Per riflettere sul ruolo del giornalismo nostrano e sulla sua capacità di raccontare l’attualità politica, penso sia utile iniziare sgomberando il campo da uno dei maggiori fraintendimenti degli ultimi anni – e cioè, quello che ha portato esperti del web e techno enthusiasts di tutto il mondo ad annunciare la morte dei media tradizionali, ritenuti impotenti di fronte all’avanzata di quelle piattaforme digitali che hanno cambiato per sempre il nostro modo di informarci e accedere alle notizie. Tutti gli indicatori, infatti, non fanno che dirci – ogni anno – che quelli tradizionali sono ancora in cima alla classifica dei media più utilizzati dai cittadini, sia in generale che nel nostro Paese; dall’ultima relazione del Censis sullo stato dei media in Italia, ad esempio, emerge come la televisione e la radio siano stati i canali più utilizzati per rimanere informati anche nel 2022. Oltre a questo, per capire lo stato di buona salute di cui gode il settore dell’informazione per come siamo abituati a intenderlo, va citata anche l’abilità degli attori che lo compongono nello spostarsi nella dimensione online, sbarcando così su quelli che definiamo ‘nuovi’ media; si pensi al caso dei quotidiani che, sebbene abbiano assistito a un crollo verticale della vendita del cartaceo negli ultimi quindici anni (-41,6% dal 2007), sono riusciti a mantenersi a galla grazie a nuovi modelli di abbonamento digitale e consolidando la propria presenza sul web.
Tuttavia, se da un lato le entità che concorrono a comporre il sistema dell’informazione tradizionale (editori, giornali, programmi televisivi, radiofonici, ecc.) possono rallegrarsi della comprovata resilienza dei media in cui operano e della propria capacità di adattamento, dall’altro sono comunque costretti a fare i conti con l’ascesa costante di quelle fonti alternative nate e spinte dalla Rete (pagine sui social media, siti, aggregatori di notizie, influencer…). Un’ascesa motivata da diversi fattori: tecnologici e demografici, ma anche e soprattutto qualitativi – che chiamano in causa, cioè, l’affidabilità e la qualità del servizio fornito dagli attori tradizionali secondo il pubblico. Un paio di dati emblematici dal rapporto del Censis per aiutarci a inquadrare gli effetti della famosa ‘crisi di fiducia’: il 71,8% degli utenti giudica negativamente l’informazione offerta dalle tv perché “confusa”, “ansiogena”, “falsa” o troppo incline alla “spettacolarizzazione”; il 60,1% riterrebbe legittimo il ricorso a qualche tipo di censura delle notizie diffuse dai media tradizionali.
Si comprende meglio, allora, la situazione paradossale in cui si ritrovano oggi i professionisti dell’informazione: la maggior parte dell’audience usufruisce del loro lavoro, ma solo una porzione minoritaria lo giudica positivamente. Se è quindi vero che i nuovi media non hanno ancora soppiantato quelli precedenti, appare comunque verosimile l’idea che ne abbiano minato la reputazione, mostrando al pubblico un modello di gestione e diffusione delle notizie innovativo (meno intermediato, più veloce e sempre accessibile) rispetto a quello a cui era abituato. Chi ha saputo approfittare della crisi del giornalismo tradizionale è stata senz’altro la classe politica, che ha capito prima e meglio di tutti come cavalcarne punti di forza e debolezze in ottica elettorale, attraverso strategie di propaganda moderne e integrate su più canali.
A mostrare la via per prima è stata, come spesso accade, la politica americana. Se già Obama e il suo staff si erano distinti per l’abilità con cui maneggiavano i social, Trump ha portato quest’arte al livello successivo, pubblicando tweet controversi in continuazione per catturare l’attenzione della stampa, riuscendo così a incrementare la diffusione dei messaggi e la propria popolarità. I giornalisti, infatti, vengono attratti dai contenuti social che generano molte interazioni e tendono a riprenderli nella speranza di attirare a loro volta più lettori; un tic che è stretto parente dell’inclinazione a spettacolarizzare le notizie, citata dal rapporto del Censis. (Per approfondire il discorso sull’ossessione delle redazioni americane per le metriche social durante la prima campagna presidenziale di Trump, si rimanda ad Andrew Chadwick, “The Hybrid Media System: Politics And Power”, 2017). Com’è noto, Trump ricorreva spesso – e lo fa tuttora – anche ad attacchi diretti contro la stampa, una tattica che gli consentiva di raggiungere più obiettivi simultaneamente: da un lato, appunto, si assicurava la risposta dei giornali e quindi maggiore copertura; dall’altro si mostrava vicino a quella frangia della popolazione – che negli States è almeno altrettanto consistente di quella italiana – che non vede di buon occhio l’operato dei media tradizionali.
Un modello di comunicazione, quello trumpiano e repubblicano, che s’è diffuso in fretta anche nel resto del mondo, ottenendo ottimi risultati soprattutto in Europa – e soprattutto fra i partiti di destra ed estrema destra, molto spesso in stretto contatto con Steve Bannon e altri luminari della squadra di consulenti di Trump. In Italia, uno degli interpreti più precoci e abili nell’adottare questo approccio è stato Matteo Salvini, probabilmente il primo a sfruttare appieno le enormi potenzialità propagandistiche delle piattaforme social nel nostro Paese. Gli anni ruggenti di Salvini sono stati quelli in cui abbiamo cominciato a interessarci della Bestia, dei guru del web marketing come Luca Morisi, di fake news e odio in Rete; e sono stati gli anni in cui abbiamo visto i nostri giornalisti riprendere e commentare ogni post incendiario o volutamente assurdo del leader della Lega, fungendo da megafono perfetto per la sua (eterna) campagna elettorale.
Quando la stella di Salvini ha iniziato a eclissarsi, Giorgia Meloni è riuscita a imporsi come guida della destra italiana portandone avanti la comunicazione con lo stesso spirito. Il nostro Presidente infatti sa come si fa, sia quando si tratta di attacchi ai giornali (forse Salvini ne insultava di più, ma lei li porta direttamente in tribunale…), sia quando deve infuocare il dibattito con esternazioni polarizzanti. Del resto, Meloni non è certo una novellina in materia – anche lei può essere ascritta al registro dei primi politici nostrani a intuire i vantaggi offerti dai social media, e anche lei ha iniziato ben presto a puntellare il suo staff di spin doctor ormai affermati nel settore, come Tommaso Longobardi –, e se la salita a Palazzo Chigi poteva metterla in difficoltà, costringendola a una postura più istituzionale e al rischio di decisioni impopolari, lei comunque non ha fatto una piega, esibendo tutta la propria bravura in un altro dei fondamentali della comunicazione politica moderna – e cioè, il dirottamento dell’attenzione.
Prendiamo ad esempio “Gli Appunti di Giorgia”, il format video lanciato lo scorso dicembre su Facebook per spiegare l’operato del suo Governo ai cittadini. I video settimanali da venti minuti in cui si mostra alla telecamera, da sola con la sua agendina, sono un compendio di tutte quelle tecniche e accorgimenti che si possono ritrovare in un corso di marketing politico moderno: da un punto di vista registico (zoom in e zoom out, montaggio essenziale, scritte e tabelle in sovrimpressione, tutto funzionale a dare ritmo), demagogico (ripetizione ossessiva dei concetti più importanti, slogan distribuiti sapientemente qua e là, un utilizzo impeccabile del tono di voce), della crossmedialità (la ripresa verticale e gli argomenti trattati in massimo tre o quattro minuti, per garantirne la riproducibilità su altre piattaforme). Un prodotto ben costruito, insomma, il cui pregio maggiore è però quello di allestire uno spazio in cui Meloni può esprimersi senza contraddittorio, dei temi che preferisce e come preferisce, aiutandola a dettare l’agenda del dibattito pubblico.
Come osservava Lakoff sempre a proposito di Trump, il dirottamento dell’attenzione è una tecnica utilissima per i politici che devono difendersi dalle domande scomode; in fondo, il trucco è semplice: se non vuoi trattare un argomento, parla d’altro. Lo conosceva bene Salvini, un maestro in questa pratica – come dimenticare le sue sparate improvvise contro la cannabis light o la scorta di Saviano per evitare di esprimersi sullo scandalo dei 49 milioni o sui rapporti della Lega con la Russia –, e lo conosce bene anche Meloni, che sin dall’inizio di questa legislatura – e anche prima, a dire il vero – ha scelto con precisione chirurgica gli argomenti su cui far convergere il focus delle redazioni italiane. Alcuni esempi sparsi che mi vengono in mente: modifiche alla legge 194 in ottica antiabortista, il presidenzialismo alla francese (ora tornato in auge), l’utilizzo del maschile per riferirsi alla sua carica istituzionale (su “il” invece di “la” Presidente sono stati spesi fiumi di parole); i rave party, porti chiusi alle ONG, tetto al contante e (non) obbligo di POS. Le varie puntate degli Appunti altro non sono che una riproposizione continua dei suoi cavalli di battaglia, confezionate in maniera tale da divenire virali e, quindi, difficili da ignorare anche per i media tradizionali – che sono presi all’amo sin dal contenuto zero, quella foto teaser con l’agendina aperta e il laccetto con le lettere del suo nome e una stella, un’occasione troppo ghiotta per non pubblicare articoli ironici.
Naturalmente, non sto sostenendo che giornalisti e commentatori dovrebbero ignorare tutte le mosse di questo Governo, sottovalutando così le conseguenze di certe decisioni – che in alcuni casi si sono già rivelate drammatiche per centinaia di persone. Tuttavia, mi pare chiara la necessità di un cambio di approccio, che tenga conto della natura puramente identitaria di quelle iniziative che non risolvono nulla e servono solo a dar l’impressione che si stia facendo qualcosa. Nel caso di Giorgia Meloni, i temi che ha scelto di nascondere sono gli stessi, annosi problemi che affliggono il nostro Paese da anni; ed è proprio sull’apparente mancanza di una strategia per affrontarli che dovrebbero concentrarsi gli osservatori (ma anche gli oppositori politici, a loro modo compartecipi del grave declino del discorso pubblico grazie alla loro passività ormai leggendaria). Invece, è sempre troppo raro sentire qualcuno, o leggere qualcuno, che faccia notare come il Presidente non parli mai – che siano dichiarazioni a mezzo social o meno – di ambiente, sanità, istruzione; e solo in maniera superficiale di mafia, cultura, Sud e – soprattutto – lavoro, in merito al quale non ha fatto altro che attaccare i percettori di reddito di cittadinanza, colpevoli – a suo dire – di aspettare il lavoro dei sogni, senza spendere nemmeno una parola su come si possa favorire la creazione di lavori appetibili o quantomeno sicuri.
Non è certamente il primo Governo a dimostrarsi carente su queste tematiche (anzi, è giusto ricordare che anche Governi teoricamente di sinistra hanno fatto poco o nulla su temi che dovrebbero appartenergli, come ambiente e istruzione), ma è probabilmente uno dei più abili nello spostare l’attenzione altrove. Riportare i riflettori su ciò che conta davvero sarebbe utile per mantenere informato il pubblico e aiutarlo a giudicare il lavoro delle nostre istituzioni; purtroppo, l’attuale sistema giornalistico pare fermo sulle proprie abitudini, incapace di reagire positivamente ai cambiamenti del panorama mediatico. È difficile dire se si tratti più di scarsa comprensione delle strategie di comunicazione adottate dagli attori politici (un ritardo che sarebbe comunque grave dato che si tratta di tecniche in uso già da anni, come abbiamo visto) o di una reticenza ad abbandonare certi schemi narrativi che è figlia della paura di perdere appeal nei confronti del pubblico – percepito come alla costante ricerca di stimoli emotivi e argomenti virali. Probabilmente è un mix di entrambi i fattori, ma se il secondo dovesse essere prevalente, e quindi se il settore del giornalismo fosse soprattutto preoccupato di perdere audience, allora forse gli converrebbe allargare lo sguardo oltre le sole metriche social a cui sembra tanto affezionato. Perché se è vero che Giorgia Meloni ha più di un milione e mezzo di follower su Instagram e un tasso di engagement ancora in crescita, è vero anche che alle ultime elezioni politiche l’astensionismo è salito al 36% (+9% rispetto a quelle del 2018), il che vuol dire che oltre 17 milioni di persone aventi diritto hanno scelto di non votare. Un dato che parla chiaro – meglio di qualsiasi altro indicatore – riguardo il disinteresse della società verso la politica di oggi, e che dovrebbe stimolare i professionisti dell’informazione a cercare nuove vie per raccontarla. Tenere saldo il focus sugli argomenti più urgenti e imparare a svelarne i nuovi artifici retorici (invece di abboccarvi, più o meno consapevolmente) potrebbe essere un buon inizio.
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