Le 5 sfide per la cultura nel Contemporaneo a Milano

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    La sfida degli spazi, dei contenuti, delle reti, delle persone e della democrazia culturale.

    Ne laGuida nel Contemporaneo, la ricerca appena pubblicata da cheFare sul modo in cui la cultura si trasformando durante la pandemia, abbiamo definito 5 sfide fondamentali per la cultura che la città di Milano deve affrontare. La ricerca è scaricabile gratuitamente.

    laGuida nel Contemporaneo è la seconda tappa de laGuida, il programma nazionale per nuovi centri culturali di cheFare, ed è supportata da Fondazione Cariplo.

    Questo estratto dalla ricerca era stato pubblicato in anteprima il 5 ottobre 2021 su Artribune.

    “Cosa manca nella cultura a Milano?” Provare a rivolgere questa domanda ai pubblici e agli addetti ai lavori fa emergere la densità e la stratificazione di significati, pratiche e linguaggi che cerchiamo di ricondurre a un termine dai confini spesso troppo angusti, quello di cultura. Tra le tante risposte che si potrebbero raccogliere: “un Museo del Contemporaneo”; “un nuovo Grande Progetto di Arte Relazionale”; “un Auditorium come quello del Parco della Musica”; “un Centro per l’Arte e la Scienza”.

    L’elencazione potrebbe continuare per pagine e pagine, ma sarebbe un esercizio futile. Sono tutte risposte legittime che guardano però alla realizzazione di singoli elementi isolati in un contesto che negli ultimi dieci anni ha attraversato enormi trasformazioni, nel quale la cultura è passata dal ruolo di ancella delle cose “serie” a quello (a volte reale, altre solo annunciato) di motore urbano. In parte persino durante la pandemia, l’agenda culturale cittadina è stata costantemente affollata di inaugurazioni, aperture di nuovi spazi, lanci di nuove istituzioni, annunci e comunicati. Più che guardare alla “next big thing”, allora, per capire come si può trasformare la cultura a Milano è interessante confrontarsi con la complessità, provando a cogliere alcuni grandi movimenti necessari con cui la città nel suo complesso dovrà confrontarsi in futuro.

    Certo, parlare di come è cambiata Milano negli anni recenti non è facile. Perché le trasformazioni dell’ultimo decennio hanno segnato una discontinuità enorme rispetto al passato, costruendo su alcuni temi delle distanze con il resto del Paese e favorendo, su altri, prese di posizione ideologiche all’interno della stessa città. La nascita di una nuova forma di governance, il fiume di risorse mobilitato anche grazie a Expo 2015 e la proliferazione di grandi interventi di architettura iconica hanno contribuito a produrre un’immagine a volte un po’ piatta di un tessuto urbano che – come è inevitabile – vive di contraddizioni, di ambiguità e di disallineamenti.

    Se oltre i confini comunali a volte sembra quasi che tutto luccichi sotto la Madonnina, al suo interno la città è divisa tra “ottimisti” e “estrattivisti”.

    I primi mettono l’accento su una rete di mezzi pubblici efficiente, sul potere inclusivo della tradizione filantropica meneghina, sull’attrazione di capitale umano, sulla generazione di ricchezza economica e sulla capacità di competere in alcune grandi sfide internazionali. I secondi guardano invece alle disuguaglianze crescenti, allo scollamento tra redditi e costo della vita, alla povertà abitativa, alla turistificazione ed alla gentrification. È una polarizzazione che sconfina spesso nell’agiografia da un lato e nella critica un po’ autocompiaciuta dall’altro, e che rischia di dare sguardi su Milano tutt’altro che approfonditi.

    E non è certo possibile dimenticare che la vita della città è stata segnata in modo brutale dall’ultimo anno e mezzo di pandemia. Alle chiusure portate dal lockdown e dalle zone di vari colori ha corrisposto a un blocco o una forte contrazione del lavoro per decine di migliaia di professionisti ed organizzazioni, sia nell’ambito strettamente culturale che in tutti quei settori dell’economia creativa che qui più che altrove in Italia con la cultura si fondono, a partire da quelli degli eventi e della comunicazione. Chi ha potuto ha lasciato la città per periodi più o meno lunghi, verso seconde o terze case. Gli altri hanno dovuto fare i conti con quella che in molti hanno vissuto come una zona grigia lunga 18 mesi.

    Eppure, è un discorso che bisogna provare a fare, partendo da cinque grandi sfide culturali urbane.

    La sfida degli spazi

    È evidente che siamo nel mezzo di una riformulazione su scala globale degli usi dello spazio nelle metropoli. Il lavoro a distanza

    ha svuotato molte delle grandi sedi del terziario, cambiando i modi dell’abitare e travolgendo interi settori dei servizi, dalla ristorazione alle pulizie e alla logistica. Quando troveremo il modo di convivere con il Coronavirus probabilmente i flussi turistici torneranno a crescere, ma è chiaro che oggi la domanda è quella di un turismo lento e di prossimità che non trova riscontro nelle grandi strutture ricettive né nelle soluzioni di piattaforma. Gli esiti di questa grande trasformazione sono ancora incerti, ad ogni livello.

    Oggi artisti, operatori, istituzioni e organizzazioni culturali si trovano di fronte ad un panorama di spazi nel quale troppo spesso i requisiti di sicurezza minimi (volumi, prese d’aria,
    distanze tra le postazioni) non possono essere soddisfatti. I costi delle sanificazioni certificate possono essere proibitivi e molte delle forme tradizionali di uso continuativo di studi, coworking
    e laboratori sono messe in crisi da una quotidianità che è costantemente rimessa in discussione da quarantene, malattie, assistenza a familiari malati o chiusure temporanee di scuole e asili.

    Se nei mesi passati molti luoghi della cultura (come piccoli teatri e sale prove) hanno affrontato questa incertezza trasformandosi in centri di logistica per le Brigate e le tante altre forme di solidarietà diffusa, oggi questa condizione si traduce nel rischio di collasso di molte forme di produzione culturale.

    C’è una domanda nuova, diffusa ed urgente di spazi resi accessibili per la produzione culturale a breve, medio e lungo termine. È un’opportunità per ridare vita a quelle zone della città – in centro come in periferia – desertificate dalla pandemia, nelle quali i locali vuoti che una volta erano negozi, show-room ed uffici possano riconvertirsi in laboratori, spazi espositivi, atelier
    e co-working, sicuri dal punto di vista sanitario ed accessibili da quello economico.

    C’è molto fermento nel mondo dei nuovi centri culturali, quella galassia di luoghi della cultura ibridi e difficilmente definibili la cui proliferazione ha segnato la vita milanese recente, e che oggi chiedono nuove forme di supporto e riconoscimento. Ma c’è anche tensione riguardo al futuro di molti centri sociali che costituiscono un’ossatura culturale importante – come Macao, Cascina Torchiera e Ri-Make – la cui sopravvivenza è incerta e per la quale c’è bisogno di trovare soluzioni innovative di sistema.

    La questione degli spazi non riguarda solo quelli al chiuso. L’impossibilità e la paura del contatto con gli altri corpi hanno moltiplicato la domanda e l’offerta di forme culturali all’aria aperta. Anche – ma non solo – street art, performance e concerti. Pratiche che sono in ripensamento e che adesso hanno bisogno di interventi strutturali su piazze e parchi, di finanziamenti ad hoc e di un lavoro costante di accompagnamento burocratico e semplificazione amministrativa.

    Le trasformazioni nell’uso sociale degli spazi pubblici e privati portate dalla pandemia implicano anche un ripensamento della formula delle “week”, che tanta fortuna ha avuto negli anni passati arrivando all’esorbitante numero di 20 nel 2019. Se per alcune il radicamento nel tessuto cittadino è tale da non poter pensare di eliminarle – tra queste le inevitabili Design e Fashion Week, ma anche iniziative di indubbio successo come Bookcity, Piano City, Art Week e Arch Week – per altre ha forse senso pensare a come distribuire gli stimoli e le risorse che le nutrono in modo più articolato, su periodi di tempo più lunghi e con flussi di persone diversi.

    La sfida dei contenuti

    La cultura a Milano ha bisogno di imparare a pensare in un’ottica più strategica la ricerca e la produzione dei contenuti culturali, guardando più al software delle persone, delle relazioni e delle capacità e meno all’hardware degli edifici. Questo vuol dire trovare formule per vincolare la rigenerazione spaziale a base culturale alla costruzione di percorsi curatoriali, sia dal punto di vista dei gruppi di lavoro che da quello delle risorse complessive messe a disposizione delle iniziative.

    Qui ci sono 39 centri universitari e si pubblicano il 70% dei libri italiani. Eppure chi ha opportunità di studiare le strutture di spesa delle organizzazioni culturali sa che troppo spesso quelle connesse alle funzioni di ricerca, produzione e curatela hanno un ruolo ancillare e sottostimato.

    È cruciale aumentare – e finanziare – in modo programmatico la connessione tra editoria, centri di ricerca, grandi istituzioni culturali e organizzazioni indipendenti con iniziative congiunte, sistemi di residenze, project room e borse di studio ad hoc.

    Ma è anche importante ripensare il rapporto dei finanziamenti e dei budget tra le spese infrastrutturali e quelle per la curatela, la produzione e la circuitazione; in altri termini, spostare l’asse dall’attuale enorme attenzione per gli aspetti spaziali ad una centralità delle forme ed i modi della cultura che in quei luoghi verrà prodotta e fruita.

    Viviamo in tempi confusi, nei quali è spesso difficile capire come si organizzano le priorità, a partire da quelle culturali. Eppure, è chiaro che dietro la grande incertezza che pervade il nostro mondo c’è un intero nuovo corso di domande che l’arte e la cultura si stanno facendo. A partire da quelle de-coloniali, ambientali e di genere portate avanti dai movimenti sociali, che non sono certo rimasti fermi in questo anno e mezzo. E molto, moltissimo, dovremmo indagare sui rapporti individuali e collettivi con la tecnologia, con la scienza, con la medicina, con la natura, con i corpi, con le ritualità collettive e con il lutto.

    La sfida delle reti

    Dopo tre semestri dall’inizio della pandemia, è chiaro che una risposta di sistema alla necessità di trovare spazi sostenibili per la vita ed il lavoro nelle grandi città non può passare solo da esperienze – interessanti quanto episodiche – come quelle del South Working e del ripopolamento dei borghi una tantum. Per Milano, questa può essere un’opportunità per ripensare il proprio rapporto con altri territori su diversi livelli, articolando proposte che non si limitino all’attrazione di turisti, city user e pendolari ma che trovino modi di scambio e trasformazione reciproca.

    Il primo livello sul quale è necessario intervenire è quello della Città Metropolitana, composta da 133 comuni e oltre 3 milioni di abitanti: un territorio vasto, denso e frammentato che fa riferimento a Milano per molti aspetti legati al lavoro, ai servizi ed ai consumi ma che potrebbe essere molto più connesso per quello che riguarda l’offerta culturale, la valorizzazione congiunta del patrimonio (anche in ottica di turismo lento e di prossimità) e soprattutto la circuitazione dei pubblici.

    Il secondo livello ha a che fare con le altre città medie e grandi del Nord Italia. Per gli operatori e i pubblici, al netto degli effetti pandemici c’è già l’abitudine di spostarsi in giornata tra Milano, Torino, Bologna, Bergamo, Brescia e Venezia (alle quali si aggiungerà a breve, con il completamento dell’alta velocità, Genova). Perché non pensare a programmi, iniziative e sperimentazioni congiunte che facciano sistema per i professionisti e gli studiosi, come avviene da ormai molto tempo tra le grandi città in Belgio, Olanda e Francia? C’è molto da imparare per tutti se si inizia a pensare in termini di Macro Regione Culturale.

    Il terzo livello riguarda le città medie e grandi del Centro e del Sud Italia. Da troppo tempo, infatti, abbiamo “naturalizzato” l’idea di un’Italia a due velocità, anche sul piano culturale. Eppure – nell’enorme disuguaglianza di risorse e di opportunità – città come l’Aquila, Napoli, Bari e Palermo hanno saputo trovare formule innovative di gestione e valorizzazione dei beni culturali, di sperimentazione sui beni comuni e di costruzione di nuovi centri culturali. Formule che potrebbero portare a collaborazioni importanti, in un senso e nell’altro.

    Il quarto livello è quello – variegatissimo – dell’Italia non metropolitana. Che vuol dire, certo, terre alte e aree interne, ma anche il vasto mondo che siamo abituati a pensare come “provincia”, caratterizzato da un accesso sufficiente ai servizi di base ma opportunità limitate di scambio culturale e di circuitazione di capitale sociale. Per chi lavora in questi territori portandosi
    dietro il “marchio” di Milano è chiaro da tempo che la città può pensare di essere qualcosa di più di un attrattore di risorse umane e economiche, ponendosi invece come punto – d’arrivo, di partenza o di passaggio – di catene culturali lunghe e corte di trasferimento e moltiplicazione di competenze, idee e buone pratiche.

    L’ultimo livello è quello internazionale. La vulgata vuole Milano “la città europea d’Italia”, e c’è certamente del vero: le connessioni sono moltissime, e Milano è nelle mappe globali non solo della moda, dell’architettura e del design ma anche, in misura minore, dell’editoria e dell’arte contemporanea. Eppure, già prima della pandemia c’era da fare molto per aumentare la connessione con gli altri paesi europei, nei quali l’investimento pubblico
    in arte e cultura è da decenni spropositatamente superiore a quello italiano. Il Coronavirus non ha reso certo le cose più facili e per cambiarle non si può pensare di affidarsi alle Olimpiadi Invernali. C’è bisogno di pensare a programmi internazionali di scambio e di studio, a formule di accoglienza e di reciprocità che coinvolgano la diplomazia culturale, i centri culturali e le grandi istituzioni di altri paesi.

    La sfida delle persone

    In Italia, più che altrove in Europa, le professioni dell’arte e della cultura sono segnate da una precarietà economica e professionale strutturale. In una città nella quale il costo della vita continua ad aumentare ed i redditi di molti sono appesi a un filo, c’è il rischio concreto di un lento e invisibile impoverimento del capitale sociale e culturale del territorio. Già adesso chi non può permettersi gli affitti tuttora altissimi se ne va, a volte temporaneamente e a volte per sempre. Allo stesso tempo, i tantissimi ricercatori e professionisti che tenevano un piede in due città hanno optato per fermarsi “nell’altra”, forse più piccola ma più economica, e cercare di lavorare a distanza.

    Si tratta di un fenomeno graduale e non molto visibile, sul quale i dati a disposizione possono dirci ancora poco. Quello che è certo è che quasi nessuno crede ancora alla mitologia di una classe creativa globale iper-mobile (ormai sconfessata dal suo stesso inventore, Richard Florida): chi si occupa del rapporto tra arte, città e cultura sa che i patrimoni di connessioni, relazioni, competenze, conoscenze e abilità si costruiscono sui territori nel tempo, e che un drenaggio improvviso di artisti ed operatori rischia di avere ripercussioni che dureranno anni. A questo proposito è necessario tenere presente che l’inevitabile stop a inaugurazioni, eventi e conferenze non ha significato solo un arresto della fruizione culturale ma anche la cancellazione di quelle occasioni informali di contatto e cross-fertilizzazione che sono momenti cruciali (e non sostituibili dal digitale) di connessione, ideazione e sviluppo di nuove occasioni professionali dei mondi dell’arte e della cultura.

    Per invertire questa tendenza c’è bisogno di iniziative che agiscano su livelli diversi, dal supporto per abitazioni e studi a borse di ricerca e programmi evoluti di studio visit. Sarà cruciale favorire la nascita di nuove reti di secondo livello e il consolidamento di quelle già esistenti, così come lavorare su programmi che implementino la connessione tra istituzioni tradizionali, nuove organizzazioni e nuovi centri culturali.

    La sfida della democrazia culturale

    Anche se l’economia della città ha continuato a crescere per anni, per alcuni gruppi sociali questo ha voluto dire un aumento delle disuguaglianze, l’esposizione al rischio di forme di povertà assoluta, redditi insufficienti per affrontare il costo della vita, povertà abitativa e disoccupazione.

    In questo contesto – aiutato in modo drammatico dalle conseguenze del Coronavirus – c’è il rischio concreto dell’esclusione di fasce crescenti della popolazione dai servizi e dai consumi culturali, in un processo di marginalizzazione nel quale la povertà culturale si innesta su altre forme di povertà, moltiplicandole. In altri termini, si rischia di andare incontro ad una Milano a due velocità. Una benestante, borghese, saldamente ancorata alle forme di rendita (di capitale economico, ma anche sociale e culturale) che si riversano su Milano dal resto d’Italia e dall’estero. L’altra sempre più disagiata e popolare, nella quale settori crescenti della piccola borghesia impoverita si fondono e si scontrano con le classi più povere, spesso legate a percorsi migratori.

    Contrastare questa tendenza implica interventi di grande respiro, a partire dal welfare e dall’edilizia residenziale pubblica. Ma vuol dire anche imparare a costruire strategie di partecipazione e democrazia culturale in un’ottica di prossimità, attraverso sforzi programmatici costanti per l’ampliamento e l’aumento di efficacia delle reti di servizi culturali di base, a partire dai servizi per l’infanzia, dalle scuole, dai servizi per i giovani e gli anziani, dalle biblioteche ma anche dai tantissimi nuovi centri culturali di iniziativa privata.

    Se è vero che le formule più rigidamente quantitative dell’Audience Development e dell’Audience Engagement sembrano aver fatto il proprio tempo – soprattutto alla luce della richiesta di attenzione costante che viene fatta alle nostre vite sempre più in streaming – è anche vero che se affrontate in modo non ideologico possono fornire strumenti potentissimi di accesso alla cultura, soprattutto fuori dalle rotte della cultura tradizionale. Probabilmente questo implica anche un ripensamento delle forme di offerta culturale che tradizionalmente vengono associate ai mondi della marginalità sociale, spesso segnati da una forte impronta naïve. Un approccio che forse non può più bastare a fronte della necessità di empowerment individuale e collettivo di gruppi sociali sempre più poveri. Si tratta anche di un’occasione per valorizzare in modo diverso il rapporto tra i mondi della cultura e quelli dell’innovazione sociale, che negli ultimi anni hanno popolato la città di iniziative interessanti, costruendo un importante patrimonio di metodi e strumenti, ma che non sempre hanno saputo coniugare le competenze progettuali e di fundraising con visioni culturali lungimiranti.

    Molti sono già all’opera per affrontare queste sfide, nei mondi dell’arte e della cultura, nelle istituzioni e nella società civile, chiedendosi non solo quale sarà la prossima grande inaugurazione, ma cosa ci succederà dentro, attorno e attraverso.

    Note