Con questo articolo di Andrea Libero Carbone lanciamo il 3° processo di scrittura collettiva del progetto Nube di parole.
Vogliamo riflettere insieme a voi sul significato del termine ‘community hub’, specialmente per quanto riguarda la produzione culturale.
I “community hub” o “creative hub” sono stati oggetto nel corso degli ultimi due anni di un intenso lavoro di mappatura, elaborazione di definizioni e sviluppo di reti relazionali, tanto a livello europeo con il progetto European Creative Hubs Network, quanto qui in Italia con il position paper e l’ampio studio tematico promossi da Kilowatt, Avanzi – Sostenibilità per Azioni, Dynamoscopio e SuMisura, nonché attraverso i numerosi contributi apparsi su queste pagine, ad esempio qui, qui, e qui.
Più volte richiamato nel dibattito, il tema della formazione è uno di quelli che ancora richiedono maggiore approfondimento. Le mappature europee e nazionali evidenziano infatti con chiarezza che le attività formative sono tra le più ricorrenti in questi luoghi ibridi. Si tratta di comprendere allora da quali bisogni nasca e a quali esigenze risponda l’offerta formativa dei community hub, e se e in che modo lo statuto e le condizioni caratteristiche dei luoghi apportino un contributo innovativo a quella che, allitterando, potremmo chiamare la forma della formazione.
In attesa della ricognizione di un territorio tuttora in pieno sviluppo, dovremo limitarci a formulare alcune ipotesi. Vorrei farlo a partire da una proposta di inquadramento generale: la formazione dei community hub segna le linee di forza secondo cui si dispiega la formazione offerta dai community hub. L’ipotesi cioè è che la formazione offerta dai community hub, erogata principalmente dai soggetti che vi sono confluiti sia caratterizzata, in atto o potenzialmente, dallo stesso processo di ibridazione avvenuto nella formazione di questi luoghi urbani. E che questo costituisca – o possa costituire – un tentativo di risposta a diversi elementi di crisi ai vari livelli del sistema formativo convenzionale.
Un aspetto meno frequentato da un dibattito che ha messo l’accento sugli aspetti legati alla rigenerazione urbana riguarda il fatto che, emergendo al volgere della stagione calda della riflessione sui beni comuni, i community hub vengono a collocarsi in un posto tutt’altro che vuoto, cioè quello di luoghi dalla forte carica simbolica come i teatri occupati, la costellazione dei coworking intesi come spazi di progettualità anche politica e, ancora prima, riguardo all’ambito specifico della formazione, le scuole e le università ripensate attraverso le esperienze di occupazione e autogestione susseguitesi con varie ondate a partire dagli anni Novanta. È dunque in questa storia dei luoghi che vanno iscritti, se si vuole comprendere il senso e la dimensione politica delle attività formative che vi si svolgono.
Per altro verso, sempre a guardare le cose da un punto di vista evolutivo, il panorama in cui si articolano le attività formative dei community hub appare, da un lato, quello delle bolle formative che in diversi settori del sistema scolastico e universitario sono esplose in questo decennio, a partire almeno dalla riforma del reclutamento degli insegnanti che ha introdotto il TFA. Dall’altro, quello delle nuove esigenze formative legate al fiorire di nuove figure professionali in ambito culturale e creativo. Sullo sfondo delle politiche ispirate prima al Lifelong Learning Programme 2007-2013 e ora al programma Erasmus+ 2014-2020, nel solo decennio 2006-16, ad esempio, il numero dei dottori di ricerca in Europa è aumentato di oltre un terzo (fonte Eurostat), rendendo soprassaturo un mercato del lavoro altamente qualificato già esausto. In Italia, gli ultimi esiti dell’autonomia universitaria hanno dato luogo a vincoli budgetari che, combinati con la monumentale inadeguatezza di investimenti nella ricerca (inferiori del 65% rispetto alla media UE, fonte ISTAT), rendono di fatto impossibile ogni accesso alla professione accademica per i non strutturati. Parallelamente, come dimostrano gli esiti dei più recenti mega-concorsi per l’immissione in ruolo degli insegnanti, ci sono aree del Paese, specie nel Mezzogiorno, dove in particolare per le discipline umanistiche la disponibilità di posti è pressoché nulla, a fronte di un rischio di dispersione scolastica che secondo l’ISTAT riguarda in media il 18% della popolazione interessata, con picchi del 22%.
Il rischio più consistente in questo quadro è che i programmi formativi dei community hub finiscano per essere captati dall’orizzonte di senso neoliberista e dunque senz’altro declinati secondo la retorica tossica che sminuisce e denigra la base umanistica della formazione, che non preparerebbe adeguatamente al mondo del lavoro. Non è difficile ad esempio intravedere in luoghi del genere l’ombra di un possibile social washing dell’alternanza scuola-lavoro.
L’alternativa possibile è che, proprio grazie ai processi di ibridazione che ne caratterizzano lo statuto e il funzionamento, i community hub possano invece realizzare anche nell’ambito della formazione un luogo di incontro tra formatori e ricercatori indipendenti che non hanno più accesso a carriere istituzionali da un lato e, dall’altro, operatori del settore culturale e creativo e soggetti del privato sociale che vedono nell’innovazione sociale attraverso la cultura il perno della loro attività, portando in un senso a un riavvicinamento delle produzioni accademiche al tessuto vivo dei problemi urgenti per la società e nell’altro alla disponibilità di accesso da parte dei practitioners dell’impresa culturale e creativa a strumenti teorici e metodologici più solidi e affilati. Per altro verso, sempre in questo senso, i community hub possono anche costituirsi come luoghi di inclusione sociale e lotta alla povertà educativa non procedendo in direzione della formazione professionale meno culturalmente ambiziosa, ma tutt’al contrario proprio perché possono apportare un contributo di attenzione per i modelli cooperativi e collaborativi, e per una dimensione relazionale ed emotiva olistica delle persone e delle comunità che nel sistema formativo istituzionale è mortificata dalla cultura imperante della competitività e della valutazione per l’efficacia. È questa la direzione in cui sembrano muoversi esperienze come Exmè, Foqus o l’Ortoalto delle Fonderie Ozanam e che cerchiamo di perseguire nel Campus di Cre.Zi. Plus.
Imagine di copertina: ph. Héctor J. Rivas da Unsplash