Il Manifesto per riabitare l’Italia: dai nuovi centri culturali alle politiche di Fabrizio Barca

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    Sono passati ormai quasi trent’anni da quando veniva prodotto e messo in onda – in quello che era il terzo canale Rai diretto allora da Angelo Gugliemi – Strada provinciale delle anime, il bellissimo documentario di Gianni Celati: un viaggio sul delta del Po con l’amico e fotografo Luigi Ghirri.

    Celati e Ghirri sono stati tra i primi ad avvistare quella crisi territoriale che avrebbe portato poi sempre più l’Italia a perdere una propria identità o meglio ancora a rendersi incapace di riconoscersi. La provincia veniva abbandonata prima ancora che dai suoi abitanti dall’immaginario, sempre più velata e ridotta ad un’idea conforme quasi mai reale, ma più spesso sminuente.

    La provincia che era stata la nervatura dell’identità culturale del paese sia in letteratura che al cinema, veniva respinta ai margini del discorso proprio mentre le grandi città faticavano sempre più a tracciare una direzione, ad imporre una visione che invece si faceva sempre più autoreferenziale.

    L’Italia si identificava con le grandi città o almeno questa era la retorica figlia in buona parte della televisione e dei grandi mezzi d’informazione allora all’ultimo sussulto del secolo prima di un crollo che prosegue ancora oggi. Nel frattempo il paese si svuotava e si lacerava sotto i colpi della politica che esaltava Milano contro Roma e di una generale classe dirigente sia politica che economica ridotta alla subalternità dalla propria evidente inadeguatezza.

    La provincia diventava il luogo retorico della fabbrichetta e del bar di paese e nulla più. Non esisteva più la connessione virtuosa – pure evidente in un paese densamente popolato – fatta di scambi continui tra grandi centri e piccoli centri. Piano piano il nulla e poi il vuoto prendeva il sopravvento soprattutto in quelle zone poi definite come aree interne incapaci di partecipare ad una logica produttiva e culturale che veniva a definire confini e abitudini senza alcuna considerazione del preesistente, anzi negandolo e quindi azzerandolo.

    Oggi l’urgenza è sotto gli occhi di chiunque, buona parte del territorio è in stato di abbandono e le città sono incapaci di generare una visione se non quella falsamente risolutrice di improbabili città internazionali indipendenti e autonome dagli Stati. Se certamente in parte questa suggestione può risultare seducente all’atto pratico evidenzia nella migliore delle ipotesi tutta la sua ingenuità e una sostanziale incapacità di offrire reale cittadinanza ai suoi abitanti.

    Molto si è fatto per restituire al territorio la sua forma a partire dal lavoro del gruppo guidato da Fabrizio Barca sulle aree interne che molte azioni virtuose ha negli anni generato direttamente e indirettamente sia sul fronte delle politiche nazionali sia nelle opportunità di studio e di innovazione sociale.

    L’urgenza è sotto gli occhi di chiunque, buona parte del territorio è in stato di abbandono e le città sono incapaci di generare una visione

    Una delle conseguenze di quelle azioni sono sicuramente i Nuovi Centri Culturali a cui cheFare ha dedicato laGuida e che saranno al centro di molti nostri interventi e azioni future. Luoghi in cui immaginare nuove possibili interlocuzioni tra le specificità del territorio e le esigenze lavorative e culturali insieme. Luoghi di innovazione che sono ad oggi l’avanguardia di un movimento di recupero e reinterpretazione culturale e sociale che sta dando a molti opportunità inedite anche solo fino a pochi anni fa e che offrirà sicuramente i suoi migliori frutti nei prossimi anni.

    Tuttavia ora l’urgenza – anche per sostenere questi movimenti e queste politiche – sta nella possibilità non solo di recuperare i luoghi, ma anche riabitarli, o meglio di tornare a riabitare l’Italia attraverso una visione globale e al tempo stesso concreta del sistema paese.

    “La crisi di egemonia è lo specchio di una più generale criticità del modello di sviluppo lineare e progressivo di cui si era nutrito il Novecento. Cresce la forbice delle disuguaglianze, che si presentano sempre di più come asimmetrie di opportunità, e sempre più si legano alle disarticolazioni dei territori.”

    Questo è uno degli elementi critici che apre il Manifesto per riabitare l’Italia a cura di Domenico Cersosimo e Carmine Donzelli, un tentativo di proporre uno sguardo sull’intero paese oggi attraversato da continue frammentazioni che riducono di molto le qualità e le specificità dei territori e che riassumono la loro crisi nel declino demografico che ogni anno sembra sempre più accelerare la sua china.

    Il Manifesto per riabitare l’Italia prova così a raccogliere le esperienze positive degli ultimi anni e a rilanciare attraverso una sorta di cassetta degli attrezzi quanto è possibile organizzare e strutturare, ma anche come partecipare (parola guida insieme a riabitare) e incidere attraverso gli strumenti e gli spazi già a disposizione.

    “L’obiettivo è la conquista di strumenti, modalità, politiche per mettere in rete le Italie fragili, facendole interagire tra di loro e con il più generale contesto del paese. Si tratta di effettuare una lettura intelligente che fornisca ai soggetti collettivi, allo Stato, al pubblico confronto gli strumenti per valutare le opportunità del futuro e se possibile costruire una nuova visione. Si tratta di disegnare le mappe, di raccogliere i dati sul patrimonio esistente, sulle persone, sulle idee, sulle competenze e sulla forza aggregativa che possono diventare i presidi di un progetto di riconquista delle aree marginalizzate.”

    Andare in sostanza oltre al retorica anche positiva della ricucitura per restituire una forma di movimento tra i territori che diventi essa stessa elemento coesivo, di rigenerazione quasi implicita e naturale. Non più solo riscoperta per l’appunto, ma riabitare i luoghi diventandone parte e quindi elemento di sviluppo. La fragilità italiana è data in buona parte dalla separazione delle visioni, delle competenze, da una specializzazione più settaria che per settori, che come già avvertiva Giancarlo De Carlo alla fine degli anni Sessanta annulla ogni spazio critico e quindi ogni possibilità di confronto attivo e reale.

    Il volume oltre ad alcuni brillanti saggi a commento del Manifesto tra cui quello di Nadia Urbinati sul rapporto tra vita locale e territorio e quello di Gabriele Pasqui che legge le difficoltà e i limiti di una postura che viene da politiche pubbliche ancora inadeguate ad offrire gli strumenti necessari per intervenire e modificare lo sguardo d’insieme. Un vero e proprio panorama delle possibilità capace di andare oltre allo sconforto e in grado di offrire spunti e indicazioni utili.

    Un dizionario composto da parole chiave assegnate ognuna a diversi studiosi. Parole che partono con Abbandoni e arrivano fino a Terra: una modalità efficace e rapida per comprendere le ragioni di un cambiamento che non possiamo più a lungo tardare a compiere. Ne va della competitività del paese, questo lo sappiamo, ma ne va prima ancora della felicità e della possibilità dei suoi abitanti di partecipare e sentirsi pienamente attivi.

    Tra le voci più efficaci sicuramente Confini di Fabrizio Barca e Cura di Giuseppe Costa, due voci che stanno vicine sia perché l’una necessita dell’altra e anche perché se non messe in connessione determinano come è evidente politiche incapaci di ogni visione comune, ovvero di Comunità, voce non a caso affidata a Filippo Tantillo. E quindi correndo poi verso Cooperazione (Giovanni Teneggi) e si arriva facilmente a Disuguaglianze (Rosanna Nisticò) e via andando fino a Cambiamento climatico (Giovanni Carrosio) e oltre ancora.

    Si scopre così piano piano come questo dizionario si trasformi in una mappa sopra cui spostarsi grazie ai ponti che ogni voce produce verso l’altra. Nodi di una rete dentro la quale è impossibile fare a meno di una sola di queste voci. Un lavoro e una visione comune, un esempio e una modalità di lavoro culturale e sociale che incide all’atto pratico nella quotidianità e un tentativo al tempo stesso di proporre un avanzamento sociale che si prenda cura delle diversità e delle particolarità di un territorio che in caso contrario – e non solo in senso figurato – è destinato a franare e a svuotarsi sempre più.

    Scrive infine Fabrizio Barca nel suo intervento:

    “Sarà nella qualità di quelle visioni comuni di area che si manifesterà l’appropriatezza o meno dei confini che i territori proporranno: i confini dell’alleanza di più Comuni in un’area vasta, come è stato per i piccoli Comuni delle aree interne; i confini dell’alleanza fra due o più quartieri o di ex circoscrizioni (o anche di uno solo di essi), in una città media o grande, se, come ci auguriamo, una simile politica fosse applicata alle aree urbane. Una volta che lo Stato e le Regioni avranno riconosciuto quei confini, sarà questa nuova area, emersa endogenamente dal confronto fra società e istituzioni – non decisa da tecnici o amministratori lontani – a elaborare una strategia, individuare i progetti per conseguirla ed essere dotata della tecnostruttura e dei fondi per farlo.”

    Note