Il nostro desiderio di classe

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    Sempre più grandi moltitudini di persone stanno male perché lavorano troppo e male, mentre sono ancora più numerosi coloro che non trovano lavoro e sono distrutti dal bisogno.

    I lavoratori culturali, l’oggetto dell’(auto)inchiesta di cheFare sulla “neurosostenibilità”, vivono la questione sociale del XXI secolo, ma vedono il conflitto di classe come un’istanza remota, impossibile.

    Qualcosa si blocca: la coscienza sociale – quando c’è – non diventa politica.

    Emerge una sensazione consonante, probabilmente irriflessa, ma da comprendere profondamente: c’è il timore che un appello al collettivo vada deserto. È più che un timore, talvolta è la certezza.

    Perché?

    Desiderio di classe

    Non c’è la classe, è la risposta prevalente. La classe è tutt’al più quella operaia. Oggi, si dice, ci sono gli operai, ma non la classe. Non è detto, ma non è escluso.

    E poi, si aggiunge, che c’entrano i lavoratori culturali con la classe? Loro, semmai, sono “ceto medio”, riflessivo o meno. Impoveriti, ma non formano una classe. Sono individui: una società di individui.

    Si potrebbe dare un’altra idea di “classe”. Come tutte le definizioni va contestualizzata. Partiamo da questo assunto: oggi esiste una condizione che non può essere descritta dal concetto di “classe creativa” e dalle altre trovate sociologiche che negli ultimi anni hanno cercato di individuare una categoria sociale a metà tra una classe di mestieri e una condizione da capitalisti personali.

    Il crollo della “classe creativa”, criticata dal suo stesso ideatore Richard Florida, potrebbe liberare il racconto almeno da questa ipoteca.

    Era ora.

    Ricominciamo da una considerazione: dalle interviste realizzate dall’inchiesta di cheFare emerge la coscienza del lutto, non di un’impossibilità. Il lutto è dovuto da una storia recente di incontri mancanti, ma non mancati. La differenza non sta solo nella lettera N che va e viene. La N indica quello che manca nella consapevolezza sia dei lavoratori culturali, sia di tutti gli altri.

    È una consapevolezza che porta a non agire e a soffrire.

    Cosa manca? La classe. Che non è solo un orizzonte socio-professionale o la mancanza di un contratto o un ingaggio stabile (il “precariato”). È la coscienza di essere posizionati in un campo sensibile, materiale, teorico e sociale comune a molti e contrapposto ad altri.

    La coscienza dell’essere mancanti di classe è tuttavia un dato politico. Significa: già l’idea che manchi una classe è un percorso che può portare a una classe. E, in ogni caso, ha portato al conflitto politico che stiamo vivendo in questi giorni.

    Chiamiamolo desiderio di classe.

    Si è incrinato qualcosa nel meccanismo culturale che negli ultimi 40 anni ci ha portato a escludere l’esistenza delle classi sociali. Una retorica pari a un’altra: il lavoro è finito perché ci sono gli algoritmi.

    Salvo scoprire che, con gli algoritmi, lavoriamo di più, e peggio, rispetto a quando lo sfruttamento era analogico.

    È già un inizio.

    Piazze senza leader né partiti

    Che cos’è allora questa non classe che vediamo e da cui, sconfortati, ci ritraiamo?

    Partiamo dalla cronaca: le piazze senza leader né partiti in tutto il mondo. In forma ugualmente spontanea, e molto più spesso organizzata, convocazioni di collettivi magmatici e posizionati in un campo politico senza soggetti organizzati ci sono da tempo anche in Italia.

    Penso alle manifestazioni antirazziste contro le politiche securitarie e disumane sull’immigrazione, agli oceanici cortei contro l’emergenza climatica. A partire da Milano: la città che ritorna nell’inchiesta di cheFare. Una città dove sono stati di più a manifestare, a cominciare dalla più piccola età. E dove è possibile abbiano manifestato anche i lavoratori culturali.

    Quelli contro il razzismo sono solo movimenti contro Salvini e finiscono per favorirlo! È la risposta che vale anche per altre mobilitazioni. Questa è la polemica ricorrente, elezione dopo elezione. La vediamo su tutti i social network e in Tv. Tende a rafforzare la certezza dell’inutilità di queste convocazioni e dunque l’assunto: ogni appello al collettivo va deserto. Se non immediatamente, subito dopo.

    Conveniamo però su un altro fatto: qualcosa sta accadendo ed è probabile che Salvini sia l’obiettivo immediato di un percorso che può essere più ampio. Altrimenti non si sarebbero dati, da più di tre anni, queste mobilitazioni. Non solo in Italia, ma in uno spettro amplissimo di paesi.

    Penso al movimento transfemminista come Non Una di Meno, il più definito anche in termini programmatici oltre che politici. Di natura globale, non solo italiana. Quello che coglie la contraddizione più potente e, per questo, viene tacitato. Perlomeno su gran parte della stampa.

    I movimenti per la giustizia climatica sono apparentemente benvoluti. Al di là del basso commercio politico di cui sono oggetti, disegnano diversamente l’orizzonte in cui il racconto sul lavoro culturale si inserisce.

    Non siamo più un orizzonte percepito come catastrofico. Esiste l’alternativa, questa non è l’unica realtà.

    Può essere la fine del mondo. Ma questi movimenti chiedono la fine di un certo mondo e la nascita di un altro.

    È un’intuizione profonda, potente. Questo orizzonte contrasta la triplice alleanza: confini, patriarcato, catastrofe climatica.

    Le istanze di classe, la giustizia climatica, la lotta contro il sessismo e le violenze contro le donne e i soggetti Lgbtqi, le lotte antirazziste si sono moltiplicate, mentre è ricorrente il problema del salario e del reddito.

    È possibile che ci sia un intreccio tra queste istanze e che un intreccio sia già alla base delle mobilitazioni.

    Il caso Gilet gialli

    Parliamo dei Gilet gialli in Francia di cui percepiamo solo le immagini degli scontri nelle strade di Parigi. A lungo andare è un limite per molti movimenti. Ma se, al momento, si va appena più a fondo si scopre che, pur ridotto dopo un anno, vediamo che questo movimento coinvolge persone che sono in una condizione simile, se non peggiore, dei lavoratori culturali.

    Salari da poco più di mille euro. Persone che perdono la casa, e vivono in strada, perché non possono pagare l’affitto. Giovani ragazze e ragazzi, persone di media età, o di età avanzata: sono artigiani, dipendenti di piccole imprese, operai, insegnanti, disoccupati. E ci sono anche “creativi” che vivono dentro e fuori dalle grandi città. Il mondo del ceto medio impoverito che si incontra con il lavoro autonomo proletarizzato e il precariato diffuso: questo è il tessuto sociale in cui un ceto squisitamente metropolitano come quello “culturale” potrebbe identificarsi.

    Non è volontarismo: è la stessa condizione dei molti che lavorano poco e male e degli altri che non lavorano e stanno peggio.

    È emersa in Francia l’intenzione della convergenza tra movimenti. Alcuni gruppi di gilet gialli hanno manifestato per la giustizia climatica e con le associazioni che lottano contro la violenza della polizia che colpisce cittadini francesi di seconda o terza generazione, oltre che immigrati di recente, nelle banlieues.

    Accade perché questi movimenti sono, a loro volta, l’esito di una confluenza tra istanze eterogenee accomunate dalla resistenza a una forma di vita alienata e nociva, in un ambiente costruito per avvelenare la vita, dentro rapporti di dominio ispirati alla violenza, al sessismo, al razzismo.

    È anche una questione di informazione

    Mi rendo conto che scrivo da un paese come l’Italia dove l’arretramento del dibattito culturale e politico è pauroso.

    Si pubblica molto, si legge poco. Le case editrici soffrono dei problemi del monopolio industriale sulla distribuzione, i libri arrivano raramente sugli scaffali. Gli autori come viandanti girano le città. Eroici.

    La comunicazione passa dalla Tv programmata sul discorso dominante: l’opposizione è Salvini, non Non Una di Meno. È possibile che molti elementi di questa realtà globale che ho abbozzato siano sfuggiti all’opinione pubblica, a cominciare dai lavoratori culturali che hanno più dimestichezza con le lingue.

    Viviamo in un dramma dell’informazione. Non ci permette di sapere, vedere e comprendere che un altro mondo è in formazione.

    Se parliamo del paese più vicino, la Francia, il più interessante in Europa da cinque anni, un vero laboratorio con tutte le sue contraddizioni. Non sappiamo quasi nulla. E questo anche se i giornali progressisti francesi, pur contestati, abbiano raccontato cosa veramente si muove in quel paese.

    E tuttavia mi sembra anche di potere dire che, pur in maniera neutralizzata o disonesta rispetto al più semplice racconto della realtà, persino una stampa come quella italiana abbia informato sull’esistenza di un rivolgimento.

    Ci vuole la forza

    Non è escluso che le reti sociali che si gonfiano e si sgonfiano come le maree si siano incrociate con la difesa della proprietà a cominciare da quella dei pochi averi accumulati in una vita di lavoro. Quest’ultima istanza è legittima ma può portare, se radicalizzata, a posizioni opposte a quelle antirazziste, ecologiste o femministe.

    Sovranismi, razzismi, populismi a difesa della proprietà. La proprietà è l’identità. C’è chi dice “prima gli italiani”. Significa: prima i proprietari. Chi, tra i bianchi, non è proprietario, è fottuto. Figuriamoci gli altri.

    Il desiderio della classe è l’opposto: una parzialità che indica una soluzione comune.

    Nasceranno conflitti duri, ma non facciamoci impressionare: se, di base, la condizione sociale è generale, al suo interno si danno contraddizioni anche violente tra convinzioni politiche opposte.

    Condizioni diverse, anche contrapposte, hanno lo stesso problema: il reddito. Drammatica è l’assenza di tutele e garanzie. Chi non guadagna abbastanza, non ha il lavoro, e se ce l’ha non sa se lo avrà domani, che cosa chiede immediatamente?

    Reddito, casa, sicurezza sociale, accesso. Distribuzione delle ricchezze. Un altro modo di produrre. Una società giusta. Una democrazia partecipativa e di base. Una riforma costituzionale: richiesta ricorrente in Francia, in Cile e altrove

    Ci vuole la forza politica. Quella forza non c’è. Né, probabilmente, il modo per organizzarla. Ancora. Ed è soggetta a una crisi politica, istituzionale ed economica di difficile soluzione.

    Ma è già una forza riconoscere il fatto che, in ogni caso, siamo davanti a un problema di classe.

    È già politica. Il fatto che la classe sia mancante – e non che manchi – significa che c’è una ricerca.

    Non sappiamo dove può portare, non sono esclusi esiti drammatici. E nuovi fallimenti.

    Cosa può una classe

    Classe è la critica dello sfruttamento del lavoro non più anteposta a quello di genere, sessuale o della natura come accade spesso nei discorsi sulla precarietà. Definire il lavoro alla luce dei rapporti sessuali e razzializzati, interpretare il sessismo e il razzismo come espressioni della violenza sociale dello stesso potere significa rompere le gerarchie esistenti e coniugare i conflitti in una “classe” oggetto di molteplici oppressioni e soggetto plurale di possibili resistenze.

    Considerare queste dimensioni in un comune orizzonte politico significa prospettare un “divenire co-rivoluzionario” tra soggetti differenti. Il loro intreccio nella stessa condizione dimostra come la politica può estendersi dalla contestazione della proprietà privata dei mezzi di produzione ai rapporti biopolitici di potere e alla lotta contro lo sfruttamento del vivente.

    Dove tutto è precario, c’è una base comune. Una piattaforma. Ci siamo seduti sopra, anche se ancora non la vediamo.

    Rischiariamo lo sguardo.

    Note