Metodi per collaborare in una società atomizzata, in conversazione con Ennio Ripamonti

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    Le politiche degli ultimi anni si sono sempre più indirizzate verso uno sguardo collaborativo dell’azione sociale anche se non sempre questo movimento ha avuto la forza di diffondersi e imporsi nella pratica. Tuttavia con l’avvento del Coronavirus e il diffondersi della pandemia è risultata ancora più evidente la necessità di attivare politiche collaborative e partecipative in grado di rigenerare relazioni e rendersi utili ad uno sviluppo sociale e culturale in attiva connessione con le dinamiche della società. In questa prospettiva ho incontrato e intervistato Ennio Ripamonti, psicosociologo e formatore che da oltre vent’anni si occupa di sviluppo di comunità. Presidente di Metodi e docente a Milano presso l’Università Bicocca l’università Cattolica.

    Ripamonti ha da poco curato insieme a Davide Boniforti il volume Metodi collaborativi (edito da Animazione Sociale), un testo oggi fondamentale per meglio comprendere gli strumenti necessari per un lavoro sociale di comunità.

    Professore, di quali rischi corrono le comunità oggi durante la pandemia?

    Da sempre le epidemie esercitano sulle società colpite una forte pressione che porta alla luce le strutture nascoste, rivelando quali sono le priorità e i valori presenti in un dato contesto. Negli ultimi trent’anni sono emersi due fenomeni apparentemente contraddittori: maggiore individualismo e una crescente domanda di legami sociali. Pochi fenomeni nella storia umana hanno modificato la società e la cultura come le pandemie. Il rischio più forte è quello di un inasprimento dei processi di isolamento e competizione sociale, una sorta di “si salvi chi può” generalizzato che finirebbe per penalizzare le fasce più deboli delle nostre comunità. Di contro sono molti i segnali che indicano un aumento della solidarietà, della pro-socialità e dell’altruismo.

    Di quali strumenti deve dotarsi il welfare per impedire l’avvallo di forme di isolamento sociale?

    Una recente indagine promossa dal Comitato Testamento Solidale mostra, ad esempio, un consistente aumento delle donazioni e della sensibilità verso il bene comune. Il Welfare contemporaneo costituisce non solo un fondamentale sistema di protezione sociale in una fase storica in cui crescono disuguaglianza, povertà e malessere ma anche un formidabile dispositivo culturale di rigenerazione della democrazia, dei diritti e dell’inclusione. In una società sempre più atomizzata in cui domina la figura sociale dell’individuo isolato il welfare è chiamato a tessere legami sociali e non solo a erogare prestazioni.

    Come si definiscono i metodi collaborativi rispetto ad una comunità?
    Rispondo a questa domanda con una breve digressione etimologica. A volte rintracciare il significato più profondo delle parole può essere di aiuto. Il termine «metodo» deriva dalla combinazione di due parole greche: «mèta» e che indica un “superamento” e «hodós» che significa “cammino”. Parliamo di metodi come un percorso di ricerca, nella doppia valenza di una “via” da percorrere e di un certo “modo” di percorrerla. Possiamo quindi dire che i metodi collaborativi in campo sociale si presentano sia come modelli «processuali» che come dispositivi «procedurali».

    “Un fenomeno complesso come la costruzione dello sviluppo di legami sociali comunitari non può certo essere ridotto ad una procedura da applicare.”

    Quale principio li guida?

    Un fenomeno complesso come la costruzione dello sviluppo di legami sociali comunitari non può certo essere ridotto ad una procedura da applicare. Pur delineando un’ipotesi di lavoro i metodi collaborativi si affidando all’intuito e alla saggezza del soggetto che li propone, alla sua capacità di contestualizzarli e adattarli sulla base delle circostanze, dei vincoli, dei limiti e delle opportunità offerte dalla situazione concreta (quel territorio, quel problema, quegli attori). I metodi collaborativi non vanno visti come modelli da applicare alla realtà, ma modalità per approcciarla. Volendo essere ancora più radicali possiamo dire che la collaborazione sociale non è generata dai metodi ma, se va bene, catalizzata da essi. Se dovessi indicare un principio guida potrei dire che i metodi collaborativi si qualificano per la loro natura essenzialmente euristica, di tutt’altro stampo rispetto alla ripetitività della procedura, sempre uguale a sé stessa

    Perché è fondamentale attivare e sostenere l’intelligenza collettiva?

    Per una ragione fondamentale: perché la complessità dei temi con cui ci misuriamo è tale che una sola intelligenza non basta. L’approccio individualista alle questioni sociali, anche nella sua versione più vitale fatta di entusiasmo e abnegazione, si mostra sempre più inadeguato ad affrontare i problemi contemporanei. Ci riferiamo a un fenomeno riscontrabile sia sul piano personale (l’azione isolata del singolo operatore) sia sul piano organizzativo (l’azione isolata e scollegata di molti attori sociali).

    È importante tenere conto che, nella sua formulazione originaria, il concetto di «intelligenza collettiva» si riferiva alle dinamiche d’interazione cognitiva e ideativa rese possibili nella fase sorgiva del cyberspazio di Internet. Il filosofo francese Pierre Lévy ha proposto un assioma tanto semplice quanto potente per descriverne la natura: “nessuno sa tutto, ognuno sa qualcosa”. Anche la collaborazione sociale stessa fonda la sua ragion d’essere su questo assioma, sia sul piano etico che su quello metodologico. Da questo punto di vista l’intelligenza collettiva è una “struttura che connette” «saperi» dispersi ovunque (anche dove meno te l’aspetti), riuscendo a scovarli, catalizzarli, valorizzarli e finalizzarli.

    Metodi collaborativi e politiche partecipative, come dialogano?

    Si tratta di un dialogo che si articola in modo differente a seconda della natura e della forma dei processi partecipativi. Quando l’iniziativa deriva principalmente da un’azione istituzionale (top-down) i metodi collaborativi si configurano come dispositivi tecnico-metodologici in grado di “dare le gambe” a politiche innovative e di coinvolgimento. Condividendo valori, principi e obiettivi delle politiche messe in campo i metodi cercano le forme e i modi più idonei per svilupparle.

    Quando l’iniziativa scaturisce da un soggetto non istituzionale (bottom-up), i metodi collaborativi contribuiscono a costruire processi in cerca di legittimazione. È il caso in cui dall’autopromozione (di un gruppo, di un movimento, di un comitato) si arriva a produrre una “massa critica” (culturale, ideale, organizzativa) in grado da sollecitare politiche partecipative.

    In entrambe i casi i metodi funzionano come degli enzimi, cioè a dei catalizzatori che aiutano ad accelerare i processi sociali (comunicazione, ascolto, confronto, ideazione e altri ancora). Così come in biochimica gli enzimi possono aumentare la velocità di reazione anche di dieci volte, in campo sociale buoni metodi possono sviluppare l’«efficacia situazionale» di una determinata politica partecipativa oppure l’«influenza sociale» di iniziative.

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    All’interno del contesto europeo chi al momento sta cogliendo al meglio le opportunità di un’azione collaborativa?

    Personalmente trovo molto interessante l’esperienza portoghese in cui la collaborazione è stata messa al centro non solo delle politiche sociali ma dell’intero sistema di governo del paese. Basti pensare che lo scorso mese di aprile, in pieno lockdown, il leader dell’opposizione ha fatto un discorso in Parlamento ripreso da molte televisioni internazionali per la sua originalità. Un approccio che si smarca in maniera netta dalle derive polemiche a cui siamo abituati da anni e che, senza rinunciare alla lotta politica, parla apertamente di collaborazione, unità, solidarietà, senso di responsabilità.

    Richiamo letteralmente le frasi conclusive del discorso che, fra le altre cose, è stato più volte ripreso e rilanciato anche dal Presidente Mattarella: “signor primo ministro, conti sul nostro aiuto. Le auguriamo coraggio, nervi d’acciaio e buona fortuna perché la sua fortuna è la nostra fortuna”. Nel panorama italiano ritroviamo questa cultura molto di più nelle politiche locali che in quelle nazionali: la città mi sembra essere il luogo dove la collaborazione da il meglio di sé.

    La collaborazione è insita nelle relazioni umane?

    Dire che la collaborazione è “insita” nelle relazioni umane non è per nulla scontato. Abbiamo dietro le spalle una stagione culturale in cui la visione neo-liberista di un individuo completamente assorbito da interesse economico, competizione, utilitarismo e affermazione di sé ha letteralmente dominato la scena pubblica e l’immaginario collettivo. Solo il ripetersi di grandi crisi (economica, ecologica, sanitaria) ha cominciato a incrinare questo quadro.

    Negli ultimi dieci anni molta ricerca scientifica si è concentrata sui processi collaborativi: dalla psicologia all’antropologia, dalla sociologia all’economia sociale, dalle neuroscienze alla pedagogia. Oggi sappiamo che nel corso dell’evoluzione gli esseri umani hanno sviluppato comportamenti altamente complessi che includono, oltre all’egoismo e all’avarizia, anche una propensione innata all’altruismo e all’equità. Visti in chiave evoluzionistica si tratta di comportamenti che, diversamente da come pensavano molti economisti classici, hanno una grande utilità, rendendo possibile la nostra stessa sopravvivenza.

    Come è possibile sostenere la collaborazione evitando eccessivi schematismi?

    Richiamando una bella immagine dello psicologo sociale Jonathan Haidt possiamo dire che gli esseri umani sono le giraffe dell’altruismo. Come le giraffe hanno sviluppato il collo per sopravvivere, così la nostra specie ha sviluppato il senso morale per vincere nella competizione, a livello individuale e di gruppo, dando vita a comunità morali condividendo regole, abitudini, emozioni e divinità. La storia mostra che siamo in grado di cooperare ad un livello straordinario, di impegnarci in attività di gruppo complesse e coordinate con persone non legate da vincoli di parentela, addirittura con perfetti sconosciuti.

    L’antropologo Curtis Marean ha definito questa inclinazione umana alla collaborazione iperprosocialità, e ritiene non sia una tendenza acquisita ma un tratto geneticamente codificato peculiare di Homo sapiens. Questo tipo di iperprosocialità geneticamente codificata si può diffondere, paradossalmente, anche in presenza di gruppi in conflitto. Detto questo non significa che la strada della collaborazione sia facile, né tantomeno automatica. Però è una strada che siamo altamente attrezzati a percorrere.

    Note