Ho frequentato per molto tempo gli spazi sociali occupati. Non lo dico per strizzare l’occhio agli attuali frequentatori, ma come dichiarazione di parte: un atto di onestà verso chi legge. Perché nelle prossime righe, per parlare di innovazione sociale e politiche pubbliche, userò la vicenda del BiosLab, uno spazio occupato all’interno di uno stabile di proprietà dell’INPS, in un quartiere storico della città di Padova, sgomberato lo scorso 18 agosto.
Per quanto pessima, mi sembra l’occasione giusta per fare alcune riflessioni sulla distanza che ancora divide le pratiche di innovazione sociale da un loro possibile dispiegamento diffuso. È una sorta di alert, un bagno di realtà che ci dice quanto il passaggio dal ghetto della sperimentazione a un più ampio ecosistema pubblico orientato all’innovazione, sia un percorso ancora faticoso e problematico.
Per affrontare il discorso mi sembra importante ricostruire una breve genealogia degli spazi sociali occupati e autogestiti, di cui fa parte anche BiosLab. Perché fuori da ogni visione stereotipata e ideologica, il patrimonio che consegnano alla letteratura e alla ricerca sull’innovazione sociale è tutt’altro che secondario.
Restituirne la complessità non è certo un’operazione semplice. Non è un caso che Claudio Calia, nel suo piccolo atlante storico geografico a fumetti, scelga di raccontare i centri sociali a partire dalle sue traiettorie personali. L’immagine che ne esce è interpretabile, caotica, densa di connessioni e legami con le grandi trasformazioni del nostro tempo.
Un universo frastagliato e continuamente in divenire, difficile da codificare se non a partire dall’esperienza soggettiva. Per trovare le prime tracce di occupazioni in Italia bisogna andare a ritroso fino alle pratiche di riappropriazione collettiva degli anni settanta.
A quelle temporanee di scuole e fabbriche che hanno accompagnato le lotte studentesche e operaie, sono seguite le prime sporadiche occupazioni di stabili abbandonati, soprattutto in risposta a bisogni abitativi. È tra la fine degli anni ottanta e la prima metà degli anni novanta che gli spazi occupati hanno iniziato a diversificare le loro attività. È in quel periodo che i centri sociali sono diventati una realtà diffusa e consolidata in tutta la penisola grazie alla sperimentazione di nuove forme di autogestione e auto-produzione di pratiche collettive. A questa fase rigogliosa degli spazi occupati va dato il merito di aver restituito a un’intera generazione la gioia dell’impegno politico, confinato per molto tempo ai margini del discorso pubblico dalla scia repressiva che aveva segnato gli anni precedenti.
Questa riscoperta di senso collettivo, coagulatasi intorno ai centri sociali e nutrita anche dal periodo fervido e frizzante dei movimenti studenteschi della “pantera”, si è caratterizzata per l’indiscutibile centralità della produzione culturale indipendente – non solo musicale – e per la nascita di nuovi soggetti politici, più eterogenei e spuri di quelli conosciuti in passato.
Con l’avvicinarsi del nuovo millennio e l’esplosione dei movimenti no-global, l’arcipelago degli spazi sociali occupati ha iniziato invece a popolarsi di esperienze che, nel rivitalizzare aree in disuso, tanto metropolitane quanto rurali, hanno dichiarato più esplicitamente la loro vocazione iperlocale, connessa alle grandi questioni globali, ma radicata profondamente nella dimensione territoriale (il quartiere, gli abitanti, le relazioni di prossimità).
Il panorama si è quindi arricchito di una varietà di luoghi polifonici, dall’identità fluida, attraversati da soggettività dall’appartenenza multipla e dinamica.
Questa generazione di spazi sociali si è posta diversamente il problema della sostenibilità, diversificando le sue forme: non solo eventi, ma gestione di progetti, accesso a contributi, avvio di esperienza imprenditoriali. Alla produzione culturale e di pensiero, quindi, si sono affiancati la co-gestione di servizi di welfare e una mescolanza eterogena di attività.
Gli spazi sociali, accessibili ormai durante tutto l’arco della giornata, sono diventati così atelier e librerie, co-working e ciclo-officine, mense e palestre e sono stati animati da sportelli di segretariato sociale, da corsi di lingua, da laboratori di ricerca, da sperimentazioni tecnologiche e da mercati di prodotti locali, fino a diventare incubatori di vere e proprie esperienze di imprenditoria sociale.
In tutta onestà va detto che, complici la scarsità di risorse, un’agenda talvolta eccessivamente precaria e un rapporto problematico tra dimensione identitaria e porosità relazionale, non tutte queste realtà hanno saputo uscire da una retorica meramente evocativa e tradurre le loro suggestioni in progetti veri e propri. Ma è interessante rilevare che queste esperienze, a onor del vero innescate anche in contesti non occupati (spazi in affitto, assegnazioni a canone concordato, concessioni gratuite, etc.), proprio perché attraversate da un’eccezionale densità relazionale e da una vitalità vissuta sul crinale di un bene comune costruito in maniera aperta e problematica, presentano alcune caratteristiche che possiamo riconoscere in uno dei dispositivi di maggior interesse nel dibattito attuale su innovazione sociale e dimensione di luogo: i cosiddetti community hub.
Mi pare quindi significativo sottolineare che lo sgombero del BiosLab – e questo è un primo aspetto rilevante se parliamo di contesto – è avvenuto proprio in un momento in cui cresce esponenzialmente l’interesse di fondazioni, agenzie e istituzioni di diverso livello verso i community hub, oggetto di bandi, erogazioni e programmi di capacity building. Si tratta di spazi la cui natura è stata efficacemente trattata anche dalle pagine di questo sito.
Dei community hub non esiste tuttavia una definizione univoca e neppure un unico modello, ma certamente se ne possono individuare alcuni tratti distintivi. Elisabetta Nava, nel documento Community hub, i luoghi puri impazziscono, li sintetizza come spazi ibridi, aperti e informali, capaci di accogliere impulsi differenti e di produrre valore sociale. Luoghi che assumono la rigenerazione urbana come occasione costitutiva del loro percorso, spazi di ricerca e azione verso nuove forme di socialità, che nascono da terreni fertili, da forti crisi o da istanze impellenti, grazie a una programmazione urbana innovativa.
L’interesse che suscitano, quindi, va ben oltre la connessione tra lo spazio che occupano e il singolo intervento per cui si caratterizzano, ma ha a che fare con la loro capacità connettiva. Abitano la dimensione di luogo senza limitarla al perimetro dello spazio fisico. Agiscono sempre in relazione ad altri, con cui ridefiniscono continuamente territorio e missione intorno alla soluzione di problemi e a traiettorie condivise, più che a categorie frammentate di bisogni. Questo loro carattere fluido ma denso di relazione, non può che renderli riottosi e per questo, luoghi privilegiati in cui sperimentare lo sconfinamento dei servizi di welfare, per mettere in gioco una nuova alleanza tra capacità tecnica e conoscenza diffusa, in cui gli “utenti” sono parte della soluzione, non il problema. Non è difficile, quindi, spiegare l’interesse che suscitano. I loro margini aperti e questa loro possibilità di essere nuovi centri di gravità per la produzione di servizi condivisi, li candidano al ruolo di vere e proprie infrastrutture di welfare e inclusione, fondate sul valore delle relazioni sociali.
Anche per questa attenzione crescente verso gli spazi di aggregazione e cooperazione orizzontale, lo sgombero del BiosLab, connesso a doppio filo con quartiere e università, impegnato nella costruzione di un archivio storico, in uno sportello per richiedenti asilo e rifugiati, sede di dibattiti e seminari sul rapporto tra diritto e società, interroga inevitabilmente il contesto e la sua capacità di abilitare e non disciplinare le pratiche innovative. Certo, sarebbe un errore ricondurre i community hub unicamente agli spazi sociali occupati, così come sarebbe riduttivo fare il contrario, anche se talvolta gli uni e gli altri si sovrappongono. Quello che mi preme sottolineare, invece, è la collocazione “fuori dal tempo” di questo sgombero, avvenuto mentre, nel discorso pubblico, un numero sempre maggiore di interlocutori riconosce la centralità delle “pratiche dal basso” per la trasformazione sostenibile, etica e inclusiva del nostro modo di vivere.
Questa considerazione ci porta a un secondo aspetto significativo su cui è bene soffermarsi. C’è infatti un’idea di partecipazione rappresentata come morbida e armoniosa, che rischia di creare un vero e proprio equivoco. Al contrario, quello tra pratiche sociali e dinamiche istituzionali si presenta più concretamente come un rapporto sempre carico di conflitti più o meno latenti, di cui l’occupazione di uno spazio è solo una delle forme più esplicite. Per questo, il modo di affrontarlo dice molto sulla capacità di rapportarsi all’innovazione sociale. Non sarà passato inosservato come uno dei cliché più utilizzati per liquidare velocemente il problema sia quello che antepone il ritornello della legalità a qualsiasi discussione sull’impatto sociale prodotto. Questa modalità nasconde in realtà una certa riluttanza ad affrontare il nodo del conflitto, riconoscendo dignità e autonomia alle pratiche sociali.
Queste, prima ancora di essere esercitate, dovrebbero invece essere ricondotte a procedure amministrative immutabili, in quanto già intrinsecamente democratiche e per questo, paradossalmente, non discutibili. Secondo questa logica, la possibilità di accedere a un luogo pubblico per dare concretezza a un progetto di interesse comune dovrebbe realizzarsi solo a posteriori, solo dopo aver attraversato il vaglio di un iter che ne verifica l’idoneità e l’opportunità (ammesso che ne sia previso uno). Come se la competenza a decidere sul bene della comunità fosse una capacità tecnica disgiunta dalla comunità stessa e vi potessero essere progetti trasformativi (ancorché itineranti) disconnessi dalla dimensione del luogo in cui si propongono di agire.
Da questo punto di vista, il fatto che il processo avviato dagli attivisti di BiosLab per regolarizzare la situazione dello stabile si sia arenato tacitamente, nonostante le disponibilità dichiarate da tutte le parti in causa, sembra una conferma più che un incidente di percorso (anche se la mappa su questo versante è piuttosto ricca di esempi).
In ogni caso, fuori da ogni logica autarchica o autocelebrativa, è bene tener presente che ogni pratica di innovazione sociale, per essere tale, deve misurarsi anche con la sua capacità di trasformare le regole del gioco, intaccando i processi amministrativi. Una volta sgombrato il campo da ogni mistificazione e dall’idea che si voglia affermare una sorta di primato degli spazi occupati su ogni forma di innovazione – che si innesca invece ovunque si riesca a guardare i problemi da prospettive diverse – è possibile, al contrario, identificare nel rapporto con gli spazi sociali occupati un indicatore piuttosto interessante per chiunque voglia confrontarsi con le pratiche sociali innovative.
Ecco perché la sfida più spigolosa, a mio avviso, chiama in causa proprio chi guarda con favore i processi di decentramento del potere verso i cittadini. Perché tanto quanto un’occupazione, anche la vitalità di un community hub, così come un processo di co-progettazione o un percorso per l’adozione di un regolamento per la gestione dei beni comuni (l’amministrazione di Padova ne ha avviato uno) sono campi di interazione problematici e conflittuali. A fare la differenza è il modo di affrontarli.
Perché un cambiamento non diventi solo un’occasione buona per riprodurre l’esistente e sappia farsi istituto comune, patrimonio pubblico e condiviso, serve la capacità di riconoscere che i conflitti non sono ingombri da evitare. La partecipazione e le pratiche di co-progettazione delle città non producono sintesi unitarie, ma moltiplicano le possibilità. Non appiattiscono le differenze, le fanno emergere. Non sono quindi strumentazioni buone per depotenziare i conflitti, ma anzi, modi per indagare gli interstizi in cui si annidano possibilità rivelatrici. Con questa prospettiva, i conflitti non vanno semplicemente ascoltati, ma vanno attraversati e portati a galla, perché sono proprio loro ad essere produttivi di nuove possibili soluzioni.
Ecco perché la qualità dei percorsi di innovazione e il loro impatto, non sono determinati da goffe liturgie partecipative o da improbabili simulacri della rappresentanza (che quando parliamo di spazi finiscono per tradursi in lottizzazioni riduttive invece che in proliferazioni moltiplicatrici). Ma dipendono da quanto è autentica la relazione che coinvolge gli attori in campo. Sono direttamente proporzionali alla capacità di assumersi i rischi di chi parte senza conoscere già la meta ed è disponibile ad affrontare un percorso pieno di intoppi, decidendo insieme, lungo la strada, la destinazione finale. Perché “per innovare, per essere creativi, bisogna stabilire condizioni di fiducia reciproca”. Ed è su questo terreno, pragmatico e ruvido, ma anche entusiasmante, che si misura la maturità delle politiche pubbliche.
Un ultimo punto di interesse mi porta a guardare il contesto cercando di ampliare lo sguardo. Troppo spesso, infatti, per misurare il valore di un’iniziativa, di un progetto, di un servizio (o di uno spazio occupato), si omette ciò che gli sta intorno, ma che inevitabilmente interagisce e ne condiziona impatto e destino. Non conosco l’esperienza del BiosLab tanto da saper mappare con precisione la quantità e la qualità delle sue connessioni.
Mi preme invece identificare un problema. Perché, al di là della questione specifica, ciò che sta intorno, il contesto generale di cui parla questa vicenda, è quello in cui qualsiasi sforzo di un’amministrazione locale per la ricognizione di spazi da mettere a disposizione della cittadinanza (è il caso di Padova), non può che impallidire di fronte alla dimensione del patrimonio oggetto di speculazioni, presente in misura maggiore nei gradi poli metropolitani, ma che interessa anche le aree interne. Quello dell’INPS, proprietario dei locali sgomberati e già messi all’asta dopo poche ore, si attesta su circa 30.000 unità immobiliari “da reddito”, al netto di due grandi operazioni di cartolarizzazione condotte negli ultimi vent’anni. Ma è solo una parte minima di un più ampio patrimonio immobiliare inutilizzato e messo a rendita da parte di fondazioni, banche e aziende partecipate, che si distende lungo tutta la penisola.
Non si tratta per niente di una questione irrilevante o retorica. Perché l’emergenza sanitaria che sta segnando il nostro tempo, sta anche ridefinendo un nuovo valore e una nuova dimensione dello spazio, diventato prezioso, distanziato, variabile e tutto da reinventare intorno a parametri fino a prima sconosciuti. E’ un’architettura che va liberata urgentemente, per essere riconvertita alla soluzione di problemi nuovi, intorno a prospettive (sanitarie e non) del tutto inedite.
La formazione, l’abitare, la ripresa economica, l’ambiente, hanno infatti bisogno di questo spazio sottratto per poter innescare il potenziale innovativo che serve a trasformarli. Pensiamo ad esempio all’impatto che la disponibilità di questo patrimonio potrebbe avere sul piano dell’abitare e dell’attivazione di nuovi programmi di social housing. Anche per questo lo sgombero di Padova racconta molto di più della vicenda di uno spazio occupato. Perché riaccentra un problema generale che riguarda tanto le amministrazioni locali quanto gli “innovatori”: non solo quello di dare risposte a domande inevase, ma quello di colmare la distanza che divide le pratiche di innovazione sociale da un ecosistema che sappia favorirle, che sappia farne cultura condivisa.
Non è certo un percorso privo di ostacoli. Ma, in fondo, parafrasando, quando parliamo di un possibile contesto abilitante dovremmo sapere che l’innovazione “non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza”. Dobbiamo invece imparare ad ampliare lo sguardo per uscire dal perimetro di ciò che è concesso e scommettere sul conflitto che genera, anche oltre l’iter già scritto.