Il sole sta tramontando e tinge di ocra le palazzine color mattone. Batte sulle finestre degli ultimi piani e illumina i fiori che iniziano a sbocciare nei balconi, disposti in vasi ordinati accanto agli stendini. Il cielo è terso e azzurro, così azzurro da sembrare più grande del solito.
“Che guardi?” Chiara mi porge i volantini tirandoli fuori da una sacca, piccoli foglietti in bianco e nero con le attività della settimana e del mese stampate sopra. “Niente, il cielo”, rispondo stringendomi nel cappotto. Siamo stanche, abbiamo staccato da lavoro e siamo corse a Scup per fare questa cosa, altrimenti quando la facevamo, “dai non ci vuole tanto, così ci leviamo il pensiero”. Spegne la sigaretta e andiamo.
Raggiungiamo l’arteria principale, via Appia Nuova, e la strada ci inghiotte con la sua frenesia crepuscolare. Il traffico copre ogni cosa di fumi e di clacson, mentre un’umanità veloce si disperde in rivoli di macchine, autobus, motorini, tutta concentrata nello sforzo del quotidiano.
Ci fermiamo sul marciapiede accanto all’incrocio dell’Alberone e restiamo lì, impalate e un po’ intirizzite, ad allungare discretamente i nostri pezzi di carta. Qualcuno li prende volentieri, altri parlano al telefono, altri ancora scuotono la testa piccati e ci fanno scappare un sorriso complice.
“Ho bisogno di un caffè”, mi dice Chiara a un certo punto. Sarà passata mezz’ora, forse nemmeno. “Perché no, facciamo una pausa.” Ripongo i volantini nella sacca e ci sediamo ai tavolini di un bar poco distante.
Siamo cresciute in queste vie, le vie che circondano Scup, e ci capita spesso di fare volantinaggio insieme. Ho conosciuto Chiara quattro anni fa, per caso, e tra un bicchiere di vino e l’altro abbiamo fatto amicizia. A Scup abbiamo iniziato a parlare dei cambiamenti che il nostro quartiere stava subendo, e in un circolo vizioso di volantinaggi, bicchieri di vino e caffè reciprocamente offerti ci siamo dette che era necessario fare qualcosa per orientarli, questi cambiamenti, o almeno stargli appresso. Da allora, insieme all’offerta di servizi e alla creazione di posti di lavoro, la cura del territorio è diventata parte integrante dell’esperimento di community welfare che come Scup ci sforziamo di portare avanti.
Ma non è scontato. San Giovanni, e più in generale l’Appio-Latino, è una zona di Roma Sud che ha una sua storia e una sua evoluzione. Come ogni quartiere, borgata o rione di Roma, è una delle tante città dentro la città: un tempo campagna, confine della Roma intra muros, è diventata periferia ad inizio Novecento, finché la periferia non si è spostata un po’ più in là, e un po’ più in là ancora, e ancora, un polipo che allunga i suoi tentacoli verso l’agro romano. Oramai è considerata centro rispetto al resto della città consolidata.
Un po’ romana, un po’ mantovana, Chiara queste strade le ha attraversate sin da bambina. Ha studiato antropologia e adesso lavora come operatrice sociale, aiutando i migranti, applicando nella pratica quello che ha letto sui libri. Vive a Roma in pianta stabile da oltre vent’anni, e anche lei, come me, nel tempo ha visto il quartiere impoverirsi e chiudersi in se stesso.
Sorseggiamo il caffè con calma, accendiamo una sigaretta e ci guardiamo intorno. Una fila ininterrotta di luci al neon ci invita ad aprire il portafogli per mangiare, vestirci, telefonare, arredare, giocare, misurando la nostra identità con la quantità di contanti che siamo in grado di spendere lungo la strada di casa. Osserviamo le persone che ci passano davanti, spinte da un’urgenza insensata, che corrono e si urtano e non si guardano mai in faccia
Sono i liberi professionisti di San Giovanni, i pischelli dell’Alberone, i commercianti di via Appia Nuova, i nipoti dei ferrotranvieri che hanno dato vita al quartiere negli anni Venti, certo più ricchi dei loro nonni. Ti aspetteresti di vederli sazi e tronfi, e invece eccoli lì, nervosi e corrucciati, feriti dagli scempi immobiliari che hanno ridotto la florida offerta di servizi pubblici a una serie di transazioni economiche private. Mentre i palazzinari ingrassano, ignorando sistematicamente le compensazioni dovute alla città per le colate di cemento gettate in anni di anarchia urbanistica.
“Ma che c’avranno questi che so’ tutti incazzati”, sbotta Chiara scoppiando in una risata potente e facendo tremare la cascata di ricci che ha in testa. Un gruppetto di anziani accanto a noi si gira e inizia a borbottare, svuotando i bicchieri che ha davanti. “Beh, pure noi, non è che siamo messe meglio”, le rispondo mentre scivolo più in basso sulla sedia. Ride di nuovo. Alza le spalle e poi aggiunge: “In effetti un po’ li capisco”.
Sembriamo tutti sfaldati: noi, i passanti, i vecchi che borbottano, e soprattutto la cameriera bionda con due occhiaie pesanti che ci porta il resto al tavolino. Tanti atomi impazziti, incattiviti e sfiduciati.
La febbre immobiliare degli ultimi trent’anni ha disgregato il tessuto sociale che resisteva nei territori e lo ha diviso in monadi, singoli individui costretti a un lamento senza catarsi, un confronto senza empatia. Nella realtà mastodontica della città metropolitana, l’Idra romana dalle mille teste, la politica è diventata sempre più simile al tifo organizzato, e molti oramai si cullano nella convinzione che essere attivi politicamente significhi avere un’opinione sulle cose. Fare politica è diventato sinonimo di fare spogliatoio, perdendo così la capacità di influire nel presente, di adattare la materialità ai diritti, o anche solo di guardare al futuro.
Ogni tanto, però, un evento irrompe e spezza lo schema. Lo si incontra seguendo la scia di abbandono che la speculazione si è lasciata alle spalle. Le serrande abbassate e gli scheletri di grossi poli produttivi caratterizzano il paesaggio romano tanto quanto le antenne paraboliche che svettano nel cielo terso della Capitale, e i luoghi del cosiddetto degrado urbano stanno lì a segnare l’incompetenza, la miopia e a volte anche la malafede di chi ha amministrato questa città nei decenni passati. Eppure, malgrado tutto, è in questa scia che crepitano le fiammelle prepolitiche dell’aggregazione, i tentativi di tornare a fare gruppo su problemi comuni.
Il caffè è finito ma non abbiamo voglia di alzarci, la stanchezza del giorno ci inchioda alle sedie. Parliamo di villa Lazzaroni, un piccolo parco pubblico, poco distante da dove siamo adesso: è l’unico spazio verde rimasto intatto nella babele commerciale.
“Mi ricordo quando ci giocavo da piccola, era il fiore all’occhiello della zona”, dice Chiara con un po’ di nostalgia. La villa ora è lasciata a se stessa, i girelli e le altalene sono rotti e i bambini non ci giocano più. “Sai che su questa cosa è nato un nuovo comitato? Dovremmo contattarli, capire come possiamo aiutarli”, conclude accendendosi un’altra sigaretta.
Sento spesso affermare, soprattutto da chi occupa cariche istituzionali ma non ha oneri di governo, che la politica deve tornare a parlare dei problemi, trovare delle soluzioni ai problemi, riformare, oliare i meccanismi arrugginiti della macchina statale per far sì che tutto sia bello, pulito e funzioni come si deve. Ciò che Scup invece mi ha insegnato, con la grande pazienza e la flemma febbrile tipica dell’autogestione, è che i problemi, in realtà, non sono importanti: anche loro, come ogni cosa, da qualche parte hanno un punto debole.
Più importanti dei problemi sono le persone che quei problemi li vivono, e che pensano valga la pena affrontarli, in un modo confuso che ancora non sanno. A volte sono mosse da una spinta conservatrice, restia al cambiamento, che batte i piedi per difendere il proprio. Ma da quando è scoppiata la crisi, da quando progressivamente abbiamo visto chiudere cinema, biblioteche, esercizi commerciali, parchi, asili nido, luoghi di produzione, giostre per bambini, fagocitati dai mostri della rendita e della speculazione, persino l’associazionismo di base – quella politica dal basso che Pasolini disprezzava – ha iniziato ad assumere connotati differenti: i quartieri si sono trasformati in deserto, e la difesa del territori è diventata un tutt’uno con la rivendicazione dei diritti fondamentali dell’abitare.
Le piccole realtà territoriali, prima sparse, cercano ora la condivisione, si coagulano in reti e si scambiano contatti, pareri, competenze. Si accorgono che il proprio problema è connesso ai problemi degli altri, e si autorganizzano per immaginare insieme una soluzione a entrambi. È così che l’agglomerato indistinto di individui che erano stati fino a quel momento si evolve, in un meccanismo di mutuo riconoscimento e accettazione, per dare vita a qualcosa di più grande della somma delle parti: una comunità, rifondata sull’uso comune di spazi – fisici, mentali e spirituali – fertilizzati ogni giorno dalle relazioni che li innervano.
Le progettualità che fioriscono intorno ai beni comuni urbani, luoghi spesso spogli e dimenticati, sono una delle forme in cui oggi nasce un senso di appartenenza che va oltre il disagio dei singoli. Il community welfare, il welfare comunitario, diventa così la pretesa necessaria di ricostruire il benessere a partire dai territori, al di là delle differenze e della frammentazione che li caratterizza. Un processo che stimola le energie latenti della società e le riannoda fra loro, andando a soffiare l’ossigeno dell’aggregazione sulle braci dell’indignazione diffusa, generando dal basso un’idea che riassembli i cocci delle nostre vite e crei nuovi strumenti, per sé e per altri.
Abbasso gli occhi sui volantini: tra le attività della settimana spicca il laboratorio di progettazione partecipata sull’ex-deposito Atac di piazza Ragusa. Oltre a Scup, il porto sicuro dal quale salpiamo, c’è tutto un mondo di capannoni vuoti, parchi diroccati, edifici collassati da ristrutturare. C’è tutta una città da conquistare e ripopolare di energie, e sembra così piccola, vista da qui, così accessibile, ingabbiata nelle lettere del nostro volantino.
Chiara si alza e si infila goffamente la borsa a tracolla. “Dai, ricominciamo, un’altra mezz’ora e poi ci andiamo a rilassare a Scup”. Mi alzo anch’io e la raggiungo. Sui palazzi color mattone è calata la sera.