Fabrizio Barca: azioni per una svolta politica radicale

Scarica come pdf

Scarica l'articolo in PDF.

Per scaricare l’articolo in PDF bisogna essere iscritti alla newsletter di cheFare, completando il campo qui sotto l’iscrizione è automatica.

Inserisci i dati richiesti anche se sei già iscritto e usa un indirizzo email corretto e funzionante: ti manderemo una mail con il link per scaricare il PDF.


    Se inserisci il tuo indirizzo mail riceverai la nostra newsletter.

    image_pdfimage_print

    È dunque oggi necessaria una radicale inversione di rotta. Che faccia i conti in modo nuovo con i due nodi della conoscenza e del potere. Si tratta, da un lato, di riconoscere che l’emancipazione ha bisogno di innovazione, produttiva e sociale, e che questa richiede un confronto acceso e aperto, un conflitto, fra le conoscenze incorporate nelle persone dei luoghi e fra queste conoscenze e la conoscenza esterna, dei grandi centri di competenza. Dall’altro, di riconoscere che le classi dirigenti locali sono al tempo stesso parte indispensabile della soluzione, e, spesso, parte del problema, perché interessate al mantenimento dello statu quo, nel timore che il cambiamento le metta in discussione; e che dunque l’emancipazione richiede la destabilizzazione dell’equilibrio esistente di potere. Il volume fornisce strumenti, metodi e immagini per affrontare questi due aspetti. […]

    Dietro i fermenti innovativi […] si intravedono «cittadini attivi». Che nel proprio impegno per costruire il cambiamento nelle aree in trappola, assai spesso uniscono l’aspirazione ad attuare un «progetto» in sé, la ricerca di un risultato economico, il miglioramento delle condizioni della propria comunità.

    È il caso degli «innovatori sociali» studiati da Barbera e Parisi o degli «imprenditori pubblici» analizzati da Lo Presti, Luisi e Napoli, che traducono servizi educativi in veri e propri progetti di sviluppo.

    Accanto a loro, spesso attorno a loro, operano ovunque organizzazioni di cittadinanza attiva, autonome forme e organizzazioni collettive volte a implementare diritti, curare beni comuni e sostenere l’autonomia di soggetti deboli attraverso l’aumento dei loro poteri.

    È assai significativo che Carrosio, Moro e Zabatino, studiando 16 delle 72 aree-progetto della Strategia, scoprano che la densità di queste organizzazioni nelle aree fragili è pressoché uguale a quella nazionale (3,5% della popolazione), che a una minore disponibilità di fondi fa lì riscontro una presenza più forte di giovani, e che in quei luoghi le organizzazioni si distinguono nella gestione e sorveglianza di musei e siti archeologici, nel soccorso e prima assistenza, nel trasporto sociale e salvaguardia del territorio: non a caso funzioni dove in quelle aree esistono a un tempo bisogni e opportunità.

    Bene, i materiali e gli argomenti del volume suggeriscono a queste organizzazioni e ai cittadini attivi in genere di ricercare alleanze per acquistare potere. Se vogliono avere gli spazi per sviluppare e fare avanzare la propria azione devono combattere il triplete di politiche tuttora vivo, e pretendere un cambio di passo. Per farlo devono sacrificare un’oncia del proprio tempo per costruire alleanze. È il segnale che viene a livello nazionale da tre esperienze come l’Alleanza contro la povertà, l’Alleanza per lo sviluppo sostenibile e il Forum Disuguaglianze Diversità.

    È un processo che può assumere efficacia politica se prende piede anche città per città, quartiere per quartiere, area fragile per area fragile. Mescolando le proprie distinte specificità settoriali e provando a costruire visioni strategiche di territorio.

    E poi, appunto, c’è lo Stato. Il suo intervento sarà necessario – e quando possibile preteso dai cittadini organizzati – soprattutto quando un territorio non trova al proprio interno la forza di intraprendere un processo di emancipazione, come è il caso di molte aree fragili.

    Qui l’esperienza di rottura che anticipa una «politica rivolta ai luoghi» (place-based policy) è rappresentata dalla Strategia aree interne. Non a caso essa è stata attivamente osteggiata, e dunque allungata nei tempi di attuazione, da una parte degli apparati della burocrazia conservatrice romana (e in diversi casi regionale) e da élites culturalmente cresciute nel triplete neo-liberale e che da esso traggono benefici. […]

    Voglio enucleare i cinque capi-saldi di una politica rivolta ai luoghi, rilevanti per ogni strategia che intenda aggredire sistematicamente le aree fragili del paese.

    Primo: i confini dei territori sono tracciati come parte della strategia.

    È il confronto partecipato e strategico sulla visione del futuro che deve stabilire i confini entro cui poi, in modo continuativo e di lungo termine, si lavorerà assieme. Lo farà tenendo conto dei confini amministrativi e di quelli funzionali connessi a ogni diversa lettura settoriale del territorio, muovendo da una ricca base di dati e considerando le suggestioni di centri di competenza esterni. Ma terrà conto anche di complementarità e omogeneità nel disegno dei servizi e nell’azione sui mercati e della disponibilità di cittadini ed élites locali a costruire una visione condivisa del futuro e a riconoscere comuni leadership.

    Questo vale per i confini di un’area vasta che comprenda molti comuni, come dell’aggregazione di interstizi o quartieri di una città.

    Secondo: entro quei confini, viene costruita una visione condivisa del futuro attraverso un confronto acceso, aperto, informato e ragionevole.

    Un luogo fragile, scosso da fermenti ma in trappola: la possibilità del suo sviluppo deriva dalla scelta di vita di una massa critica di persone che decidano di scommettere su quel luogo e di affrontare difficoltà e durezze per farlo.

    La costruzione condivisa di una visione può dare un impulso decisivo a raggiungere questa massa critica. Perché essa maturi è necessario che preferenze iniziali anche assai diverse, su cosa serve e su come realizzarlo, si confrontino, entrino in conflitto.

    Sappiamo che una convergenza adeguata di preferenze può prodursi se il confronto è ragionevole – ognuno si misura con i sentimenti e con le ragioni degli altri –, informato – non si parla due volte senza fornire informazioni a supporto –, acceso – anche i più «indisciplinati» e i più deboli sono messi in condizione di contare – e aperto – ai valori e alle conoscenze esterne.

    Questa convergenza potrà avvenire vuoi perché le preferenze si modificano nel percorso, vuoi perché emerge un’intersezione possibile fra esse. Tutto ciò richiede metodo.

    Terzo: le autorità locali elette vengono legittimate, e al tempo stesso destabilizzate.

    Il processo di democrazia deliberativa, di cui ai due precedenti punti, deve avere luogo entro il solco della democrazia elettiva. Una moltitudine di esperienze, in Italia come in altri paesi, mostra che l’affidamento di poteri di decisione e risorse finanziarie a soggetti diversi da quelli democraticamente eletti – sotto forma di agenzie, istituzioni di scopo, gruppi locali ecc. – tende presto, specie in aree fragili e in trappola, a riprodurre posizioni di rendita che frenano i processi di emancipazione. Ma al tempo stesso quelle élites locali così legittimate devono impegnarsi a stare al gioco deliberativo sopra descritto; devono cioè accettare che il loro sistema di relazioni privilegiate, quello che caratterizza la trappola, sia messo in discussione, sia esposto al rinnovamento.

    Il soggetto nazionale e/o sovranazionale – ad esempio l’Unione europea – responsabile per la strategia deve agire come uno «spettatore giusto e imparziale», che assicura il rispetto del metodo. (Su quali condizioni politiche lo spingano ad agire in tal modo torno in chiusura).

    Quarto: le autorità sovra-comunali (regionali, nazionali, sovra-nazionali) si impegnano in politiche settoriali strategiche orientate a missioni e attente ai territori.

    La politica pubblica per lo sviluppo di aree fragili non avrà effetto se alla realizzazione di singole strategie territoriali non corrispondono a livello nazionale (e ove necessario regionale e sovra-nazionale) politiche settoriali a un tempo segnate da obiettivi strategici e attente alle specificità dei territori.

    Nella Strategia aree interne, Stato e Regioni hanno assunto l’impegno con le autorità locali di rendere permanenti, come parte dell’azione settoriale ordinaria, i progetti nati e sperimentati nella Strategia. È un patto che sfida la cultura dominante, ma che trova difficoltà di attuazione perché non si accompagna in genere alla consapevole adozione di una strategia nuova da parte dei ministeri o assessorati competenti per istruzione, salute e mobilità: alla scrittura di «linee guida settoriali» che pure contengono i pezzi di questa nuova missione, non fa riscontro l’impegno politico a dare loro attuazione, con effetti eclatanti nel caso del blocco delle «nuove scuole delle aree interne» inventate dai territori.

    Un simile duplice impegno dovrebbe riguardare anche altre politiche settoriali rilevanti per tutte le aree fragili. Una politica per le foreste, come emerge con forza dal contributo di Pettenella. Una normativa semplice che «agevoli la fruizione agricola dei territori», l’accesso a terre non coltivate da parte di una nuova giovane leva di agricoltori, come scrive Bussone.

    Una «politica edilizia orizzontale attenta ai luoghi» che, come scrivono Lanzani e Curci, riattivi edilizia oggi abbandonata quando essa ha un valore di mercato o un valore d’uso in prospettiva sociale, e viceversa realizzi un «abbandono selettivo» (anche con demolizioni e bonifiche) quando non sussistono quelle condizioni. Insomma, il cambiamento richiede che la costruzione di «immagini di futuro» da parte dei singoli territori si accompagni, avvenga assieme, alla «costruzione di immagini di futuro a scala nazionale».

    Quinto: le autorità realizzano tutto ciò grazie a un forte investimen- to in risorse umane nella pubblica amministrazione.

    La lettura granulare dell’Italia proposta da questo volume, il nuovo modo di amministrare la cosa pubblica e di costruire le politiche prefigurato nei quattro punti precedenti richiedono un personale della pubblica amministrazione diverso da quello oggi prevalente, e diversamente motivato. Capace e autorizzato a spendere una parte cospicua del proprio tempo nei territori.

    Capace e non scoraggiato (dal vetusto sistema di controllo della Corte dei conti) ad assumere decisioni discrezionali – indispensabili per piegare principî generali a esigenze specifiche dei territori.

    Capace e motivato a governare complessi processi deliberativi. La Strategia aree interne ha affrontato la carenza di queste figure mettendo assieme un nucleo di funzionari dalle doti non comuni con un manipolo di esperti «indisciplinati» e di grande competenza esterni all’amministrazione e tentando di promuovere il rafforzamento di tecnostrutture nelle aree partecipanti al progetto.

    L’esperimento offre spunti per future repliche. Ma affinché questa divenga la prassi, è indispensabile nel paese un vasto e accelerato investimento e rinnovamento dei funzionari dell’amministrazione pubblica.

    Ma perché mai un’Autorità nazionale (o sovra-nazionale) dovrebbe fare tutto questo? Perché dovrebbe rinunziare alla strada delle compensazioni compassionevoli in cui scambia trasferimenti finanziari alle aree fragili, lasciandone la distribuzione alle élites locali, in cambio del supporto elettorale di queste ultime? È bene porsi queste domande, per evitare di scrivere eleganti politiche sulla sabbia che non hanno le gambe per camminare.

    Tre sono i motivi per cui le élites nazionali (o europee) potrebbero seguire una strategia rivolta ai luoghi. Potrebbero farlo perché i costi finanziari e sociali di perseverare nelle vecchie politiche sono divenuti, e sono percepiti come, insostenibili: in fondo è la leva che oggi potrebbe funzionare di fronte al combinato disposto di una dinamica autori- taria e di pubbliche finanze malmesse.

    Ovvero, potrebbero farlo per un soprassalto di pubblica missione nazionale, perché avvertono che la diversità che quella politica può tutelare costituisce un valore identitario nazionale: è forse il fattore che più ha pesato nell’inusuale sopravvivenza della Strategia aree interne attraverso quattro governi. Oppure, è la terza strada, potrebbero farlo per il montare di un movimento politico e culturale nel paese che pretenda questo passo.

    In conclusione. Una svolta radicale per l’emancipazione è possibile. A livello nazionale e territorio per territorio. In tutte le aree fragili, in trappola. Le immagini, i sentimenti, gli strumenti eterodossi ci indicano una direzione di marcia possibile.

    Sosteniamo e animiamo gli esperimenti già in corso. Sperimentiamoli in altri luoghi. Confrontiamoci sui risultati. E se le prime due strade per sostenere questa strategia non si mostreranno sufficienti, torniamo a praticare la terza strada, quella di un forte movimento politico.


    Pubblichiamo un estratto da Riabitare l’Italia a cura di Antonio De Rossi (Donzelli editore)

    Immagine di copertina: ph. da Wikipedia

    Note