I nuovi centri culturali sono spazi di confronto, di scontro e di trasformazione. Il lavoro che svolgono è inestimabile ma è necessario fare di più per sostenerli. Farlo significa superare gli ostacoli economici e pratici che li hanno limitati fino ad ora: dobbiamo condividere strumenti, conoscenze ed esperienze. Abbiamo bisogno di una presa di coscienza collettiva. Vogliamo unire le forze con tutti i nuovi centri culturali d’Italia. Compila il nostro questionario e raccontaci chi sei.
Sono nata il 25 giugno 1979 a Reggio di Calabria. Una bambina italiana del sud con il passaporto europeo. Figlia di Chernobyl, del Muro di Berlino caduto, delle guerre in Iraq, in Afghanistan e nei Balcani. Di Mani Pulite, Berlusconi e Non è la Rai, quanto dei Social Forum, dei girotondi, delle telestreet e Indymedia.
A 13 anni, entrando in contatto in modo cosciente per la prima volta con la storia del ‘900, restavo interdetta davanti a “quelle persone” che avevano lasciato salire al potere il nazi-fascismo, avallando l’orrore delle leggi razziali prima, e dei lager poi: che pazzi, come era possibile? Io non lo avrei permesso, io avrei fatto qualcosa: ne ero sicura…
Dei miei quaranta anni, trenta li ho vissuti in un paese piombato nel populismo: l’Italia della II Repubblica. La vita è sempre una sorpresa.
Questo articolo è dedicato alla mia generazione, quella dei quarantenni e dei trentenni, e a chi è venuto dopo noi: i ventenni e gli adolescenti della penisola (vi chiamano millennials, ma a me questo termine proprio non piace).
Siamo nati in un mondo difficile, dalle filter bubble al cambiamento climatico, in un paese che ha dimenticato la sua centralità, la sua storia e lo stile della politica. Un paese bellissimo nonostante tutto.
Non ci sono colpe e meriti da distribuire. Dobbiamo fare il “bootstrap”, che significa mettere in moto tutti i processi per riavviare il computer. In inglese c’è una frase molto bella per descriverlo: pull yourself up by your bootstraps, “tirati su da solo prendendoti per le stringhe degli stivali”.
È un’immagine paradossale, un po’ buffa, un po’ tragica. Ma è quella che, come quarantenne italiana, meglio mi calza.
Dopo quasi 13 anni di anfibi con il mio compagno della vita, Salvatore, e 20 di inquietudine cibernetico-ecologista, ho un messaggio su questi lacci e su come alzarci in piedi.
Figli della II Repubblica
L’Italia è la 6° potenza industriale del mondo […] L’Italia supera Francia e Gran Bretagna e sale al 4° posto.
Difficile da immaginare per la mia generazione, ma è successo. Siamo rispettivamente nel 1987 e nel 1991: gli anni del sorpasso.
Non è detto che per noi questa informazione – in generale il sapore, la conoscenza e la comprensione dell’epoca che ci ha preceduto – sia presente, percepita, giudicata criticamente. Tendo a pensare il contrario: io stessa mi ripeto questi dati con straniamento, rendendomi conto delle lacune, dei pezzi che mancano e soprattutto della difficoltà di interpretarli.
Di quell’Italia che ha negoziato con gli Stati Uniti crisi internazionali con una sua autonomia. Di quell’Italia che ha costruito l’Europa, al centro del Mediterraneo, consapevole della sua posizione e del ruolo che da lì poteva giocare nello scacchiere geopolitico. Di quell’Italia con un PCI che ha rischiato di salire al governo con elezioni democratiche, caso unico nel blocco dei paesi occidentali con la centralità che ne conseguiva. Dell’Italia che vinceva gli oscar, facendo la storia del cinema, del design, della letteratura e della moda, ci è rimasta una eco sbiadita, divisa fra la celebrazione del mito e l’indignazione cieca e indiscriminata per i ladri che l’avevano distrutto.
L’era di Tangentopoli ci ha drammaticamente consegnato al populismo, l’onestà trasformata in progetto politico da una classe dirigente che ha fondato la propria legittimità politica e la propria narrazione pubblica (con effetti forse ancora più disastrosi) sul “non aver rubato”. Ma l’onestà è aderenza alla norma vigente, esempio di probitudine e rettitudine di chi agisce “in base a principî morali ritenuti universalmente validi” (fonte: Treccani). L’onestà appartiene al regno della morale, e in quanto tale si conforma all’esistente. La politica sta da un’altra parte, è il regno dell’invenzione sociale dove il patto sociale si crea e si determina.
Negli anni in cui, pezzo a pezzo, il nostro patrimonio pubblico è stato svenduto (qui un articolo fra tanti con numeri che leggerli fanno spavento), abbiamo anche perso la capacità di immaginare mondo, spianando la strada ai populisti a destra e a sinistra, dalla Lega ai 5 Stelle.
Datapoietici e duri a morire
Che orizzonti avevano i giovani, gli imprenditori, gli intellettuali, gli artisti, la classe media e la classe dirigente della I Repubblica – quella che nella controversa figura di Craxi trova il suo punto di massima espansione e di collasso?
Salvatore ed io non lo sappiamo, come milioni di nostri coetanei figli della svendita.
Eppure abbiamo continuato a scegliere di vivere e lavorare in Italia. Da viaggi, fellowship, residenze, progetti su commissione all’estero siamo sempre tornati, riconoscendo alla nostra penisola una qualità della vita che non troviamo altrove. Non si tratta solo del cibo, dei mercati, della bellezza delle città, che è già tantissimo. Si tratta anche della cultura e della capacità critica, dello spessore e della profondità che esprimono. A partire da una scuola che si ostina a mantenere l’insegnamento della filosofia e da accademici che si battono per estenderlo sin dalle elementari in un delirio di riforme infelici.
Come artisti e attraverso HER, il nostro piccolo centro di ricerca riportato da Londra a Roma fra il 2016 e il 2017, collaboriamo con città, istituzioni, università, imprese, designer, artisti e ricercatiori dando vita ad azioni e progetti in cui dati e computazione abbandonano il dominio della tecnica per abbracciare quello della cultura.
Nel 2017-18 il contributo di Salvatore come membro della Task Force dell’AgID sull’intelligenza artificiale è stato la sfida 9: “L’Essere Umano”, originariamente la Sfida Estetica. Nelle linee guida di un documento governativo italiano sull’introduzione dell’intelligenza artificiale in ambito PA si sostiene la necessità di “ideare e sostenere iniziative in cui artisti e designer lavorino fianco a fianco con ricercatori, umanisti, ingegneri e manager in ambito di IA”, individuando nella capacità di “innovare attraverso la bellezza, l’estetica ed il benessere e nello stimolare processi culturali e sociali di avanguardia” il vantaggio competitivo internazionale che ha da sempre contraddistinto l’Italia, con la capacità dell’arte di “immaginare mondo”.
Nello stesso anno con gli amici di Plus Value abbiamo organizzato al palazzo delle Esposizioni a Roma il convegno “IA e Pa. La dimensione pubblica dell’innovazione e il ruolo dell’arte” coinvolgendo la Commissione Europea e l’allora DG Roberto Viola per sostenere che questa è la dimensione strategica su cui l’Italia deve investire, e riguadagnare un ruolo di leadership nell’innovazione che al momento tragicamente nessuno presidia.
Mentre Cina, Stati Uniti, Russia, Francia e le grandi potenze del pianeta spendono miliardi nella nuova “guerra agli armamenti digitali” – per creare l’algoritmo più intelligente, estrarre più dati e guadagnare la vetta della superpotenza di calcolo – noi possiamo occuparci di se e come queste tecnologie possano creare senso, coesione sociale, solidarietà e bellezza, sostenendo una nuova stagione del made in Italy basata sui dati, sulla computazione e sull’intelligenza artificiale.
Con il cambio di governo la Task Force è stata smantellata: dall’Agid è passata al Ministero dello Sviluppo Economico. Del gruppo e del lavoro di quel gruppo, non è rimasta traccia, fatto salvo il libro bianco pubblicato a fine mandato. I dialoghi istituzionali così promettenti si sono interroti, ma questo non ci ha fermato. Nel 2019 abbiamo partecipato e vinto una serie di bandi tutti scritti esplicitamente nella logica di quel convegno. A Torpignattara è nato IAQOS. A Ivrea, nel cuore delle Fabbriche ex Olivetti, abbiamo concettualizzato Datapoiesis – la “capacità dei dati di portare all’esistenza qualcosa che prima non c’era – e con i partner del progetto stiamo lavorando per trasformarla in un’azienda il cui scopo è riposizionare i dati e il calcolo nelle nostre società: da un’industria prevalentemente estrattiva, a un modello che contribuisce positivamente al benessere umano, per costruire relazioni significative ed empatia, solidarietà e partecipazione civica, conoscenza e informazione, produzione e condivisione.
Il concetto della Datapoiesis ha illuminato il nostro anno e, retrospettivamente, i lavori che l’hanno preceduta.
OBIETTIVO, il primo oggetto datapoietico, è una lampada alimentata dai dati sulla povertà estrema nel mondo che non si spegnerà mai fin quando le persone che vivono in questa condizione non scenderanno sotto una certa soglia. A due mesi del suo lancio l’opera è entrata a far parte della Collezione Farnesina per la sua capacità di unire arte, ricerca e innovazione tecnologica, e di contribuire in modo attivo alla cooperazione internazionale sensibilizzando e coinvolgendo persone e istituzioni sui grandi temi sociali della contemporaneità.
La stagione data-drive del made in Italy è già iniziata. Ha visto i suoi primi passi nei luoghi storici della Silicon Valley antelitteram – tutta europea e tutta italiana – che è stata la Olivetti. Ha raccolto intorno a sé dei partner e i primi finanziamenti. È stata riconosciuta da una delle massime istituzioni dello stato, dedicata alla cooperazione, allo sviluppo e alla promozione del sistema paese.
I figli della II Repubblica sono duri a morire.
Bootstrap: Tragedia e Agnizione
Qualche giorno fa Salvatore ha scritto su queste pagine un articolo sul valore della tragedia e sul perché non dobbiamo confondere ecologia e ambientalismo.
Nella Poetica Aristotele definiva con il termine “agnizione”, che letteralmente significa “riconoscimento”, il momento catartico della tragedia. “Consiste nell’improvviso e inaspettato riconoscimento dell’identità di un personaggio, che determina una svolta decisiva nella vicenda.” (fonte: Wikipedia). In altre parole si tratta di una ricomposizione di senso che consente al personaggio di comprendere il proprio destino e, quindi, di indossarlo dignitosamente. Senza agnizione la tragedia è un crudo disastro che ci schiaccia.
L’articolo di Salvatore mi ha riportato un capitolo di vita scivolato nella solitudine e nel silenzio.
Leggere per iscritto nero su bianco cosa e modificati a vicenda – io con l’eredità politica dell’ecologia, l’esperienza del gruppo innovazione dei Verdi e Fiorello Cortiana; lui con l’arte, la performance, i linguaggi digitali e la continua reinvenzione del reale dell’etica hacker – mi ha turbato e mi ha richiamato alla presenza: di me, di noi, del tempo che abbiamo.
Sono un’ecologista, deep e cibernetica, e ho messaggio per la mia generazione.
40 sono i nostri anni. 20 quelli che ci servono per fare il bootstrap. Il tempo di un’altra generazione per immaginare cosa lasciamo a chi viene dopo di noi, e come vivere la nostra vecchiaia dignitosamente. Non in un posto astratto, ma qui: in Italia e in Europa, nel bel mezzo del Mediterraneo.
Da soli non si fa nulla. Da soli nemmeno esistiamo: ci è voluto lo sguardo di un’altra persona, Salvatore, per restituirmi un pezzo della mia identità e trovare il coraggio di esprimerla di nuovo. Abbiamo bisogno di incontrarci, di incrociare i nostri sguardi. Di uscire dalla competizione e dalla feroce solitudine a cui tante forze nel nostro mondo ci vogliono condannare. Per riprendere a immaginare il mondo (che inevitabilmente è più è più grande di noi) e occupare al suo interno un posto che produca senso (che risponda cioè anche alle nostre domande esistenziali, non solo ad un avenzamento di carriera), abbiamo bisogno di riconoscerci (agnizione) e di sviluppare nuovi legami di solidarietà (catarsi). Questa è forse la parte più difficile del bootstrap.
A HER è un anno di trasformazione in cui stiamo ripensando tutto a partire da queste considerazioni. Se quello che scrivo vi tocca, siamo qui.
NB: Per il concetto di agnizione ringraziamo Derrick de Kerckhove che ha illuminato con questa parola le nostre riflessioni sulla tragedia.