Dalla mediocrità al potere, alla potenza dell’immaginario

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    Solo da qualche giorno ho trovato la serenità per riflettere senza essere distratto dalla paura e dell’angoscia. Mi sento come il giovane di una tribù che deve diventare guerriero e per farlo ha l’obbligo di affrontare una dura prova al cospetto della sua comunità. La mia generazione, aveva messo da parte il pensiero del rifondare per rinascere rinnovati, abituatasi a vivere nel periodo più “grasso” della storia dell’umanità.

    Nell’opulenza abbiamo dimenticato che tutto il progresso che abbiamo generato, ha prodotto contestualmente un’impareggiabile quantità di rischi. Non so se viviamo in un mondo più rischioso di quello delle generazioni precedenti.

    Non credo che la differenza storica risieda nella quantità di rischio, piuttosto nell’incontrollabilità delle conseguenze delle decisioni di civiltà. Siamo sempre più consapevoli che il problema non sono le cosiddette “incertezze fabbricate”, come il cambiamento climatico, i disastri ecologici e il Covid-19, ma la crescente consapevolezza che viviamo in un mondo interconnesso e fuori controllo che poi crea il fondamento della società del XXI secolo: il rischio.

    La pandemia non credo che finirà con un punto a capo, ma con dei puntini sospensivi. I puntini sono lo spazio che dovremo abitare chiedendoci che cosa vogliamo fare di noi stessi. Seppur arrivassimo ad avere un mondo privo di malattie, economicamente opulento e in pace, su cosa ci concentreremo e su cosa impegneremo il nostro ingegno? Io cesserei subito di assecondare i sogni e i desideri dell’antropocentrismo estremo, perché, con la piega che abbiamo preso, i prossimi obiettivi potrebbero essere soltanto miraggi come conseguire l’immortalità e raggiungere la divinità.

    L’incapacità di gestire le “incertezze fabbricate”, sia a livello nazionale che globale, è il risultato della “rivoluzione anestetizzante”, quel processo che ci ha condotto, decennio dopo decennio, a posizionarci all’estremo centro, dove tutto deve essere standardizzato, nel quale la “media” è diventata la norma e la “mediocrità” è stata eletta a modello. La prima lezione che abbiamo imparato al tempo del Covid-19 è che è finito il tempo della “mediocrazia” al potere. Nessuno dovrà più cedere a piccoli compromessi utili esclusivamente a perseguire obiettivi a breve termine.

    Nessuno dovrà più chiudere gli occhi e sottomettersi a regolette sottaciute. Dobbiamo essere vigili e aver ben presente che la mediocrità rende pian piano tutti mediocri. Rileggiamo, approfittando dell’arresto delle attività e della domiciliazione forzata, “L’uomo senza qualità” di Robert Musil e portiamoci come breviario le sue parole: «Se dal di dentro la stupidità non assomigliasse tanto al talento, al punto da poter essere scambiata con esso, se dall’esterno non potesse apparire come progresso, genio, speranza o miglioramento, nessuno vorrebbe essere stupido e la stupidità non esisterebbe».

    Uscire definitivamente dalla mediocrazia non è semplice, ma è una via che vale la pena percorrere, soprattutto se vogliamo decolonizzare l’immaginario e riappropriarci della capacità di immaginare, che altro non è che un’azione politica. Si, l’immaginario ha una funzione politica.

    Pone questioni, apre strade. Dobbiamo decidere di vedere qualcosa anche dove a prima vista non si vede nulla. Dobbiamo lasciarci andare nell’apofenia, così come la praticava Leonardo da Vinci, e riconoscere continuamente volti nelle nuvole: “Se tu riguarderai in alcuni muri imbrattati di varie macchie o pietre di vari misti, se arai a inventionare qualche sito, potrai lì vedere similitudine de’ diversi paesi, ornati di montagnie, fiumi, sassi, albori, pianure, grandi valli e colli in diversi modi; ancora vi potrai vedere diverse battaglie e atti pronti di figure, strane arie di volti e abiti e infinite cose, le quali tu potrai ridurre in integra e bona forma.

    E interviene in simili muri e misti come del sono di campane, che ne’ loro tocchi vi troverai ogni nome e vocabulo che tu imaginerai”. L’immaginario non è un semplice agglomerato di immagini, ha un valore esistenziale, sia che l’uomo razionalizzi l’immagine a discapito del potere simbolico, sia che questo invece prevalga come nelle visioni poetiche. L’immaginario ha una semantica che può essere organizzata, che è esso stesso linguaggio e, in quanto tale, può essere trasmesso e rinnovato. Può combinarsi ad altre pratiche. L’immaginario può essere attivato con consapevolezza e può essere guidato per favorire la coesione e la rifondazione della nostra comunità.

    Nei silenzi assordanti delle nostre città, in un paesaggio sonoro inimmaginato, sento il suono delle ali dell’angelo della storia e il rumore delle crepe negli ideali dell’umanesimo. “C’è un quadro di Klee che si intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato.

    Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo di rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo progresso, è questa tempesta”. (Walter Benjamin)


    Immagine di copertina Nimbus Katoenveem – Berndnaut Smilde, 2018

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