Infrastrutture di relazione: l’ostinazione di costruire ponti

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    Se avesse senso un po’ di ironia in una triste vicenda, si potrebbe dire che questo è un tempo in cui “i ponti non se la passano bene”. Prima delle drammatiche vicende di Genova, nel discorso pubblico si faceva spesso riferimento ai “ponti”. Una metafora che segnalava una idea di società accogliente, aperta, dialogante, rispettosa delle diversità, quasi una società in grado di assicurare la felicità di tutti. Poi il crollo del ponte di Morandi ha cambiato il senso, il valore, il significato del termine. Ciò che si considerava una metafora utile per indicare la qualità delle relazioni umane, all’improvviso, nella realtà, ha preso le sembianze della morte, della distruzione materiale e anche immateriale.

    Ma la “crisi del ponte”, i suoi scricchiolii erano già stati segnalati nel tempo che ha preceduto il crollo di Genova. Gli attentati terroristici con decine di morti innocenti hanno messo in crisi un’idea di società aperta, multirazziale ed hanno evidenziato il limite delle politiche pubbliche sull’integrazione, sull’esercizio dei diritti di cittadinanza, in paesi spesso segnalati come un buon esempio di politiche di inclusione.

    I “ponti” aperti fra cittadini residenti e migranti non sono parsi solidi fino al punto da fare da argine all’odio terroristico. In Italia la “crisi del ponte” è apparsa più evidente nel momento in cui si sono manifestati i primi conflitti ai margini delle città e persino nei piccoli centri. La lotta per l’assegnazione delle case popolari fra cittadini italiani ed emigrati con cittadinanza italiana in alcune periferie di grandi città, le rivolte contro la presenza sulle strade di donne immigrate dedite alla prostituzione, la diffusione di azioni malavitose e di spaccio di droghe ad opera di gang di immigrati, qualche caso delittuoso ad opera di qualche immigrato con relativa vendetta, alcune iniziative sgangherate ad opera di amministratori locali di piccoli e medi centri che hanno emanato direttive pensando di poter limitare la libera circolazione di immigrati nelle vie urbane, sono stati alcuni dei primi segnali di “scricchiolii”, enfatizzati dalla stampa, dai media e dai social che hanno assunto una funzione decisiva fino al punto di costruire ad arte false notizie.

    Se poi volgiamo lo sguardo verso le politiche adottate per contenere o controllare gli sbarchi in Sicilia, il quadro si fa ancora più chiaro. Siamo passati da una fase in cui sembrava prevalere una politica di accoglienza, nel disinteresse sostanziale dell’Europa, sostenuta dalla generosità delle popolazioni locali, con uno slancio emotivo di fronte alle migliaia di persone morte nel Mediterraneo, ad una fase in cui si è introdotto un tentativo di controllo degli sbarchi fino ad arrivare al caso della nave Diciotti e alla messa in mora delle ONG, considerate alleati degli “scafisti” e mercenari del mare.

    Insomma chi fino a qualche tempo fa veniva ammirato, lodato, ringraziato per essere “costruttore di ponti”, nel giro di poco tempo è stato additato come un nemico del nostro Paese, un alleato di presunte forze straniere interessate a “islamizzare” l’Italia, “servo sciocco” di chi pensava di governare con il consenso elettorale dei migranti. I fenomeni di vero e proprio razzismo registrati in molte parti d’Italia sono stati la più logica delle conseguenze di un clima profondamente e sostanzialmente mutato. E come se non bastasse, “il movimento avverso ai ponti” ha allargato la sua base e ora viaggia su un’onda di consenso crescente. A questo punto si dovrebbe fare una analisi puntuale delle ragioni che ci hanno portato fin qui, dovrebbero essere individuati i “colpevoli”, “chi ha sbagliato e quando”, citare ovviamente il deficit di politica dell’Europa e così via. Si è detto e scritto tanto in proposito e ciascuno può fare riferimento a chi è parso più convincente. Non mi attarderò su questo versante.

    Proverò a fare qualche riflessione sulle ragioni che ci inducono a considerare necessario preservare una ostinazione nel “costruire ponti”. Questo è il tempo, si dice, dello “spaesamento”, del “presentismo”, di un nuovo individualismo, della crisi acuta del sistema di rappresentanza, della democrazia rappresentativa, di un diffuso sentimento di fragilità, vulnerabilità. Non ci sono quindi solo elementi di disagio materiale, povertà crescente, disoccupazione soprattutto giovanile. Ad essi si accompagnano sentimenti, stati d’animo che generano rinserramento, chiusura, nel tentativo di preservare qualcosa che si ritiene si possa perdere. Alla comunità si contrappone la tribù. La tribù rassicura e risponde al vuoto di relazioni. E la società prende una forma sempre più verticale. Ma l’identificazione verticale non corrisponde ad una rete umana, associativa, comunitaria. Piuttosto c’è l’io e un vertice che mi garantisce…

    A pagarne le conseguenze è la partecipazione pubblica, l’interesse per il bene comune, la ricerca di un futuro condiviso. Viene da chiedersi se l’idea stessa di comunità non sia considerata qualcosa di remoto, di altre età, frutto di nostalgia o utopia.Non so quando durerà questa fase. Probabilmente siamo di fronte ad una discontinuità che mette in discussione il continuiamo che ha contrassegnato, salvo brevi periodi, gli ultimi 60 anni della nostra Repubblica. In un simile scenario non possiamo aspettarci inversioni di tendenza nel breve. Bisogna lavorare sul medio-lungo periodo, sottraendoci alla cronaca, al presentismo imperante. Se c’è un granello di verità in questo ragionamento, lo spazio che possiamo presidiare e coltivare sta nel “micro”. Sembrerà una scelta riduttiva ma forse non lo è. Pensare che tutto si possa ricondurre ad uno scontro tra “civiltà” e “inciviltà”, come se in gioco ci fosse una disputa di carattere antropologico, non solo rafforza l’idea di un paese organizzato per tribù ma soprattutto rischia di collocarci su piedistalli più o meno fragili dai quali emettere giudizi generici e senza appello. Alla disillusione crescente possiamo contrapporre una ripresa dei processi di partecipazione.

    Riscoprire il valore delle relazioni, a partire dalla valorizzazione delle singole persone (Otto Scharmer). Se rabbia e spaesamento non trovano canali virtuosi attraverso cui i cittadini possono riscoprire il senso civico, le virtù civiche, vedersi riconosciuto un ruolo nel determinare le scelte fondamentali per la vita della propria comunità, allora continueranno a rinserrarsi. E siccome non si parte da zero si potrebbe cominciare a sviluppare le tante esperienze diffuse nel Paese per fare della democrazia partecipativa il terreno su cui “ricostruire ponti”. Il processo partecipativo ha bisogno di regole, di competenze, di trasparenza, di umiltà.

    È uno strumento che consente di superare la frammentazione, la segmentazione, gli interessi contrapposti che attraversano la società civile. Se ben condotto e perseguito nel tempo, selezionando i temi fondamentali per la vita dei cittadini, il processo di partecipazione può generare comunità attive, dinamiche, coese, inclusive e migliorare la qualità della democrazia. C’è una dimensione comunitaria da coltivare e far crescere, che non può essere solo un’eredità del passato da conservare, ma qualcosa da reinventare. E c’è un altro passaggio che dobbiamo attraversare. I “mondi vitali”, che pure abitano molte comunità, devono provare a inoltrarsi in mare aperto, uscire dal rischio dell’autoreferenzialità, provare a costruire ponti fra di loro, andando oltre la frammentazione, gli interessi particolari, la difesa del proprio orticello. Non basta una pur coraggiosa testimonianza.

    Serve che questi soggetti diventino sempre più proattivi, escano dal guscio, si facciano a loro volta, “costruttori di ponti”, lontano dalle logiche della competizione distruttiva. Coraggio, umiltà e generosità. Il rinserramento è una malattia contagiosa che non si ferma sull’uscio di una associazione, una cooperativa, una impresa sociale. Il rischio “tribù” è dietro l’angolo per tutti. Non si tratta di applicare formule, di generare modelli da esportare, non ci sono ricette buone per ogni situazione o bugiardini da consultare per trovare le modalità d’uso.

    Per “costruire ponti” bisogna mettersi in cammino e lungo la strada adottare la strategia dell’ascolto, raccogliere gli strumenti necessari, prepararsi alla sconfitta, alla delusione, consolidare ogni piccolo passo fatto in avanti e trovare capacità di resilienza nei momenti più difficili. La dimensione comunitaria è un sogno, un amore, un legame, un tessuto di reciprocità, un modello oppure un modo di vivere con gli altri. Non è semplice, non è facile e mi domando se siamo pronti, se abbiamo energie e forze sufficienti per navigare controcorrente. Confido che sia possibile. L’intellettuale ebreo Buber suggerisce: “Fare il possibile e desiderare l’impossibile”. Proprio come quelli che coltivano la terra. Questo è il tempo e dovremmo affrontarlo senza rinunciare ad un sorriso.


    Immagine di copertina: ph. Simone Hutsch da Unsplash

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