Il modello ideale per gestire la “transizione” italiana attuale, per predisporre un immaginario più coerente e funzionale di quello vigente, e soprattutto per fare in modo che le dimensioni dell’innovazione culturale, politica, sociale, economica finalmente si sostengano a vicenda rimane sempre e comunque quello delle sottoculture: qualcosa che il nostro Paese, non a caso, ha conosciuto a differenza di altri finora in forma unicamente embrionale e subliminale.
Questo vuol dire anche un “metodo” per produrre cultura e per gestire i processi in determinate direzioni. Cominciamo da Steve Albini.
Performance-based
Il produttore musicale di gruppi come The Breeders e Pixies – e leader di leggendarie band indipendenti come Big Black, successivamente Rapeman e successivamente Shellac – nel 1992, rispondendo all’offerta da parte dei Nirvana di produrre quello che era destinato a diventare il loro ultimo album, rispose con una lettera inviata via fax che è al tempo stesso un programma e un manifesto: “Penso davvero che la cosa migliore che possiate fare a questo punto sia esattamente quello di cui stavate parlando: realizzare un disco in pochi giorni, con una produzione di alta qualità ma ‘minimale’, e zero interferenze da parte dei papaveri della casa discografica. (…) Sono interessato esclusivamente nel lavorare a dischi che riflettono legittimamente la percezione che la band ha della propria musica ed esistenza. (…) Considero la band la cosa più importante, sia come entità creativa che genera personalità e stile, sia come entità sociale che esiste ventiquattr’ore al giorno. Non penso che il mio compito sia quello di dirvi che cosa fare o come suonare. Certo, mi fa piacere che le mie opinioni vengano ascoltate (se credo che il gruppo stia facendo progressi meravigliosi o gravi errori, considero dirglielo parte del mio lavoro), ma se la band decide di perseguire qualcosa cercherò di fare in modo che ciò avvenga.”
Già questi primi passaggi illuminano la filosofia minimale ed etica di Albini come produttore, filosofia da cui discende l’idea di interferire il minimo indispensabile con la registrazione intesa come resa fedele dell’identità di un gruppo musicale. Fu per questa estetica radicale e indipendente che i Nirvana lo scelsero, nel tentativo di evitare il suono ‘monodimensionale’ di Nevermind e di dare vita invece a un oggetto al tempo stesso più articolato e più immediato, naturale, viscerale: nel febbraio del 1993, nei Pachyderm Studios a Cannon Falls, Minnesota, le registrazioni si conclusero in sei giorni, mentre il missaggio richiese altri cinque giorni. Da lì cominciarono le estenuanti trattative e pressioni e battaglie con i discografici (il disco fu pubblicato infatti solo in settembre, parzialmente remixato) che portarono infine In Utero a essere definito in maniera abbastanza realistica come “un trionfo della volontà” (David Fricke).
La tecnica di Albini si basava e si basa principalmente sulla volontà di registrare il gruppo mentre suona live i brani (e non i vari membri separatamente, su più tracce che vengono riunite solo in seguito) e sulla capacità di catturare (attraverso l’utilizzo e il posizionamento di diversi tipi di microfoni: furono addirittura trenta nel caso della sola batteria di Dave Grohl) anche il riverbero sonoro nell’ambiente fisico, la qualità e la temperatura dello spazio in cui la musica eseguita si propaga. Il produttore ha sempre parlato per il suo lavoro di “performance-based records”: “Mi piace lasciare spazio per gli incidenti e per il caos.
Realizzare un disco senza soluzione di continuità, in cui ogni nota e sillaba è al suo posto e in cui ogni battuta è identica non è stimolante: qualunque idiota dotato di pazienza e del budget adeguato può farlo. Preferisco lavorare su un album che aspira a grandi cose, come originalità, personalità e entusiasmo. Se ogni elemento della musica e della dinamica della band è controllato da computer, mixer, sampler e sequencer, allora di sicuro il disco non sarà incompetente, ma nemmeno eccezionale. E avrà anche una scarsa relazione con la band dal vivo, il che invece è ciò che si suppone tutta questa faccenda sia volto a riprodurre.”
Immediatezza, spontaneità, naturalezza, responsabilità: queste le preoccupazioni e le ambizioni principali.
Bebop, free jazz
Un passo indietro, piuttosto ampio.
Nel corso degli anni Quaranta, il bebop rivoluziona il jazz incanalando l’insoddisfazione nei confronti delle grandi orchestre swing promosse dalle case discografiche e l’esigenza di libertà e sperimentazione. Questa rivoluzione parte da un luogo (la Minton’s Playhouse, che era ricavata da una sala dell’Hotel Cecil sulla 118a strada ovest di Harlem, dove i bianchi non mettevano piede, e che prendeva il nome dal suo proprietario Henry Minton, un ex sassofonista) e un gruppo di musicisti molto ridotto (composto tra gli altri da Coleman Hawkins, Art Tatum, Lester Young, Dizzy Gillespie, Thelonious Monk e Charlie Parker). Si estende poi in pochi anni alle dimensioni del costume, dell’immaginario (influenzando direttamente la letteratura e la mitologia beat), della società e della politica: “Il bebop non soltanto rappresentava un notevole progresso sul jazz precedente dal punto di vista ritmico, armonico e melodico, ma significava la completa rottura con una musica industrializzata e stereotipata quale era ormai il cosiddetto swing così come lo suonavano le orchestre più popolari d’America, e cioè innanzitutto quelle bianche. Il bebop – anzi il bop, come si cominciò a dire – non voleva essere una musica da ballo; voleva essere una musica ‘pura’, da ascoltare, e fu squisitamente, intrinsecamente negra” (Arrigo Polillo, Jazz, Mondadori 1997, p. 197).
La libertà ricercata e esplorata ha a che fare dunque non solo e non semplicemente con le soluzioni stilistiche e compositive, ma anche e soprattutto con la costruzione della propria identità culturale, a livello personale e collettivo: “Divenuti in breve una vera e propria setta, i boppers si dimostrarono infatti altrettanto smaniosi di differenziarsi dalla massa, di isolarsi, quanto di uniformarsi fra loro; si imitavano l’un l’altro anche nel modo di comportarsi, di gestire, di parlare, di vestire, scimmiottati a loro volta dai sostenitori e amici, gli hipsters, gente non conformista, aggiornatissima, addentro alle segrete cose, ‘hip’, come si diceva allora, a cui si contrapponevano tutti gli altri, e cioè gli ‘squares’, gli ottusi, i borghesi conformisti e non informati” (ivi, p. 200).
Setta, conventicola, comunità in cui le scoperte vengono vagliate, approvate e sviluppate: il nuovo linguaggio (gli elettrizzanti “new sounds”) si basa su un processo evolutivo e spontaneo, elaborato dalla competizione collaborativa dei solisti – i quali tendono anche naturalmente a ‘escludere’, con alcuni trucchetti, quelli non abbastanza talentuosi o svegli. Questa dialettica costante tra ricerca e coinvolgimento del pubblico, tra sperimentale e popolare (“questi giovani musicisti incominciarono a considerarsi musicisti seri, artisti, non semplici esecutori e questo atteggiamento cancellò dal jazz l’etichetta – protettiva e restrittiva a un tempo – di ‘espressione popolare’”: Amiri Baraka-LeRoi Jones, Blues People: Negro Music in White America [1963], Harper Perennial 1999) non mancò di influenzare le generazioni successive di jazzisti.
Quando infatti fu il turno tra fine anni Cinquanta e primi anni Sessanta di una nuova rivoluzione portata avanti da compositori come Ornette Coleman, John Coltrane e Max Roach, il free jazz. In questo caso il punto era spingere talmente avanti la ricerca da ‘liberare’ completamente la forma, annullando di fatto la struttura (o ricostruendone una molto più complessa, su basi diverse che prefigurano addirittura la World Music, come nel caso di Coltrane) e perseguendo un’idea di improvvisazione estrema e totale. La valenza sociale e politica, che già era molto presente nel bebop, tende a farsi ancora più presente e a tratti preponderante: il movimento infatti accompagna le lotte per i diritti civili e si identifica strettamente con il Black Power. Mentre dunque il bop si era raffreddato e addomesticato nel cool jazz, le contraddizioni e i conflitti riemergono ancora in una spinta al cambiamento e all’assunzione di responsabilità, condotta non in forme didascaliche né retoriche.
È significativo come alcuni protagonisti dell’epoca, tra cui Miles Davis, rifiutarono categoricamente la “new thing” e i suoi presupposti, con argomenti sicuramente difficoltosi da accogliere peraltro tutt’altro che campati per aria: “Tutti cominciarono a dire che il jazz era morto. (…) Penso che una parte della promozione del free tra i critici bianchi fosse intenzionale, perché molti di loro pensavano che gente come me stesse diventando troppo importante nell’industria. (…) Dopo la promozione delle avanguardie, e dopo che il pubblico le ebbe abbandonate, quegli stessi critici le mollarono come una patata bollente. E all’improvviso tutti cominciarono a spingere la musica pop bianca.” Non è un caso che subito dopo Davis si dedicasse praticamente in solitaria, fino alla metà degli anni Settanta, nella fusione di jazz e rock nutrita di suoni elettrici, effetti elettronici e registrazioni multitraccia: il massimo di spontaneità e di autenticità può essere ottenuto per sottrazione (Albini), oppure attraverso l’impiego del più grande artificio.
Sporgersi
Forse l’immagine migliore è proprio quella di un sassofonista meditativo e al tempo stesso aggressivo come Sony Rollins, che all’apice della fama e mentre l’avanguardia inizia la sua irresistibile ascesa decide di prendersi due anni di riposo e di studio, di lontananza dalla scena. Così, dal 1959 al 1961 va ogni giorno, con la pioggia il sole la neve, a suonare sul Williamsburg Bridge (per non disturbare i vicini di casa), insieme ai treni che passano, al vento, agli elementi e agli occasionali compagni di strada. Costruendo così un’altra mitologia.
Oppure John Coltrane degli ultimi anni, che insegue disperatamente e gioiosamente la sua verità, l’ultima verità (quella che definiva “la crux”), il nucleo buio e luminoso – e vengono fuori così opere Meditations, Expression, Om, Kulu Sé Mama, Interstellar Space, Live in Japan – scavando da solo inseguito dalla morte, infrangendo tutti gli schemi conosciuti e le convenzioni note perché a quel punto non vale più la conoscenza, quanto l’esplorazione incosciente e istintiva del magma e di ciò che c’è oltre: “Vedete, io vissuto per molto tempo nell’oscurità perché mi accontentavo di suonare quello che ci si aspettava da me, senza cercare di aggiungerci qualcosa di mio…” (1962).
All’arte e agli artisti in ogni momento si chiede dunque di “sporgersi”, di superare il limite e di inoltrarsi in territori inesplorati, anche (e perché no?) pericolosi e scomodi, in ogni caso non agevoli né prevedibili (ma, su un altro livello, molto confortanti). Di assumersi il rischio, ogni rischio, in prima persona – cancellando ogni idea di ricompensa, di garanzia, di scambio, di premio. .
L’incertezza, lo sbandamento, il disorientamento, il deragliamento, finire sempre sui margini, scentrati, ruotare o deviare, attestarsi sui margini, allargare il confine, abitare la sfocatura, concentrarsi sui dettagli e sulle sfocature, sbilanciarsi. Questa zona è sempre la stessa in cui, prima o poi, come si vede, incappano tutti; silenziosa, nascosta, sotterranea eppure al tempo stesso in piena luce, potenzialmente visibile a chiunque, è il lato delle cose che la maggioranza non vuole vedere, e perciò non sa neanche della sua esistenza; esperienza diretta e conoscenza intuitiva, certamente; ritaglio di un modello appena elaborato, e paziente naturale sua elaborazione; scavare rischiando anche di arenarsi in un punto, piuttosto che noiosamente rimanere in superficie; concentrarsi sugli elementi che normalmente non sono il centro dell’attenzione – l’atmosfera, gli spazi, gli intervalli, le pause; autenticità; onestà; assenza di filtri, ottenuta magari con la creazione e l’impianto di altri filtri. Semplicità.
Libertà di rischiare; libertà di inoltrarsi; libertà di uscire fuori dai binari e dagli steccati. Perché mai rinunciarci? L’esplorazione non avviene in modo lineare – è un approfondimento, piuttosto, una dilatazione. Rimanere aperti e sperimentare il cambiamento è un’operazione difficoltosa e critica perché richiede di permanere nell’instabilità, di vivere nell’ambivalenza e nell’inattualità, di scegliere deliberatamente la precarietà e di non subirla come una condanna. Di fuoriuscire dunque non solo dagli schemi degli altri, importati e ricevuti dall’esterno, ma anche dai propri.
Immagine di copertina: ph. di Jade Masri da Unsplash