È giugno, fa caldo, sono le prime ore del pomeriggio. Robertino arriva trafelato, i capelli arruffati e il viso rosso per la fatica. È in anticipo ma si sente in ritardo, e invece di salutare dice “scusa” alle persone che incontra. Sorride e non si ferma, ha fretta, guizza via, e in un attimo sparisce dentro il capannone.
Fuori, sul marciapiede, siamo in tre quattro, intenti a osservare un mucchio di roba ammassato accanto alla serranda principale, gli ultimi doni che generosi romani ci hanno lasciato nella notte. Contiamo, in ordine: un materasso sfondato; la tavoletta di un water, rotta; la testiera di un letto per bambini; scaffali in alluminio; lo scheletro di una lavastoviglie o di una lavatrice, non si capisce bene; dei panni infangati, forse lenzuola.
Carlo afferra la testiera, è di legno massiccio e scuro, pesante e solida. Negli ultimi giorni abbiamo perso lo striscione perché il vento ce l’ha tirato giù, si è sbrindellato e ora è inservibile. Carlo guarda quel pezzo di legno e dice che ci serve una nuova insegna, qualcosa da mettere fuori quando siamo aperti. Sofia annuisce, “vado a prendere l’alcol per pulirlo”, e quando torna qualcuno ha già tirato fuori il temperino e iniziato a incidere la traccia della parola: SCUP.
Scup è l’acronimo di Sport e Cultura Popolare. È un centro polifunzionale autogestito, che offre servizi professionali a prezzi popolari. È una palestra e un laboratorio artigianale, un mercato mensile eco-solidale, una biblioteca e un presidio culturale di Roma. È composto da precari dello sport e della cultura, professionisti di vari settori che dal 2012 hanno messo insieme le loro competenze ed esercitano lì il proprio lavoro.
Un tempo si trovava in via Nola, finché il 7 Maggio 2015 è stato sgomberato dalle ruspe, diventando un cumulo di calcinacci. Allora un grande corteo ha attraversato il quartiere e ha camminato a lungo, e a un certo punto si è fermato in una via, decidendo che quella sarebbe stata la sua nuova casa.
Quella via si chiama via della Stazione Tuscolana, ed è una strada di passaggio in cui non c’è niente, una bretella di collegamento fra le due consolari Tuscolana e Casilina. Nessuno la imbocca a piedi volontariamente, e se lo fa di solito è perché si è perso, o sta seguendo le indicazioni di Google Map sul cellulare, salvo pentirsene subito dopo: si sa che i navigatori conoscono le strade, ma non hanno idea di cosa significhi percorrerle.
E percorrere via della Stazione Tuscolana è un’esperienza brutta, di quelle che ti fa cambiare marciapiede e imboccare la prima a sinistra per evitare le pile di vestiti, mobili e rifiuti vari ammonticchiati ai margini, l’asfalto spaccato dalle radici degli alberi e le cacche di cane a mo’ di pietre miliari. Da un lato un lungo muro separa la strada dai binari delle ferrovie, il fischio dei treni in transito fa sobbalzare chi non se lo aspetta. Si attraversa e si va dall’altra parte, su via della Stazione Tuscolana, perché non si sopporta la puzza di piscio e a volte si ha la netta sensazione, soprattutto di notte, che potrebbe succederti un po’ di tutto, e nessuno se ne accorgerebbe.
Ma se, con grande determinazione, la si percorre fino a metà, dal 7 Maggio 2015 qualcosa infine la si incontra, e questo qualcosa è Scup.
Visto da fuori, Scup è indistinguibile dalle macerie che lo circondano. Anche quando una delle serrande è alzata in segno di apertura, l’impressione che se ne ha è che l’insegna sia lì per sbaglio, una cosa vecchia buttata in mezzo ad altre cose vecchie. Poi si entra, e lo scenario cambia, poliedrico, muta costantemente col variare delle stagioni e delle ore del giorno.
A volte è pieno di gente e fa caldo anche se è inverno, perché i corpi ammassati nei lunghi tavoli da osteria combattono il freddo col loro tepore naturale. Le persone siedono vicine e parlano fitte, coprendo di chiacchiericcio la musica in sottofondo.
Le mattinate e le domeniche, invece, è pieno di bambini, e di adulti poco cresciuti, riuniti intorno a uno spettacolo di maschere o a un laboratorio di fai da te. I capannoni rimbombano delle urla acute dei piccoli e delle risate dei genitori in libera uscita, specialmente quando c’è mercato e gruppi di vecchi amici si ritrovano dopo tanto tempo.
Durante i lunghi pomeriggi infrasettimanali capita spesso di incontrare persone più anziane, che abitano in zona e sono venute a prendere un tè. Se poi fanno parte di comitati e associazioni, attorno gli stessi tavoli da osteria dove gli amici chiacchieravano la sera prima si svolgono lunghe riunioni sui problemi del quartiere, mentre gli atleti escono dalla palestra e fanno capannello poco distante. C’è sempre qualcuno che arriva senza sapere bene cosa aspettarsi, e il primo gesto che fa è guardare in alto, verso le travi di metallo del tetto da cui pende un’enorme tela cerata di colore blu, a metà fra una grondaia e un’installazione artistica.
Ma la verità è che non si ha nessun motivo per entrare in quei capannoni, a meno di non conoscerli già, perché Scup è circondato dalla mondezza. La mondezza c’era anche dentro, all’inizio, ed è stato difficile e faticoso raccoglierla nei sacchi neri condominiali e chiamare l’Ama perché se la venisse a prendere. È stato possibile solo grazie a decine di persone coperte di tute bianche e mascherine in faccia, che in quei primi giorni di Maggio hanno tirato fuori le scarpe vecchie dall’armadio e sono venute a darci una mano.
Quindi potrei stare qui a spiegare che Scup è nato come risposta alla crisi attraverso un piano di mutualismo, servizi, reddito e condivisione, perché l’economia il territorio il welfare etc., e forse andrebbe bene anche così; ma a essere onesti Scup, come ogni spazio sociale recuperato, nasce dalla mondezza. È una risposta alla mondezza, un elemento trasformativo che si occupa della mondezza della città, occupandola.
Tuttavia, non bisogna pensare che la mondezza sia solo materiale, come fossimo un gruppo di netturbini volontari pronti a raschiare via ogni adesivo dai pali della luce con solerte e indomabile dedizione. Quando parlo di mondezza mi riferisco a tante cose, come all’isolamento, per dirne una, che è una specie di mondezza dell’anima. L’isolamento della via, il fatto che fosse abbandonata, che ci venissero soltanto le coppiette a sbaciucchiarsi e la scuola guida a fare gli esami. E soprattutto l’isolamento di chi ci finisce, in quella via, ed entra a Scup, perché un amico un fratello un conoscente gliene ha parlato, o ha visto la locandina da qualche parte, e appena entra ha subito l’impulso a raccontarti la sua storia.
È la cosa che capita più spesso, a Scup, che qualcuno si avvicini e si metta a parlare di sé, come una diga che si rompe per la troppa pressione. Si tratta di persone di tutti i tipi, che negli anni hanno visto calare il loro potere d’acquisto e quindi hanno bisogno di risparmiare sulla palestra, o sul corso di francese, o che magari un potere d’acquisto non ce l’hanno mai avuto, e dunque non sanno che farsene, per dirla in breve, della cosiddetta società dei consumi.
Ti siedi con loro e li ascolti parlare. Siamo tutti a vario titolo precari o disoccupati, e sembra che nel tempo abbiamo maturato, ciascuno con la sua dose di buone ragioni, la convinzione che i nostri fallimenti siano frutto di incapacità personali. Eppure, nel dirselo insieme, in quel momento, a Scup, acquistiamo coscienza del fatto che di quei fallimenti non possiamo rivendicare un’esclusiva proprietà. E forse non è nemmeno corretto definirli fallimenti tout court, forse si tratta semplicemente di mondezza mentale, da mettere in circolo e trasformare.
Così come quei capannoni non sono affatto luoghi del degrado urbano ma, al netto del sudore della fronte e di una buona dose di immaginazione, sono una sala per le prove teatrali e un’hosteria in costruzione, un corso di break-dance e il vino dei Castelli versato nel tuo bicchiere direttamente dal produttore, che ne parla commosso mentre tu ti ubriachi.
Nei comunicati scriviamo che è stata la crisi a far scattare la molla di Scup, ed è corretto e allo stesso tempo riduttivo. La crisi ci ha semplicemente portato a condividere il disagio che fino a quel momento eravamo costretti a provare ciascuno singolarmente, e a convertire quel disagio in un progetto di riscatto.
Per questo non avevamo paura della mondezza che abbiamo trovato quando siamo entrati, né abbiamo paura di quella che ci circonda oggi, sparpagliata fuori dai capannoni in ristrutturazione. Abbiamo capito che la mondezza è il minimo comune denominatore di una città abbandonata a se stessa, e come tale va accolta e compresa.
Smaltire la mondezza significa in fondo solo raccoglierla e spostarla da un’altra parte. Riciclarla, invece, somiglia di più a un processo poetico, nel quale uno sguardo inattuale è in grado di vedere la bellezza là dove gli altri vedono soltanto degrado e deformità.
“Poeticamente abita l’uomo su questa terra”, cantava Hölderlin, e poeticamente ci abita ancora, quando se ne ricorda, andando a caccia di parole nuove, di un nuovo immaginario che trasformi la mondezza in qualcos’altro: una fabbrica urbana che converta materia in energia. Che la materia sia poi un libro o corso sportivo, un concerto o una proiezione cinematografica, una riunione o la testiera di un letto, poco importa. Sarà indifferente, nei momenti di lotta come in quelli di svago. Saranno energia anche le chiacchiere fatte ai margini di eventi gremiti di solitudini che, pure se non combaciano mai perfettamente, almeno si incontrano e si riconoscono.