d’opera – nello specifico delle sue 14 fondazioni lirico sinfoniche che da sole assorbono il 46% di un FUS ridotto all’osso – e dall’altro tutto il resto, o quasi.

    Il Flauto Magico di Fanny&Alexander, qui la vera dirompenza, è diventato un sasso negli ingranaggi di un sistema bene/male che oggi riempie le pagine della letteratura di settore e a volte pure l’opinione pubblica: due fazioni contrapposte tra cultura tradizionale – intesa come pozzo senza fondo, immobile, anacronistica eppur ancora lautamente sovvenzionata (anche se mai abbastanza, per chi ne fa parte) –, e tutta la nuova ondata – quella dei cosiddetti innovatori culturali, che si muovono ai margini, se non al di fuori del sistema istituzionale, assolutamente non protetti né legittimati – ma buoni, positivi e utili a prescindere.

    La vulgata spesso e volentieri poggia su basi solide, difficili da confutare. Tuttavia si ha la netta sensazione che continuare a scavare solchi in questo circuito a doppia velocità, piuttosto che far convergere e ibridare i due universi, non possa che restituire mappe sghembe e danneggiare un settore – quello della cultura tout court – che quanto mai oggi ha bisogno di mostrarsi compatto, e creare impatto.

    E ancor più forte è la sensazione che questo obiettivo non si possa raggiungere senza passare attraverso la creazione di un patto inedito tra macro-istituzioni pubbliche e micro realtà di produzione culturale (che al di là della veste imprenditoriale e privatistica in cui spesso si presentano, producono il più delle volte un evidente valore socioculturale prima del proprio profitto). Nelle pieghe delle une e delle altre si annidano patrimoni di denaro e di saperi che devono essere messi necessariamente in condivisione.

    Da qui l’idea di intendere sempre più le istituzioni culturali pubbliche come hub di riferimento delle realtà produttive private del settore, così che adempiano alle proprie funzioni istituzionali, ma risultino anche i soggetti attraverso cui l’Amministrazione possa delegare e implementare politiche di indirizzo auspicabilmente inclusive e abilitanti. Se tra questi indirizzi, ad esempio, ci fosse quello di attivare quanto più possibile il territorio sia per soddisfare determinati capitoli di bilancio dell’Istituzione, sia per interconnetterla maggiormente con una base a cui gli operatori privati, più agili e “spontanei”, sono decisamente più prossimi, ecco che si attiverebbe rapidamente un circolo virtuoso, a vantaggio di entrambi gli universi sia quanto ad accreditamento reciproco (e quindi nei confronti della comunità di riferimento), che a livello economico, efficientando le prime e consolidando il mercato delle seconde – come giustamente richiamato nella recente lettura di Alessandro Rubini).

    Del resto, anche il più grande sostenitore dell’innovazione in ambito culturale, non può concepire che essa si manifesti attraverso la scomparsa delle strutture di produzione tradizionali, che – al di là del conservatorismo – spesso sono le depositarie della memoria storica del core art field del nostro paese.

    Pensare di abolire o lasciar implodere enti come le opera house (ma lo stesso vale per alcuni musei o siti archeologici etc) appare banalmente demagogico. Diverso è pretendere che queste strutture ritrovino un proprio ruolo ecosistemico, dal punto di vista della sostenibilità economica, ma soprattutto della loro permeabilità e dinamica tra il dentro e un fuori che inevitabilmente costruiscono, per volontà o sottrazione, attorno a sé. Innovare ciò che esiste, d’altronde, pare più complesso di inventare ex novo. Perché significa fare i conti con uno storico – e una storicità – che spesso e volentieri è ancora la base di tutta la produzione postmoderna.

    Pensare di produrre cultura oggi ignorando i meccanismi che l’hanno regolata finora, significa non conoscere un vocabolario base attraverso cui far evolvere il linguaggio. Ignorare, ad esempio, le dinamiche innescate da un inguaribile morbo di Baumall, recitando litanie per cui le nuove ICT salveranno il mondo della produzione culturale, significa creare false aspettative in chi si convince di poter sopravvivere ed avere senso solo perché appartiene ad una nuova generazione di professionismo. Il che in parte è vero, perché il morbo in strutture pachidermiche come gli enti lirici è degenerato, creando mostri e spaccature tremende, che vanno rinsaldate al più presto.

    Così come – quanto al senso – molte di queste istituzioni hanno bisogno di ritrovare la propria vocazione “popolare” originaria, di formazione, divulgazione e intrattenimento finalizzata alla crescita di una comunità, invece che reiterare solo formati sterili (dove il presente e il futuro, bene che vada, sono solo la banale riproposizione del passato).

     

    Queste criticità, però, si curano dall’interno: scardinando gli schemi e iniettando nuova linfa e nuove competenze su un indiscutibile valore pre-esistente. Si curano modificando accordi sindacali incrostati da decine di anni, introducendo (non senza difficoltà) il concetto di orario multiperiodale, di lavoro a prestazione, di efficienza produttiva. Razionalizzando gli organici. Si curano con un efficientamento tecnico e tecnologico, perfino energetico.

    Si curano osando nella proposta culturale: centrale, mai svilita neanche sotto la scure del “pareggio di bilancio o commissariamento coatto” (doverosamente imposto dalla Legge Bray). Proposta culturale proprio per questo difesa strenuamente, con la chiamata alle armi di un’intera città, perfino della sua squadra di calcio. E proprio per questo affiancata e rafforzata da una necessaria riflessione sul nodo della soglia, dell’accesso alla cultura, dell’ampliamento e rinnovamento dei pubblici, e quindi sulla rimozione delle infinite barriere fisiche, psicologiche ed economiche che lo condizionano: con nuove politiche di price management e di audience development, va bene, ma fondamentalmente aprendo i foyer, dentro e fuor di metafora.

    Nella fattispecie, invitando operatori privati a contribuire ad aprire e riempire i foyer e a portare l’opera fuori dal palcoscenico, disseminandola letteralmente: Il Flauto Magico del Teatro Comunale in città è stato presentato al Museo della Musica, così come al Future Film Festival (incontro internazionale di animazione e nuove tecnologie), perfino in una conferenza sul legame tra cibo e musica nell’opera di Mozart, per collegare le attività del teatro a quelle del venturo progetto FICO-Eataly World.

    Più o meno discutibili, come operazioni, esse hanno avuto il pregio di attivare soggetti fino al giorno prima estranei alla lirica e di modificare modalità di fruizione dei pubblici consolidati, dal gesto di infilarsi gli occhialini stereoscopici all’essere accolti dalle maschere del teatro vestite di una divisa brandizzata Sarastro. Il Regno del Gran Sacerdote dell’opera mozartiana ha permeato tutto lo spazio, scenico e non, dallo strappo del biglietto agli insoliti applausi a scena aperta.

    Il pubblico, in questa opera, è stato quanto mai protagonista del dramma, attivato prima, dopo e durante, costantemente osservato – non a caso – dallo sguardo in video di due bambini (i Fanny e Alexander bergmaniani?), nuovi per natura, indecisi sul da farsi rispetto alle aspettative di quegli spettatori e di quel teatro in evidente trasformazione, con la loro pretesa di finzione e di esserci, al contempo.

    Per una settimana, grazie a quella provvidenziale coincidenza premeditata, il Teatro si è riappropriato della propria comunità, e la comunità del proprio teatro. Sold out ogni replica, e una fibrillazione in città come non si vedeva da tempo. Tanto da far pensare che soprattutto questa possa essere una buona strada verso l’innovazione culturale.

    Note