Homeless (and) students: la questione abitativa non più rimandabile

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    E così, da nord a sud, in numerose città italiane sono comparsi accampamenti, tende variopinte in prossimità di numerosi atenei italiani in cui trovano rifugio studenti e studentesse che hanno deciso di occupare lo spazio pubblico come forma di protesta rispetto alla disastrosa situazione abitativa italiana. La prima studentessa ad attivarsi si è accampata, ça va sans dire, davanti al Politecnico di Milano. Milano è il simbolo del costo esorbitante degli affitti, dei prezzi degli alloggi in vendita alle stelle, del costo della vita elevato. Non stupisce che la protesta sia partita da lì, ma neanche stupisce la sua rapida e capillare diffusione in numerose altre città.

    L’individualizzazione è diagnosi esemplare del presente e castello in aria del futuro (U.Beck)

    Lo slogan è emblematico: Senza casa, senza futuro. Gli striscioni sono firmati: “homeless students”. Ora è evidente nella scelta dell’immaginario, dei termini con cui si descrive la propria condizione e dei termini con i quali questi studenti e studentesse decidono di auto-rappresentarsi, l’assonanza con il fenomeno della homelessness. L’esperienza di trovarsi privi di abitazione non è assolutamente appannaggio di fasce ristrette di popolazione, di persone in condizioni di grave emarginazione sociale, di persone con dipendenze da sostanze e patologie psichiatriche. E a quanto pare neanche la percezione di sentirsi intrappolati in un continuo presente.

    Come ricercatrice ho iniziato a rilevare empiricamente questa situazione in occasione delle presentazioni del saggio “La colpa di non avere un tetto. Homelessness tra stigma e stereotipi”. Da un paio di anni ho avuto l’opportunità di girare diverse città e università italiane e di confrontarmi con numerose persone. Si è trattato di importanti momenti di ricerca sul campo: in quelle occasioni erano rare le persone che non presentassero problemi abitativi e difficoltà che derivassero da quei problemi abitativi. Ho ascoltato i racconti di singoli e famiglie con background migratorio che mettevano a tema il razzismo quotidianamente esperito nella ricerca di un’abitazione, le testimonianze di giovani e meno giovani precari/e che non dispongono delle garanzie richieste dalle banche per l’accensione di un mutuo né di quelle richieste dalle agenzie immobiliari o dai singoli proprietari per l’affitto di un alloggio ma anche la presa di coscienza degli studenti/sse quando presentavo loro la tipologia ETHOS che considera senza dimora, tra le altre dimensioni, anche chi si trova nell’impossibilità di avere un titolo legale che attesti la propria permanenza in una data abitazione oppure la mancanza di privacy. “Anche io ho dormito per 7 mesi sul divano di un mio amico prima di trovare una stanza a Bologna” ha dichiarato uno studente. Con le parole di un’altra studentessa “non ricordo neanche quanti colloqui ho fatto per trovare una stanza, ero sfinita, alla fine ho usato la borsa di studio per affittare una stanza in uno studentato privato”.

    La questione abitativa, lungi dall’essere residuale, riguarda strati sempre più ampi della popolazione nel nostro Paese. Ovviamente, assume tratti e ampiezze differenti, così come differenti sono le esigenze delle persone coinvolte, ma ritengo sia problematico continuare a considerare separatamente i segmenti coinvolti. Considerarli congiuntamente consente di avere un’idea più precisa di quanti si trovano oggi nell’impossibilità di accedere a un alloggio sul mercato privato, seppur per ragioni che non sempre coincidono. Spesso, inoltre, a  chi fa ricerca sulla homelessness risulta evidente come il dibattito, sia pubblico sia scientifico, riguardo le due componenti di questo fenomeno (disagio abitativo e disagio sociale) sia sbilanciato a favore del disagio sociale mentre il disagio abitativo resta sullo sfondo e finisce per non considerare queste persone con un problema abitativo ma vengono considerate come di interesse esclusivo dei servizi sociali o finiscono per essere target di interventi volti a criminalizzarne le esistenze.

    Trovare soluzioni individuali a contraddizioni sistemiche

    Come sostenuto da Beck nel suo classico “La società del rischio. Verso una seconda modernità”, trovare soluzioni individuali a contraddizioni sistemiche è il compito che grava sulle spalle degli individui nella nostra società odierna. Gli studenti e le studentesse che stanno protestando dichiarano pubblicamente che viene ripetuto loro che devono arrangiarsi, che possono sempre andare a vivere fuori, nei dintorni delle grandi città. La retorica della meritocrazia viene smascherata e mostra le sue sfumature più classiste: sono i figli delle famiglie che dispongono di maggiori risorse economiche, di un capitale sociale più elevato, di rendite, a potersi permettere di studiare negli atenei prescelti. Gli altri e le altre devono effettuare scelte guidate da logiche di tipo differente. Il tema della scelta è ricorrente, la retorica del “se vuoi puoi” si infrange sulle condizioni materiali del nucleo della famiglia di origine.

    Sempre Beck, ma questa volta facciamo riferimento a “I rischi della libertà. L’individuo nell’epoca della globalizzazione”, afferma che la biografia normale si trasforma in “biografia della scelta”, in “biografia riflessiva”, in “biografia del fai da te” e che tali biografie possono degenerare molto rapidamente in “biografie del fallimento”. Ci troviamo in uno stato di pericolo permanente, reale o percepito che sia. E questa chiave analitica può essere utile per comprendere la paura di sbagliare, l’immobilismo che ne deriva, la sensazione di non poter sbagliare mai e di sentirsi colpevolizzati per la propria condizione: non abbastanza bravi da essere riusciti a mettersi al riparo, ad evitare le conseguenze negative (di fenomeni che solitamente agiscono ad un altro livello).

    Unire i puntini

    Quel che la protesta e il dibattito mediatico che ne è scaturito ci stanno mostrando è che il caro-affitti, la bolla immobiliare alimentata dal boom di affitti brevi, il business degli studentati privati, le piattaforme che offrono soluzioni abitative senza alcuna forma di regolamentazione, la gentrificazione e la turistificazione dei centri storici e non solo, concorrono congiuntamente a dar forma a delle città che sono sempre più escludenti e che lo sono per fasce di popolazione sempre più ampie. Tali fasce di popolazione, se in una fase preliminare si trovano in concorrenza tra loro – studenti come target preferito a cui affittare poiché presenta margini più redditizi rispetto all’affitto a nuclei familiari, successivamente si finisce per preferire coloro che viaggiano per piacere o per lavoro e con maggior capacità di spesa, i turisti e i “nomadi digitali” soppiantano gli studenti, e così via – alla fine finiscono per risultare tutte escluse. Contrariamente all’ideologia win-win qua perdono tutti o quasi. Quel quasi è esemplificativo del fatto che gli interessi contrapposti – seppure talvolta si vorrebbero relegati tra i retaggi del secolo scorso – esistono, eccome.

    Non si tratta di negare le differenze tra categorie analitiche cui vengono fatti corrispondere profili, target anche parecchio diversi tra loro, allo stesso tempo però è rilevante sottolineare come l’eterogeneità di traiettorie biografiche, di situazioni ed esperienze variegate, con riferimento alla privazione di abitazione, vengano incasellate in etichette e categorie che troppo spesso finiscono per cristallizzarne la processualità e per impedire di vedere i provvedimenti di blocco degli sfratti come politiche di prevenzione della homelessness, la continuità del lavoro quotidiano svolto nei centri antiviolenza con il lavoro degli sportelli dell’emergenza abitativa, la regolamentazione degli affitti a breve termine come misura che tutela e implementa la disponibilità di alloggi destinati a studenti e a lavoratrici precarie.

    Contro la retorica dell’emergenza

    La conseguenza di quanto stiamo qui analizzando è una depoliticizzazione della questione abitativa, delle sue cause, dei suoi responsabili. Non sarà la costruzione di nuovi studentati – anche nel caso in cui fossero pubblici – a risolvere, o anche solo a incidere significativamente, sulla questione abitativa. Non sarà un intervento occasionale a mettere in discussione un quadro generale altamente problematico. La presentazione della situazione come caratterizzata da caratteri di emergenzialità è funzionale, casomai, a prevedere interventi singoli e sporadici che però non intaccano assolutamente la cornice generale.

    Per di più, non è solo il diritto allo studio a essere messo in discussione: se il diritto a un abitare dignitoso non è soddisfatto ad essere in discussione sono il diritto alla salute, all’affettività, alla sicurezza personale, alla fuoriuscita dalla violenza domestica.

    Né la condizione di senza dimora, né quella degli “homeless students” è determinata dalla carenza di alloggi, anzi. La questione riguarda la mancata corrispondenza tra domanda e offerta degli alloggi disponibili sul mercato, la volontà speculativa, l’utilizzo della casa come risorsa finanziaria…In altre parole, si tratta di una questione politica. Come affermano Madden e Marcuse nel loro “In difesa della casa”, la crisi dell’housing non è il risultato di un sistema che sta crollando, ma di un sistema che funziona proprio come previsto.

    Ed è proprio quel sistema che va cambiato.

     

    Immagine di copertina: ph. Mercedes Mehling da Unsplash

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