La riflessione teorica e l’analisi empirica sui partiti politici sono consolidate, dense e prolifiche. Soprattutto negli ultimi tre decenni la mole di informazioni, database, confronti e pubblicazioni è cresciuta in modo esponenziale, tanto da consentire una ricchezza di conoscenze, comparate e di singoli casi, non paragonabile al recente passato.
Il risultato è in magna pars ascrivibile al lavoro di sociologi e scienziati politici che prevalentemente in Europa e negli USA, ma non solo, hanno dedicato energie ed intelligenze alla ricerca sul partito politico. Esemplare il caso della prestigiosa rivista Party Politics che raccoglie il meglio del settore con pubblicazioni e ricerche di altissimo livello, al pari di collane editoriali che coprono il tema con comparazioni e/o volumi teorici.
Per certi versi paradossalmente, ma in realtà come naturale attendersi nella ricerca scientifica, tale ingente mole di investimento intellettuale, di ricerca e di pubblicazioni, non è ancora addivenuto a spiegare e a definire definitivamente “cosa” sia un partito politico. Per molte, buone, ragioni. Perché l’oggetto di studio cambia nello spazio e nel tempo, perché la società muta essa stessa, perché cambiano i sistemi istituzionali, elettorali ed il contesto storico-politico.
Il libro I partiti digitali (di Paolo Gerbaudo, Il Mulino 2020), nonostante la sede editoriale e le ambizioni palesate dall’Autore non contribuisce a chiarire cosa sia il partito politico, ma cade nella trappola della iper-classificazione. Si tratta di un legittimo tentativo di generare una nuova, ma probabilmente non necessaria, casella entro cui includere un caso, che nelle stesse parole dell’A. è passibile di rapido declino.
Per quanto il titolo risulti accattivante e il concetto esso stesso stimoli un valido interrogativo circa i cambiamenti tecnologici, e per molti versi sociali e politici, derivanti dal Capitalismo della sorveglianza (Shoshana Zubof, Luiss 2019), il volume non aggiunge – come invece pretende – conoscenza su un presunto nuovo tipo di partito né, tantomeno, una nuova interpretazione del partito politico e di cosa questo rappresenti in termini teorici ed empirici.
Il volume sbanda sin dalle prime pagine, dalle finalità enunciate: «l’obiettivo non è costruire un idealtipo perfetto che tenga conto al 100% della realtà empirica dei vari esempi considerati» (p. 15). In realtà, posto che l’Autore sottolinea, senza che fosse necessario vista la sede che lo ospita, che trattasi di un «libro di profilo accademico» (p. 15), le aspettative generate nel lettore andavano proprio in direzione opposta. Ossia, di leggere le caratteristiche proprie di un nuovo partito e di una nuova classificazione e definizione dell’oggetto studiato.
Forse per ragioni editoriali e di spazio, il testo oscilla tra l’ambizione di fornire informazioni teoriche su un nuovo tipo di partito, quelle di riportare una ricognizione critica dello stato dell’arte ovvero di analizzare il Movimento 5 stelle e Podemos, con incursioni nella rete dei “partiti pirata”. Il tutto risulta poco chiaro e per nulla sistematico.
La parte empirica è quella più interessante e avrebbe meritato maggiore spazio, persino l’intero volume, e profondità analitica con una comparazione serrata, dettagliata e finalizzata a una risposta su similitudini e differenze tra due partiti rilevanti in Spagna e in Italia. Le troppe concessioni al momento descrittivo, senza organizzare i molti e interessanti dati recuperati dalle interviste, non consentono di generalizzare, di apprendere nuove conoscenze e di inferire circa la comparazione.
Posto che la definizione di partito digitale non copre l’intera gamma di partiti politici, non è tassonomica, non riesce a viaggiare “nello spazio e nel tempo”, come avrebbe detto Giovanni Sartori, non rimane che ritornare alla definizione dello stesso Sartori ché risulta parsimoniosa e in grado di contenere tutti i sub-tipi di partito. Se, dunque, partito politico altro non è che «qualsiasi gruppo politico identificato da una etichetta ufficiale che si presenta alle elezioni, ed è capace di collocare tramite le elezioni (libere o no) candidati alle cariche pubbliche» (Sartori 1976, 63), ne deriva che l’attenzione al partito digitale in quanto nuovo typus appare sovradimensionata. Mentre sono degni di nota gli spunti di possibili approfondimenti empirici che provengono dalla disamina dei due casi che l’A. propone.
Inoltre, l’Autore non chiarisce se sia stato il partito digitale, tramite imprenditori politici avveduti, a politicizzare quello che lui definisce un nuovo cleavage (digitale, appunto) (p. 63), ovvero se la frattura sociale e politica sia stata essa stessa generata da un nuovo tipo di partito (su questa prospettiva si veda Building Blocs: How Parties Organize Society, Stanford 2015). Al contrario, la troppo ricorrente dicotomia posta nel testo dall’A. è tra il (nuovo) partito “digitale” è il modello del partito di massa.
Quest’approccio, non inconsueto nelle scienze sociali e politiche, rimanda a un tratto evoluzionista, normativo e positivista dei mutamenti organizzativi, ideologici e di leadership che investono – da secoli – i partiti politici. Non a caso nel testo si fa spesso riferimento a “evoluzione” del partito dal modello di (ideologico/di integrazione) massa fino al partito piglia-tutti (che probabilmente per una cattiva traduzione viene riportato con “pigliatutto”, mentre catch-all fa riferimento ad “elettori”).
Del resto, questa parzialità interpretativa risuona anche in analoghe definizioni di partito (cartel-party, stratarchical party) che non riescono a coprire l’intero insieme di casi. L’Autore, ad esempio, indulge troppo nel cosiddetto modello di partito televisivo, che davvero appare una forzatura concettuale ed è semmai utile a descrivere taluni aspetti, a volte enfatizzati e impressionistici, di singoli case studies. Approcci che rimandano a una visione euro-centrica e/o anglofono-centrica, comunque “autocentrata” sul Western e che poco o punto riesce a dire sull’America-Latina, sull’Africa o l’Asia. E invece, come direbbe Jean Blondel, abbiamo bisogno di “comparazioni mondiali” e, dunque, per farlo servono strumenti analitici, empirici e teorici in grado di investigare la complessità, comparandola.
Il partito digitale appare un concetto utile per analizzare alcune dinamiche organizzative presenti in taluni Paesi e in alcuni casi
Su questo, presumo per ragioni di spazio, l’A. risulta essere tranchant, un po’ rapido e ingeneroso nel liquidare la ricerca politologica quasi fosse assente sugli studi del partito dal 1920 in poi. Sebbene con varie difficoltà esistono però ricchi filoni di ricerca da M. Duverger, a H. Daalder, L. Epstein, G. Galli, S. Neuman, P. Norris, A. Pizzorno, O. Kirchheimer, E. Schattschneider, fino ovviamente a Sartori e P. Mair, ovvero ai lavori di G. Poggi et al. condotti per l’Istituto Carlo Cattaneo su forte stimolo di finanziatori americani, che diedero vita a densissimi e voluminosi testi sull’organizzazione partitica in Italia, ma con gittata teorica espandibile oltralpe.
Non convince inoltre la dicotomia nuovo/partito di massa, un modello che ha assunto i tratti di “mito” e mitologia fondativa, sebbene esso non sia apparso nello stesso tempo, con le stesse caratteristiche in vari contesti (si pensi all’America Latina, all’Africa o all’est Europa: sul punto si rimanda a I. van Biezen) ovvero non sia comparso per nulla. Proprio perché il partito di massa, come avrebbe detto Hans Daalder, era figlio della “società industriale” esso ha avuto alterne, e tutto sommato limitate e circoscritte, vicende e vicissitudini.
L’A. riassume la dicotomia tra “vecchio e nuovo” rinviando alla opposizione tra partito digitale-Web vs. partito di massa-industria. Se appare centrata sul piano organizzativo, questa analogia tiene molto meno sul versante elettorale posto che la classe di riferimento dell’industria Web e degli elettori Web non è così tetragona come per i partiti di integrazione di massa.
Il partito digitale, dunque, appare un concetto utile per analizzare alcune dinamiche organizzative presenti in taluni Paesi e in alcuni casi. Inoltre, si evince anche l’impossibilità per l’A. di stabilire se la dinamica “Web” investa la leadership, l’organizzazione ovvero la membership o solo gli elettori. In questo ultimo caso, e per il Movimento 5 stelle, molte rilevazioni e pubblicazioni (su tutte i volumi ITANES) sono coerenti nel riportare la TV quale primo (by far) strumento di raccolta e formazione delle informazioni politiche. Per cui anche l’immagine di un partito piegato alle logiche della “piattaforma” pare eccessiva se, come vero, in Italia il livello di alfabetizzazione digitale, e non solo, è assai lieve, per usare un eufemismo. Ne deriva che la distinzione andrebbe fatta tra statu nascenti, e istituzionalizzazione del partito e quindi all’intervento di vari attori con altrettanti livelli differenziati di conoscenze e risorse cognitive, per rimanere a Sidney Verba.
Sul piano organizzativo la caratteristica, presunta, del partito digitale sarebbe la predominanza del leader. Rimane pertanto da spiegare come varino le diverse prestazioni elettorali al mutare dell’intensiva del coinvolgimento del capo politico e partitico. Come tale il concetto di carisma sembra essere (capitolo 8) una caratteristica intrinseca del partito digitale, mentre basterebbe richiamare il partito carismatico (Panebianco 1982) e la strutturazione del potere interno alle organizzazioni anche richiamando interpretazioni quali quella di M. Weber e anche M.R. Lepsius. E anche sul versante elettorale il c.d. partito digitale non sarebbe diverso dal partito catch-all, essendo sempre più indistinto e indistinguibile dal resto delle formazioni con scarso bagaglio ideologico. Sebbene il passaggio da single-issue party a partito generalista (p. 16) lasci ambiguità circa la specificità del partito digitale. Che, come nel caso di Podemos (p. 17), incorpora anche elementi «vari organi tipici dei partiti di massa» senza che questo sollevi problemi di classificazione e mutua esclusività.
La problematizzazione del rapporto tra organizzazione e democrazia, e dunque tra partito e democrazia, risulta di grande interesse
La parte del volume in cui l’A. si concentra sul tema “partito” è molto stimolante, rappresenta il cuore del testo, insieme ovviamente all’analisi del “popolo del Web” e della comunicazione politica (capp. 2 e 3). La problematizzazione del rapporto tra organizzazione e democrazia, e dunque tra partito e democrazia, risulta di grande interesse non solo per i richiami ad Antonio Gramsci, ma per le conseguenze strutturali che comporta la sostituzione del “terzo livello”, della professionalità partitica, con la “piattaforma digitale”, soprattutto in termini di “partecipazione” ed effettiva incisività sul processo decisionale (pp. 52-57). Su questa tensione intellettuale, o forse inscindibile ossimoro, recentemente si è espresso Piero Ignazi (Party and Democracy, Oxford, 2017) che ha magistralmente delineato la lunga storia del partito, sempre in cerca di legittimazione, e forza. O ancora le critiche alla Rete avanzate da Evgeny Morozov.
Anche alcune “caratteristiche” dei partiti digitali, quale selezione attraverso il “sorteggio”, come emblematica rappresentazione della circolarità, della “democrazia diretta” (uno vale uno del Movimento 5 stelle), risale in realtà all’antica Grecia come ricostruito splendidamente da Bernard Manin (Oxford, 1995).
Se muta il contesto muta anche il partito e perciò non avremmo più il partito digitale. «Se vogliono evitare di cadere in questa trappola (isolamento dei partecipanti, n.d.A.) i partiti digitali devono recuperare luoghi fisici di confronto e azione» (p. 144). Ma questa prospettiva contrasterebbe con una delle caratteristiche fondanti dello stesso partito digitale, ossia l’assenza del livello fisico dell’organizzazione.
L’A. non misura aspetti del partito digitale, non indica una definizione parsimoniosa che copra tutti i casi, e non spiega perché vari esempi funzionino in maniera differenziata. La suggestione di essere circondati da un nuovo partito rimane, ma le prove empiriche sono di là da venire.