Per trovare una coscienza di ‘classe sociale’ non basta guardare alla cultura e al reddito

Scarica come pdf

Scarica l'articolo in PDF.

Per scaricare l’articolo in PDF bisogna essere iscritti alla newsletter di cheFare, completando il campo qui sotto l’iscrizione è automatica.

Inserisci i dati richiesti anche se sei già iscritto e usa un indirizzo email corretto e funzionante: ti manderemo una mail con il link per scaricare il PDF.


    Se inserisci il tuo indirizzo mail riceverai la nostra newsletter.

    image_pdfimage_print

    La ricerca di una coscienza (e di una mobilitazione) di classe riguarda una pluralità di soggetti accomunati da un orientamento alla co-generazione di significati. Sense maker quindi che operano principalmente attraverso la produzione di conoscenza e di contenuti culturali, ai quali si possono affiancare i lavoratori sociali del welfare.

    Anche questi ultimi, infatti, sono chiamati, almeno in alcuni ambiti e ruoli, non solo a erogare prestazioni sociali, assistenziali, educative, ma attraverso esse, contribuire alla riproduzione dei significati che sostanziano opzioni di valore legate alla protezione sociale (inclusione, sicurezza, coesione, ben-essere).

    Temi, questi ultimi, che oggi risultano sotto pressione non solo per mancanza di risorse e per modalità di allocazione di queste ultime che premiamo più la frammentazione che la ricomposizione, ma anche per il progressivo sgretolarsi della legittimazione rispetto al carattere meritorio del welfare.

    Sembra venir meno il consenso sociale rispetto al fatto che sia giusto garantire servizi sociali in senso autenticamente universalistico

    In altre parole sembra venir meno il consenso sociale rispetto al fatto che sia giusto garantire servizi sociali in senso autenticamente universalistico, anche a chi non può permetterseli perché non dispone delle risorse economiche e della capacità di informarsi e rivendicare.

    Un consenso che invece in una diversa epoca storica – la cosiddetta “stagione dei diritti” a cavallo degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso – aveva fatto da incubatore per un sistema di servizi che oggi è sempre più sotto attacco: dalla psichiatria agli affidi, dall’accoglienza ai migranti all’inserimento lavorativo dei detenuti ecc.

    Gli operatori sociali, in particolare quelli che si fanno carico di attivare una connettività a più ampio raggio intorno a servizi di welfare su scala locale, si trovano in una situazione sempre più scomoda: delegittimati dall’opinione pubblica, sotto pressione da parte di utenti che presentano bisogni sempre più complessi e differenziati, collocati in organizzazioni che faticano a mettere in luce il loro “valore aggiunto” in senso economico e sociale presso una pluralità di stakeholder, in particolare rispetto a finanziatori che ambiscono sempre più a entrare nel merito rispetto alla progettazione, esecuzione e valutazione delle attività spingendo sul pedale dell’innovazione.

    A fronte di queste sollecitazioni sembra manifestarsi anche tra gli operatori sociali una rinnovata domanda di appartenenza che se non è di classe è quantomeno riferita ai modelli organizzativi e/o a quelli di servizio evidenziandone le peculiarità rispetto a tendenze che, per ragioni diverse, li limitano. Ad esempio tornando alla radice originaria del terzo settore e dell’impresa sociale per contrastarne possibili derive di burocratizzazione o di aziendalizzazione, oppure recuperando gli elementi fondativi del welfare sociale per meglio posizionarsi rispetto a tendenze che spingono sempre più a dislocare i servizi in contesti “non canonici” (es. welfare aziendale) e coinvolgendo soggetti “non specializzati” (es. cittadinanza attiva e gruppi informali).

    Sembra manifestarsi tra gli operatori sociali una rinnovata domanda di appartenenza che se non è di classe è quantomeno riferita ai modelli organizzativi e/o a quelli di servizio

    Per cercare di comprendere meglio la portata di queste trasformazioni è possibile rileggere i dati di un’indagine sui percorsi formativi e di carriera di imprenditori, dirigenti, quadri e operatori che hanno frequentato la Scuola d’impresa sociale promossa dal consorzio SIS (Sistema imprese sociali) di Milano.

    La rilevazione è stata effettuata attraverso un questionario compilato da 105 persone che negli ultimi 12 anni hanno partecipato ad almeno uno dei corsi di formazione organizzati dalla Scuola (per manager, coordinatori di servizio, gestori del personale, responsabili amministrativi, operatori di comunità, ecc.). I dati approfondiscono una pluralità di questioni alcune delle quali utili a rilevare, almeno in potenza, la formazione o il consolidamento di una “coscienza di classe” dei lavoratori e dei manager sociali in questa fase così complessa.

    Un primo elemento di interesse riguarda la collocazione e la mobilità sociale percepita. Pur occupando nella maggior parte dei casi una posizione di sicurezza relativa, si intravedono segnali di scarsa mobilità sociale ascendente e una decrescita relativa guardando alla famiglia di origine. È interessante notare che queste incrinature rispetto alla posizione sociale riguardano in particolare le figure dirigenziali (imprenditori, manager e quadri) tra le quali prevale il genere maschile, mentre per le donne che occupano soprattutto ruoli più legati al coordinamento e all’erogazione di servizi si nota una maggiore percezione di mobilità ascendente.

    Il percorso di carriera è invece molto lineare e senza particolari “scossoni”: la maggior parte lavora in una sola organizzazione ormai da tempo e può disporre di un contratto di assunzione a tempo indeterminato. La forbice retributiva esiste sia fra maschi e femmine che tra manager e officer anche se non assume una dimensione particolarmente significativa in quanto la maggior parte dei soggetti coinvolti si colloca nella parte bassa della distribuzione di frequenza.

    Forse è per questa ragione che la leva salariale non sembra in grado di “retribuire” adeguatamente le diverse dimensioni di competenza e di effort messe in campo, in particolare da parte delle lavoratrici femmine. Sorprende quindi relativamente il fatto una parte piuttosto consistente dei lavoratori sia alla ricerca di nuove opportunità di sviluppo nello stesso settore mentre una componente minoritaria ma non residuale sia disponibile a valutare nuovi percorsi professionali in ambiti diversi.

    Il curriculum formativo risulta già ricco di esperienze, in particolare tra le lavoratrici femmine che sono spesso in possesso di titoli di laurea magistrali e hanno frequentato master di perfezionamento. La formazione effettuata ha insistito soprattutto sulle capacità di analisi dei contesti e degli scenari di sviluppo, oltre che su competenze relazionali soft. Minore impatto si registra invece sui fondamentali della gestione d’impresa e sugli assetti organizzativi e di governance.

    I corsi della Scuola d’impresa sociale si sono rivelati particolarmente rilevanti sia per formare le competenze di natura direzionale (con una prevalenza di corsisti maschi), sia per migliorare competenze di coordinamento settoriale (in particolare per le femmine).

    In questo senso la Scuola ha consentito di rispondere a esigenze legate alla gestione organizzativa e alla promozione dell’innovazione (soprattutto di processo) che hanno contribuito a ispirare nuovi stili di leadership in particolare tra le corsiste.

    Interessante la rilevanza attribuita a forme emergenti di azione sociale dal basso e all’intraprendenza delle comunità locali

    Il fatto che l’offerta formativa abbia impattato maggiormente sulla gestione organizzativa ha probabilmente svolto la funzione di innesco di un ulteriore fabbisogno legato al rafforzamento della dimensione imprenditoriale, in particolare tra i corsisti che già occupano posizioni dirigenziali.

    La lettura dei mutamenti che caratterizzano lo scenario economico e sociale attuale e futuro vede invece, da una parte, un giudizio generale orientato al pessimismo derivante dalla combinazione di declino economico e disgregazione sociale, ma, d’altro canto, si denota una riapertura di credito rispetto al ruolo di trasformazione sociale ed economica esercitato in particolare da organizzazioni come quelle in cui operano i soggetti coinvolti o assimilabili ad esse (terzo settore).

    Interessante, in questo campo, anche la rilevanza attribuita a forme emergenti di azione sociale dal basso e all’intraprendenza delle comunità locali. Anche l’innovazione sociotecnologica viene identificata come un importante driver di sviluppo ma attribuendo ad essa un peso specifico che varia positivamente se si considerano i soli lavoratori maschi e i ruoli dirigenziali.

    All’interno di questo scenario il welfare può assumere, a detta dei rispondenti (in particolare dei manager), un ruolo di rilievo a patto che sappia meglio “annidarsi” nei contesti di vita e di lavoro, oltre a combinarsi con modelli di gestione comunitaria.

    Infine le sfide che attendono le organizzazioni d’impresa sociale nelle quali le persone coinvolte nell’indagine spesso operano con posizioni di responsabilità operativa e strategica sono legate a una molteplicità di questioni: l’arricchimento delle competenze che può avvenire anche (e soprattutto) attraverso il ricambio generazionale, la capacità di innovare come tratto caratteristico e non estemporaneo dell’impresa sociale e inoltre la solidità dei business model soprattutto per quanto riguarda la capacità di generare ricchezza per remunerare il principale capitale di queste imprese ovvero le persone.

    In sintesi dalla ricerca su lavoratori e manager sociali sembrano emergere profili biografici, strutture motivazionali e letture di contesto che forse non sono del tutto riconducibili alla “classe creativa”, ma rispetto ai quali si possono innescare elementi di apprendimento reciproco su almeno due fronti. (qui il testo completo della ricerca)

    Il primo elemento riguarda i meccanismi di identificazione organizzativa, cercando di risolvere l’ambivalenza tra la sicurezza derivante da rapporti di lavoro subordinato rispetto all’assunzione consapevole di rischi legati alla partecipazione alla gestione e al governo dell’intrapresa. Se a prevalere è il trade-off tra questi meccanismi il rischio è di finire in un vicolo cieco in quanto la progressione di carriera non assume un chiaro connotato evolutivo (anche in termini di retribuzione economica) e l’adosione di un approccio più imprenditivo non passa attraverso il riconoscimento dei necessari margini di libertà e creatività (da compensare anche in termini di “flexsecurity”).

    Il secondo riguarda invece una meta competenza ovvero il saper contestualizzare interventi puntuali grazie alla capacità di leggere e intervenire attivamente in contesti socioeconomici e politici e non solo su singole situazioni di bisogno. In questo il caso il punto di incontro riguarda la capacità di agire come sense maker sia a livello di dialogo sociale istituzionale (i “tavoli” di coordinamento) sia facilitando il codesign delle soluzioni con persone e gruppi sociali agendo “sul terreno”. Attività che richiedono un investimento motivazionale e relazionale consistente che non trova sempre un adeguato riconoscimento all’interno di organizzazioni, anche sociali, sempre più spinte sul fronte dell’erogazione di prestazioni.

    In definitiva se si vuole parlare di “classe sociale” le condizioni di omogeneità che innescano il mutuo riconoscimento e la capacità di azione comune si ravvisano, più che a livello socioeconomico e culturale, nel modus operandi. In primo luogo guardando alla capacità di ri-significare la propria funzione di intermediazione sociale attraverso nuove modalità di esercitare un ruolo terzo rispetto a dinamiche top down e bottom up. In secondo luogo ri-attivando processi di innovazione organizzativa al fine di assegnare il giusto valore a meccanismi di scambio che ibridando mercato, reciprocità e redistribuzione alimentano la riproduzione sociale.

    Immagine di copertina di Mehdi Sepehri da Unsplash

    Note