“Non riesci a tenerli, Stefano, non restano, passa l’estate e li perdi. Questi ragazzi sembrano anche motivati, ma non resistono, non ne hanno voglia, fa rabbia, col tempo che ci dedichi a spiegare come funzionano le cose, qui in associazione. Alla fine qui siamo sempre noi, la vecchia generazione, che tiene duro”, mi dice lui, il vecchio presidente dell’associazione, con tono sconsolato.
Primi anni ’90, in Italia la leva è obbligatoria ma c’è l’obiezione al servizio militare, chi obietta ha diritto a svolgere il servizio civile, che allora ha la forma di un impegno coatto e un po’ punitivo – diversi mesi in più del servizio militare – in un ente a scelta o comandato, per occuparsi di assistenza, cura dell’ambiente, sensibilizzazione, ecc.
Faccio l’obiettore, scelgo un luogo “militante”, di controinformazione sulla salute nei luoghi di lavoro, di lotte per l’eliminazione dell’amianto e il risarcimento dei lavoratori ammalati, di aiuto ai primi ammalati di Aids. Lo guida una persona che a noi ragazzi pare un monaco, per quanto si dedica corpo e anima alla sua causa, a nessuno di noi passa per la mente di fare altrettanto nella vita, pur nell’ammirazione per quella missione.
Ma forse anche per la complicità di una scelta minoritaria, in una Milano che vede chiudere i suoi cineclub, scopro con altri una comune passione per il cinema d’autore, ci viene voglia di organizzare rassegne dei film che più amiamo. Così nel corso del servizio civile fondiamo un’associazione, raccogliamo altre adesioni e per 15 anni organizziamo rassegne di film d’autore o fuori distribuzione – passando per università, sale parrocchiale, piccoli cinema, spazi di ogni tipo – imparando a proiettare le pellicole in 35mm, a fare comunicazione, a districarci nei meandri della Siae, a tenere i rapporti con la banca. Abbiamo fra i 25 e i 30 anni, ci costa tempo, soldi, fatica, non ne abbiamo beneficio, perché lo facciamo? La chiamiamo “militanza culturale”: cresciuti nella passione del cinema e di fronte alla chiusura dei cineclub, reagiamo, rendiamo visibili alla città film altrimenti inaccessibili, vogliamo regalare quella stessa occasione di una formazione intellettuale e sentimentale che noi avevamo potuto avere da ragazzi.
Di quella mia esperienza sono scomparsi i fondamentali: la leva obbligatoria, la scelta dell’obiezione, l’orgoglio minoritario e controculturale, i film in pellicola… Ma ci sono un sacco di festival, infinitamente più film, proiezioni cinematografiche di cortile e in ogni dove, e il web in cui ritrovo ciò che allora facevamo arrivare con valigia diplomatica da paesi lontani. Qualcosa di simile ai cineclub ha riaperto in città, le associazioni culturali e di promozione sociale abbondano.
Forse l’unico vero lutto da elaborare è con quella parola, “militanza”, che non è poi così bella ed è buffa da associare ad un’esperienza nata nell’obiezione di coscienza al servizio militare: c’è un’idea di impegno, sacrificio, disciplina, precedenza della causa per cui ci si spende rispetto alle questioni personali.
L’avevamo vista in quell’uomo, e alla fine l’avevamo adottata anche noi, ma su un altro tema, perché non appartenevamo alla stagione delle lotte sindacali e delle conquiste di fabbrica. La forma però era quella: lunghe riunioni, faticose mediazioni, decisioni da elaborare in 15 o 20 persone, divisione dei compiti da rendere compatibili con studio e lavoro, problem solving, debiti con la banca e fra di noi, insomma poca poesia e molta prosa, uno sfinimento organizzativo sorretto da un idealismo condiviso ma implicito. Non era un caffè letterario, si parlava pochissimo dei film, semplicemente nella forte fiducia reciproca chi ne scopriva di interessanti lo segnalava, ne spiegava il valore e si faceva il possibile per renderli visibili.
Due dati di quell’esperienza dicono la mutazione che stava avvenendo: ad un certo punto ci accorgemmo che staccavamo lo stesso numero di biglietti, ogni sera, ma a fine anno avevamo molte più tessere, cioè cominciava allora quel fenomeno noto come la fine del “pubblico” – i fedelissimi tesserati, che tornano ad ogni proposta anche se non la conoscono, disposti a scoprire quel che proponi – e l’inizio dei pubblici, cioè tanti, ognuno con la sua passione definita – il suo genere, il suo regista, ecc. – che cerca e ritrova in sala, ma viene solo per quella, non si espone ad altro.
Il secondo elemento riguardava noi, i più giovani del gruppo si sganciarono e fondarono un festival – il Milano Film Festival – con tutt’altro spirito della nostra un po’ cupa militanza: film certamente, ma anche molte relazioni sociali, molta birra, molti sponsor, molto divertimento, insomma un festival. Due paradigmi a confronto, di cui il secondo avrebbe vinto, nel tempo: da una parte un gruppo stabile, figlio diretto di una stagione di impegno sociale e di enorme rispetto per la settima arte, con forte orgoglio di appartenenza, molto votato al suo compito, con forte spirito di servizio, dall’altra una dinamica più fluida, un gruppo più aperto, un fiume di stagisti e stagiste, tante storie d’amore, l’idea di cinema come occasione di relazione e vita comunitaria, più che passione individuale, formazione personale. Avevamo perso, o semplicemente la fine del ‘900 si annunciava anche così.
Se la trasformazione della cultura in festival è oggi fin troppo evidente, va detto che agli occhi di quel “monaco” dell’impegno sociale probabilmente già noi eravamo un tradimento: far vedere film non era volantinare, Truffaut non stava sullo stesso piano dell’amianto, e occuparsi di cinema anziché di fabbrica era proprio votarsi alla sovrastruttura, all’ideologia, avrebbe detto Marx. Ma il fatto è che ognuno ha le sue battaglie e le tue non le po’ scegliere tuo padre, questo è spesso quanto non capiscono quelli votati ad una causa che non si danno pace nel vedere che i figli e i giovani non li seguono. E tanto maggiore è il tasso di impegno e dedizione, di appartenenza e “credo” – come accade spesso nei gruppi di volontariato – tanto più probabile è quell’esito di rottura nel passaggio generazionale: un presidente accorato che racconta ad un ragazzo la storia dell’associazione da lui fondata, le sue imprese, le sue vittorie, le sue sconfitte alza un muro, non apre una porta.
Per la verità non va diversamente nel mondo delle aziende, imprese famigliari frutto del sudore dei genitori vengono vendute o rovinate dai figli, perché non potranno mai essere le loro, e dopo una vita che hai visto penare tuo padre e tua madre nella dedizione al lavoro tu non vuoi fare la stessa fine. L’ingombro dei padri è un problema enorme in questo paese, c’è un arte nel tramontare, è difficile lasciare spazio laddove si lascia il cuore ed è difficile farlo senza lasciare vuoti, cioè creare le condizioni perché i nuovi arrivati sentano e facciano loro quel posto. Continuiamo a pensare un sacco di cose secondo la proprietà transitiva – se io sono appassionato a qualcosa allora anche tu che sei mio figlio, il mio amico, il mio dipendente, il mio volontario, ecc. lo dovrai essere – e invece non funziona così.
Ma c’è dell’altro. Militanza oggi si traduce con attivismo, che forse è più bello, soprattutto se si è pacifisti, il senso mi sembra molto simile, senza perdere lo spirito combattivo, anzi, è quello di dedicarsi ad una causa, che ha una ricaduta comunitaria, che è rivolta agli altri, ad un’ideale.
C’è una dimensione politica intatta, ovvero l’urgenza di cambiare in meglio qualcosa nel mondo, e di attivisti continuano ad essercene, buon segno, vuol dire che non si è persa la speranza, che le persone continuano a sognare.
I partiti e i sindacati – culla della militanza novecentesca – se la passano molto male, sono completamente usciti dal radar dei più giovani e forse anche dei meno giovani, l’impegno volge oggi su cause civili o umanitarie ben definite, il cambiamento avvenuto è evidente, qui non è una questione di ingombro dei padri, la partecipazione si genera oggi sul fare non sul pensare e tanto meno sull’appartenere (cosa che in parte è sempre avvenuta, se si pensa a quale macchina di volontariato erano ad esempio le feste dell’Unità in Italia).
Ma quel fare deve essere ben riconoscibile, il “bene” evidente, la catena trasmissiva dal gesto personale alla ricaduta positiva sui beneficiari non troppo lunga: se pulisci il letto di un fiume o soccorri qualcuno in ambulanza (azioni volontarie piene di giovani) lo vedi il tuo effetto sul mondo, se distribuisci volantini che sensibilizzano le persone ad adottare nuovi comportamenti che…. non lo vedi più, fatichi a crederci. Per un ragazzo, oggi, il volantinaggio, simbolo della militanza di ieri, può essere solo un lavoretto retribuito.
Quel desiderio di vedere l’efficacia del proprio gesto come motivazione al volontariato odierno, ha un lato B, che i volontari non ammetteranno mai, seppur smentiti dai fatti. Il volontariato continua ad attrarre persone anche perché è un luogo di innamoramenti: quel senso di complicità, il sentirsi parte di una stessa causa, l’agire fianco a fianco a volte senza vincoli gerarchici e senza la maschera dei ruoli lavorativi, la gratitudine che si raccoglie, i giorni e le notti insieme, l’emozione di alcuni gesti sono tutti elementi che seminano molto, nel cuore delle persone. Se provassimo a contare quante coppie sono nate nelle associazioni di volontariato, oggi come ieri, saremmo sorpresi dei numeri.
Ma c’è anche un dato nuovo, che sta disorientando il mondo del volontariato e sta mettendo in crisi le “associazioni storiche”, quelle basate sull’appartenenza e sul credo condiviso. Mentre queste faticano a reclutare nuove leve, i festival e le occasioni estemporanee – quelle del volontariato di un giorno solo o poco più – attraggono tantissimo, soprattutto i più giovani, al punto che la maggior parte dei festival di cui l’Italia è piena si regge oggi sui volontari. È in questo che si vede la trasformazione più significativa del volontariato nelle nuove leve: forse per qualcuno è ancora l’occasione per dichiarare un’appartenenza, per schierarsi dando una mano, ma sempre più è diventata l’opportunità per imparare qualcosa, per misurarsi con responsabilità prelavorative, per partecipare a qualcosa di grande. È un’occasione per fare esperienza, si potrebbe dire, per una generazione che ne è stata esautorata da una vita in famiglia tutta di studio e tempo libero, e dall’esilio dal mercato del lavoro.
Se il volontariato diventa l’occasione per fare esperienza, cambia tutto: saltano le appartenenze, le adesioni morali e ideali, perché a quel punto vale la pena provare un po’ tutto; saltano le fedeltà pluriennali, i tempi lunghi, a favore delle stagioni, del mordi e fuggi, cioè di una strategie di sperimentazioni di sé per il tempo necessario a capire. Ma cambia soprattutto chi ha il pallino in mano, ed è questo che fa scandalo: se un giovane volontario arriva per provare, per tentare un’esperienza, in nuove biografie destinate a collezionarne parecchie in attesa di un lavoro stabile, sta implicitamente pattuendo un nuovo scambio. Non ti chiede di far parte del tuo ideale e in cambio offre il suo tempo e il suo aiuto, ti chiede un campo di prova, un esercizio possibile delle sue abilità e in cambio ti offre il suo tempo, per quanto gli serve a capire se gli piace, cosa che a volte si riduce a molto poco.
Insomma, il capitale simbolico dell’associazione credo oggi pesi assai meno, non penso che lo scambio avvenga su quello, se c’è ancora una forza simbolica forse sta nell’evento cui si partecipa, nell’occasione festivaliera, non in chi la organizzava. La gratificazione sta nel partecipare, non nell’appartenere, e questo cambia il gioco di potere, perché ‘il presidente’ ha oggettivamente meno influenza in chi è lì per mettersi alla prova. Elaborato questo lutto – non sono innamorati del tuo ideale – non credo che la sfida sia meno interessante: un’esperienza è tale se produce apprendimenti, se vedi dei cambiamenti in te e nel mondo, se scopri abilità, se c’è una differenza fra il prima e il dopo. In altre parole un’esperienza va accompagnata da chi con più anni alle spalle sa costruire, vedere e valorizzare queste cose, altrimenti si perde, credo il compito oggi del “presidente” sia questo.
Le vite dei ragazzi e delle ragazze di oggi hanno un enorme bisogno di fare esperienza e le organizzazioni di volontariato – assai più della scuola, dell’università, dell’azienda, della famiglia – sono i luoghi in cui possono farle, sono i loro laboratori per sviluppare abilità e capire qualcosa di sé, in un mondo estremamente disorientante. Insomma, per dirla nel linguaggio del volontariato, sono anch’essi una buona causa. È questa funzione educativa e formativa che le organizzazioni devono scoprire e coltivare: nate per dedicarsi agli altri, ora hanno in casa qualcuno di cui occuparsi, qualcuno che forse passa e va, restando anche un giorno solo, ma è importante che si accorgano di lui o di lei, si fermino a capire quale occasione offrire nel proprio ricco agire, prima di lamentarsi del fatto che domani non ci sarà più.
Immagine di copertina: ph. Vlad Tchompalov da Unsplash – Northwest Washington, Washington, United States