Fare o lasciar fare? l’Amministrazione locale nella sfida della rigenerazione urbana

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    Questo contributo fa parte di una serie di approfondimenti in collaborazione con il Master U-RISE dell’Università Iuav di Venezia sul rapporto tra rigenerazione urbana e innovazione sociale. Vuole discuterne gli impatti socio-spaziali, raccontare pratiche virtuose e allo stesso tempo imparare da ciò che non ha funzionato. I docenti del Master U-Rise Marcello Balbo e Elena Ostanel (Università Iuav di Venezia), Ilda Curti e Davide Bazzini (IUR – Innovazione Urbana e Rigenerazione), Paolo Cottino (K-City Milano) e Nicoletta Tranquillo (Kilowatt Bologna) ci accompagneranno in queste settimane con le loro analisi e riflessioni. Buona lettura.


    Viviamo tempi confusi, di cui sfugge la direzione verso cui si muovono e per questo inquietano. Sono tempi di cambiamento profondo che mettono in discussione principi che sembravano acquisiti e traguardi che si ritenevano raggiunti, financo diritti che a fatica erano stati conquistati e che si consideravano ormai inalienabili: il rispetto per gli altri, la disponibilità a ascoltare, la solidarietà, la democrazia delle idee. Tutto questo appare essersi sbriciolato e aver lasciato il passo alla sicumera della semplificazione e all’arroganza della certezza: poche idee, e senza dubbio alcuno.

    È stato così repentino il cambiamento di paradigma che ancora nessuno riesce a spiegarlo. Ci sono indubbiamente la marginalizzazione dei molti, conseguenza di una globalizzazione non governata (se mai fosse governabile), la perdita di senso di molti lavori (i bull shit jobs di David Graeber), l’indeterminatezza che spaventa, non solo nel lavoro ma per le condizioni di vita in generale. C’è da chiedersi se indeterminatezza, precarietà, incertezza non siano invece requisiti del tempo in cui ci ritroviamo, condizioni di garanzia per costruire una sistematicità diversa, come per permettere ai matsutake di crescere nei boschi di pino, come spiega Anna Lowenhaut Tsing.

    Il cambiamento, così profondo e rapido, si dà prima di tutto nella città, dove più che altrove, molto di più, si addensano diseguaglianze, opportunità, innovazione, sperimentazione, relazionalità, conflitti e assemblaggi. Di conseguenza, è la città, ogni singola città, che nel proprio locale deve costruire risposte a questioni che il più delle volte sono riverberi del globale. Una sfida difficile di per sé, ma resa ancora più complicata dal fatto che le risorse a disposizione sono poche e in una non certo felice decrescita. Si badi bene, non “insufficienti”, perché non vi è una condizione di “sufficienza” di risorse: sono poche e basta.
    Così, verrebbe da dire inevitabilmente, la città è l’ambiente in cui, in Italia ma non solo, in questi ultimi anni sono emerse le “nuove forme di economia urbana” post-crisi evocate, su cheFare, da Luca Calafati e Letizia Chiappini. Una risposta allo sgretolamento del modello di crescita economica ininterrotta e benessere diffuso cui prima le Trente Glorieuses ci avevano assuefatto e poi, pur con qualche traballamento, uno spensierato ricorso al debito ci aveva garantito.

    Quel tempo si è chiuso, e con esso il tempo della città espansiva. Oggi, come noto, ci si interroga esclusivamente su cosa fare per rifunzionalizzare spazi (edifici, complessi, aree) vuoti, abbandonati, degradati, e come farlo, dato appunto che il pubblico invetse sempre meno.

    Una risposta sono appunto le nuove forme di economia urbana e, aggiungiamoci, le nuove modalità di rifunzionalizzazione di quegli spazi che il cambiamento ha ripudiato. Oggi di rigenerazione urbana si parla soprattutto grazie alla mobilitazione di chi quello specifico spazio urbano utilizza o vorrebbe ri-utilizzare, quelli che piuttosto pomposamente sono chiamati space-makers o addirittura city-makers (non esageriamo) trasformando un vuoto in un bene disponibile e comune. Negli ultimi anni in Italia, ma anche in Europa, si è assistito ad un proliferare di mobilitazioni costruite intorno alla riappropriazione di spazi urbani o di (piccole) porzioni di città, riattivando le funzioni che svolgevano in precedenza o, più spesso, immaginando che vi si possano svolgere funzioni nuove, appropriate al cambiamento. A partire dall’esperienza di Bollenti Spiriti in Puglia, il programma per le politiche giovanili che la Regione Puglia ha lanciato nel 2005 e diventato ormai un punto di riferimento per chiunque si occupi di rigenerazione urbana “dal basso”, fino in qualche modo anche al nuovo “Piano dei Quartieri” di Milano presentato pochi giorni fa che, elaborato dall’amministrazione, ha però l’ambizione di aprirsi alla mobilitazione degli abitanti, passando per una ormai amplissima serie di altre esperienze realizzate o comunque tentate in luoghi e contesti sociali diversi.

    La mobilitazione degli utilizzatori, a volte frettolosamente declinata come innovazione sociale, nel cambiamento appare indispensabile su due fronti: la rigenerazione degli spazi fisici, con la messa in campo di energie, conoscenze, volontà fino a arrivare anche alle risorse finanziarie; la risposta a bisogni sociali non soddisfatti, sia perché le istituzioni non sono più in grado di soddisfarli, sia perché si tratta di bisogni nuovi che il cambiamento ha portato con sé senza che quelle stesse istituzioni potessero o volessero coglierli. E non si parla solo della presenza di nuove popolazioni e nuove culture, anche se questo è un aspetto rilevante della questione, ma di bisogni insorti proprio a seguito del cambiamento: famiglie mononucleari, necessità di o preferenza per coabitazioni, spazi per tempo libero usato diversamente, co-working.

    In realtà l’innovazione sociale nella rigenerazione urbana è tale solo se è trasformativa, cioè se si inserisce nel cambiamento e lo affianca. L’innovazione sociale sta nella capacità di produrre la rifunzionalizzazione dello spazio attivando processi di inclusione e di riconoscimento di domande anche nuove, di scambio con le istituzioni tale da produrre un loro adeguarsi al cambiamento, di costruzione di una consapevolezza collettiva (ri)attivando dunque la polis e la politica. Si tratta della “capacità di trasformazione urbana” cui hanno fatto riferimento Ilda Curti e Davide Bazzini in questo stesso sito, per produrre interventi place based ma inseriti all’interno di un’idea generalizzata di città, cioè condivisa, sulla stessa lunghezza d’onda del cambiamento e capace di seguirne l’evoluzione, adattandovisi.

    Perché l’innovazione sociale contribuisca davvero a rigenerare spazi di collettività e costruire luoghi riconoscibili dove questi non esistono o si sono smarriti, occorre però che essa sia consapevole dei limiti del proprio agire. Limiti insiti nel fatto di prodursi all’interno di quell’insieme di presenze sfaccettato e complesso che è la città, il cui sistema di interessi, relazioni, scambi e tensioni sempre e inevitabilmente travalica i confini dello specifico intervento di rigenerazione. La nuova modalità della rigenerazione sta proprio nell’essere consapevole da un lato del riverberare del proprio realizzarsi e dall’altro del fatto che l’assenza del riverberare la confina nell’ambito di un’operazione di riqualificazione di spazi o manufatti, assai meno di rigenerazione.

    Di qui una seconda conseguenza. Se la rigenerazione condotta attraverso l’innovazione sociale comporta il sostegno alla “capacità di trasformazione urbana”, ciò implica un riconoscimento del ruolo cui è chiamata l’Amministrazione e dunque la necessità di includerla, di obbligarla e di sostenerla nel proprio percorso di trasformazione e adeguamento al cambiamento.

    L’Amministrazione della città è la sola legittimata a disegnare il quadro complessivo all’interno del quale deve collocarsi la rigenerazione di singoli spazi e luoghi, ed è tendenzialmente anche la sola in grado di produrre tale quadro. L’azione dell’Amministrazione deve essere molto più di supporto che di intervento, di faire faire molto più che di faire, ma avendo chiare direzioni e conseguenze del lasciar fare. Diversamente rigenerazione e innovazione sociale si collocano in uno scenario sconnesso, pezzi singoli che tra di loro comunicano solo casualmente, e non sempre. Una condizione pericolosa, per gli effetti resdistributivi che può avere e che raramente vengono valutati dagli space-makers.

    Una suggestione su ciò che sarebbe utile fare ci viene, ancora una volta, da Barcellona, dove giorni addietro si è svolta la Bienal de Pensamiento sul tema Ciudad Abierta coinvolgendo luoghi e di conseguenza utilizzatori tra i più diversi: il Centro di Cultura Contemporanea (CCCB), l’Università, il mercato, la piazza di quartiere, la libreria, per attivare, discutere, ascoltare, riflettere diffusamente e apertamente con gli utilizzatori della città. Un modo di dialogare sulla e con la città che mostra il senso di un’Amministrazione che si muove nel segno del faire faire ma non si sottrae alla responsabilità di intessere i diversi fili che percorrono la città secondo un disegno complessivo, per provare a far sì che i tempi confusi che stiamo vivendo si muovano lungo una direzione riconoscibile.


    Immagine di copertina: ph. David Rangel da Unsplash

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