I luoghi della cultura popolare tra nostalgia e innovazione

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    “Il fatto che ci siano sempre meno luoghi in cui posso incontrare e conoscere persone anche molto diverse da me, posti come la parrocchia o la sezione di un partito, è un fenomeno che mi spaventa. Mi spaventa talmente tanto che a volte considero di frequentare la chiesa vicino casa solo per recuperare quel tipo di dimensione dell’esistenza”.

    Lo scrive Giovanni Truppi, cantautore napoletano, nella canzone che dà il titolo al suo ultimo album Infinite possibilità per esseri finiti.

    La nostalgia per una dimensione collettiva dell’esistenza è quella che anima il libro di Giulia Mitrugno Insieme – I Luoghi della cultura popolare, edito da Ronzani: una ricognizione di ciò che resta dei luoghi che nel corso del Novecento hanno saputo contenere un comunità – eterogenea, raffazzonata, vitale, luminosa, povera – e di che cosa tra le loro mura è accaduto, avendo un’eco anche altrove.

    I luoghi indagati da Mitrugno hanno a che fare con la storia del movimento operaio e contadino italiano. Si tratta di case del popolo, teatri, associazioni ricreative e culturali, società di mutuo soccorso. Hanno a che fare, anche e innegabilmente, con la storia del PCI e dei suoi militanti, un partito che ha saputo farsi organismo, dove era l’interazione e la cooperazione delle parti a tenere insieme il tutto.

    Nella Casetta rossa di Bologna si fece teatro: alla prima rappresentazione le persone in scena erano cinquecento, gli spettatori furono diciottomila. Le donne si appropriarono di un’immagine pubblica di sé: per molte contadine fu la prima volta. Alla Casa del popolo di Molano i lavoratori si incontravano per farsi un’opinione e decidere la condotta da tenere collettivamente di fronte ai padroni. Dal Real albergo dei poveri di Napoli nel dopoguerra partivano i bambini che sarebbero stati accolti da famiglie emiliane, nella cornice di un’iniziativa del PCI il cui presupposto era che, in alcune congiunture storiche, a crescere i bambini serve una rete ampia e diffusa, in certi casi addirittura una nazione. Lettera della famiglia Verrari di Modena, alla famiglia Della Corte di Napoli: “Caro signore, ieri abbiamo ricevuto vostro figlio Angelo, vi facciamo noto che si trova in ottima salute, ha fatto un bellissimo viaggio ed ora sta giocando con altri due bambini della sua età. Dormono tutti e tre assieme in un letto matrimoniale, dunque non dovete stare in pensiero perché è trattato come i nostri figli. Noi non siamo signori, siamo contadini, ma il pane e il vino non ci mancano.”

    Ragionare sugli spazi di tutti, sul pane e il vino per tutti, significa partire da un presupposto: la vita non dovrebbe ridursi alla soddisfazione e riproduzione dei bisogni materiali, eppure talvolta capita che sia ridotta così, e non sappia essere meglio. Ragionare sui luoghi collettivi (dai quali si può lavorare perché quest’ingiustizia cessi, o venga mitigata) significa quindi chiedersi dove, chi è materialmente manchevole, chi esperisce un’emarginazione economica e sociale, possa sentirsi a proprio agio, accolto e ammesso in una rete che non sia escludente ma sia fatta di una maglia larga abbastanza da includere anche l’ultimo abitante della periferia urbana e sociale. Mentre mi domando questo, penso a Bruna, la donna trans che il 24 maggio scorso a Milano è stata presa a manganellate dalla polizia locale. Abita la periferia nord-est della città, i sudici e ombrosi parchetti adiacenti a Via Padova dove si può passare il tempo gratis, e quasi sempre nascosti.

    Se provo a immaginare altri luoghi davvero di tutti, e cioè anche di Bruna, oltre alla parrocchia mi viene in mente il pronto soccorso e – anche se negli ultimi anni in misura minore a causa dell’ossessione per il decoro – le stazioni. I luoghi quindi del dolore e della cura, del viaggio e della precarietà.

    Non si tratta di luoghi della cultura popolare, bensì dell’accoglienza: sono giacigli. Ma i giacigli hanno una natura emergenziale, non trasformativa e dinamica. Se le case del popolo del secolo scorso potevano fungere, quando necessario, anche da giacigli, il loro ruolo era un altro. Servivano per incontrarsi e fare qualcosa: che fosse discutere, pensarsi insieme dentro la struttura di uno spettacolo teatrale, un’iniziativa sociale, una negoziazione salariale, una serata di ballo.

    Alcuni degli spazi che ancora assolvono queste due funzioni – essere gratis e accoglienti e permettere a persone diverse e imprevedibili di costruire qualcosa insieme – sono i centri sociali, i circoli Arci e Acli – seppur spesso polverosi e decadenti – e le iniziative che agiscono sui territori coinvolgendone la popolazione dal basso, in un’ottica interattiva. A Milano, lo spazio autogestito Leoncavallo ha saputo resistere agli scontri degli anni ‘90 con le autorità locali attraverso la reazione compatta di chi lo animava. Continua ad ospitare concerti, spettacoli teatrali, mostre d’arte, attività sportive ed eventi legati all’attivismo sociale e alla produzione culturale. È un luogo in cui difficilmente ci si sente a disagio, essendo plasmato da un’umanità tanto varia per età, gusti, provenienza, retroterra culturale, da saper funzionare ancora come contenitore vitale e creativo.

    Un’altra operazione efficace, nel tentativo di costruire spazi pubblici che restituiscano ai quartieri una dimensione collettiva dove il quotidiano possa espandersi, anziché richiudersi nel domestico, è quella messa in atto attraverso il progetto di urbanistica tattica “Piazze aperte”, realizzato dal Comune di Milano in collaborazione con Bloomberg Associates e il supporto di Nacto Global Designing Cities Initiative. Si tratta di un’operazione semplice: chiudere al traffico alcune zone della città e farne delle piazze. Colorare il cemento delimitando così lo spazio anche visivamente, fissare qualche panchina, qualche tavolo da Ping-pong, una rastrelliera per le biciclette. Può sembrare un’operazione di poco conto ma chi oggi abita il quartiere di NoLo o di Dergano, per citarne due, ha la netta sensazione di aver guadagnato uno spazio di interazione, una comunità di quartiere nella quale riconoscersi e sulla quale contare. I visi dei vicini si fanno familiari, poi si imparano i nomi, le abitudini, ci si scambia consigli, aiuti, si finisce talvolta a lavorare a progetti comuni. Si ripensa a com’è successo e ci si risponde: è stata la piazzetta.

    Un altro aspetto interessante dei nuovi centri culturali è che spesso, più che luoghi fisici sono incarnati da reti di individui che si organizzano collettivamente e di volta in volta trovano uno spazio diverso dal quale animare i quartieri delle grandi città. Appaiono qui e lì, seguendo una natura itinerante. È il caso di Sagrèt: “una sagra in quartiere, un momento d’incontro semplice, popolare e familiare, ed un percorso di apertura, ascolto e dialogo; un nuovo modo di scoprire e ri-appropriarsi del proprio quartiere.”

    Il processo di realizzazione di Sagrèt, un progetto della libreria indipendente Potlach, punto di riferimento culturale in Via Padova, sostenuto da Fondazione Cariplo, ha incluso la popolazione locale in un percorso di incontri informativi e laboratori partecipati di produzione culturale. La restituzione ha preso forma durante eventi animati da musica, giochi di strada, concerti e spettacoli che suscitano l’interazione di bambini e anziani, giovani genitori, musicisti, artisti, lettori, passanti curiosi e passanti disattenti.

    Ci sono infine i centri culturali più tradizionalmente riconosciuti come tali, che poggiano su basi istituzionali e sono ben definiti da un edificio e le sue mura, le sue vetrate, le sue intenzioni anche politiche. Strumenti altrettanto preziosi nel trasformare le città ma dove è meno facile che le marginalità vengano attratte e incluse, complice anche una minore libertà di sperimentazione.

    Mappare l’eredità dei luoghi della cultura popolare novecentesca è un’operazione difficile: non solo perché le strutture che davano forma a questi luoghi sono decadute, hanno fallito o si sono reinventate, allontanandosi dal popolo di cui furono portavoce, ma anche perché i nuovi centri culturali sono per definizione multiformi, ibridi, a tratti inafferrabili. Crescono, mettono radici e fioriscono in tempi e luoghi diversi da quelli delle case del popolo, ma rispondono a bisogni affini.

    “Credo nella creatività dei popoli e non in quella degli individui” scrive Mitrugno nel libro da cui siamo partiti. È in effetti la creatività, si dovesse nominarne una, la risorsa fondamentale dietro ai luoghi della cultura popolare. Quelli di ieri, quelli di oggi e quelli a venire.

     

    Immagine di copertina di Noriely Fernandez da Unsplash

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