Un viaggio umano e teatrale come un bel romanzo. Daria Deflorian e il suo teatro

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    Si può leggere come un romanzo. Un bel romanzo di formazione, verrebbe da dire, in cui l’autrice insegue il proprio personaggio in un lungo viaggio – geografico, personale, artistico – creando una narrazione che attraversa decenni significativi di storia italiana. Oppure si potrebbe leggere come un nutrito e appassionato saggio di storia del teatro, in cui l’autrice, forte di un approccio scientifico rigoroso, ricostruisce pagine importanti della scena italiana recente. O infine si può leggere questo libro come un sincero, appassionato, commovente racconto di sé. E proprio “Qualcosa di sé” si intitola il bel libro che Rossella Menna, docente di Letteratura e filosofia del teatro all’Accademia di Brera, ha dato alle stampe di Luca Sossella Editore (che si conferma come uno dei più illuminati e illuminanti editori indipendenti italiani). E il libro ha come soggetto, oggetto e protagonista Daria Deflorian. Ve detto che Menna si era già cimentata con questa formula – che trovo estremamente interessante – in un libro dedicato a un altro protagonista del teatro italiano: Armando Punzo, fresco Leone d’oro alla Biennale di Venezia, artefice di quel miracolo umano, teatrale e politico che è la Compagnia della Fortezza, nata all’interno del Carcere di Volterra. Così, complice il percorso di immagini curato da Andrea Pizzalis, ora Menna si dedica a Daria Deflorian con immutato slancio e rigore.

    Per chi non la conoscesse, basti sapere che Deflorian è una delle grandi protagoniste della scena nazionale e internazionale, “esplosa” negli anni Duemila, imponendosi per la sua cifra interpretativa e autorale decisamente unica.

    Lei, che tutti in teatro chiamano semplicemente Daria, è una persona di umanità straordinaria, di talento assoluto, capace di convogliare anni di studio, lavoro, ricerca in un percorso di grande essenzialità e sensibilità. Un teatro solo apparentemente semplice, nudo, quotidiano: frutto anzi di passione, di ostinazione, di resistenza, di quella che un tempo si chiamava “gavetta”.

    E il corposo libro di Menna ricostruisce tutto quel percorso che ha avuto origine in un piccolo paese del Trentino, Tesero, evocando le figure dei genitori, Azalea e Ciro, poi i traumi familiari, quel “non-detto” misterioso che segna una vita comunque semplice. Daria è una bambina estroversa a scuola, che crescendo fa lavoretti per contribuire al bilancio della famiglia. La scuola è un elemento importante, ricorda Daria, con il prof di Italiano che le regala un testo di Toller, Oplà noi viviamo. Scrive Menna: «I primi anni delle superiori coincidono per Deflorian con una fase di grandi scoperte. Grazie a letture e incontri cruciali si rompe il guscio delle condizioni di partenza e comincia a farsi largo una identità culturale autonoma. Complici i professori “sessantottini”, la vivacità si evolve in ribellione, sete di conoscenza, interesse per la politica».

    E sono caratteristiche, queste, che non abbandoneranno mai Daria Deflorian. La scoperta del teatro avviene per gradi, vede i primi spettacoli (cita Pino Micol) e scopre i cineforum (con la folgorazione per Gena Rowlands). Poi il trasferimento al Dams di Bologna, nel 1978, in cui si avverte ancora l’eco delle manifestazioni dell’anno precedente. È il Dams eroico degli esordi, di Benedetto Marzullo e Giuliano Scabia, di Umberto Eco e di Renato Barilli. «Avevo deciso di fare il Dams – ricorda – perché mi piaceva una ragazza di un altro paese, mi piaceva per come era vestita, per come portava i capelli, per il fatto che lei andava e veniva da Bologna…». A un anno e mezzo dall’inizio dell’università (ma intanto lavora come postina in Trentino), si iscrive istintivamente alla scuola di Teatro di Alessandra Galante Garrone. Sul questionario, in cui si chiede se il candidato vuole fare l’attore, Deflorian scrive: «No. Non voglio fare l’attrice. Voglio fare teatro». Bellissimo e commovente messaggio cui Daria terrà fede in tutta la sua carriera. Pur essendo una grande attrice, il suo mondo creativo l’ha portata a fare teatro senza mai diventare “attrice”, ma rimanendo sempre se stessa, con immutata caparbia voglia di vivere appieno l’esperienza del palcoscenico, ma sfrondata di tutti i cascami dell’essere, appunto, “Attore” o “Attrice”, in quello che il critico Renato Palazzi ha definito “immedesimazione senza personaggio”.

    Il libro, dunque, segue passo passo questo viaggio umano e teatrale. In quegli anni bolognesi ha modo di scoprire il grande teatro di ricerca: Bob Wilson, Falso Movimento, Magazzini Criminali, Pina Bausch…

    Poi il trasferimento a Roma, con i primi laboratori per approfondire e migliorare le tecniche: come quello con Dominique De Fazio, colonna dell’Actor Studio di New York, che scopre in lei – scrive Menna – «un talento particolarmente interessante che ricorda una delle migliori qualità di Marlon Brando: la capacità di rispondere agli oggetti, di mettere in dialogo quello che avviene dentro se stessi con quello che si ha a disposizione fuori di sé». In quella Roma di metà anni Ottanta e inizi Novanta, Deflorian conosce Giorgio Podo, che diventa suo compagno di vita e di lavoro. Inizia la “sperimentazione”, la “ricerca” in quel che rimane delle storiche “cantine romane”. Vede in scena e incontra Memè Perlini, Giorgio Barberio Corsetti, Toni Servillo, Solari-Vanzi, Rem&Cap. Tutte scoperte che segneranno la giovane Daria. Tra queste, anche quella fondamentale con Marcello Sambati, con lo spazio DarkCamera, che poi approderà al teatro Furio Camillo: a lungo fucina poetica della scena romana e non solo. Daria intanto si cimenta nelle prime creazioni, riscuote un certo consenso, vince premi. Passano gli anni Novanta, tra sperimentazioni e creazioni. Lei va avanti tra le solite mille difficoltà del teatro: lavoretti, progetti, traslochi.

    E così procede la narrazione fatta con Rossella Menna: alternando ricordi lontani a scene degli spettacoli recenti, mettendo in cortocircuito folgorazioni passate e nuove scoperte, istinto e consapevolezza, vittorie e sconfitte. Scopriamo come, dunque, Deflorian intanto approfondisca lo studio della poesia; il lavoro sul corpo e gli amori letterari, come quello per Ingeborg Bachmann o, più avanti, con Annie Ernaux; lo studio della voce (con Gabriella Bartolomei). Ma non basta. Daria Deflorian è «insoddisfatta, irrequieta», eppure – e siamo all’epoca in cui l’ho conosciuta – diventa sempre più un punto di riferimento della scena underground romana. Ma l’effettivo riconoscimento arriverà nei primi anni Duemila, quando Mario Martone le propone di fare da assistente alla regia per il suo nuovo lavoro, Edipo Re, al teatro Argentina. Spettacolo memorabile, di rara forza e poeticità. Daria si deve occupare della ricerca del coro «che il regista vuole comporre con persone comuni, emarginate, senza potere, nuovi proletari immigrati. Si ritrova così a operare più per strada che in teatro, cercando non-attori da portare in scena, rom, curdi, slavi, kosovari, africani, con tuto il corollario di problemi annessi».

    Poi ci saranno altri incontri importanti, che dico in ordine sparso: quello con Fabrizio Arcuri, regista e fondatore della compagnia Accademia degli Artefatti, per un affascinante lavoro su testi di Martin Crimp e Handke, quello con la danzatrice e coreografa Alessandra Cristiani, con il regista lituano Eimuntas Nekrosius, con Fabrizio Crisafulli, Lucia Calamaro, Marco Baliani, Massimiliano Civica, con il critico Attilio Scarpellini (che diventerà suo marito) e con Antonio Tagliarini, con cui nascerà uno strettissimo sodalizio artistico, destinato ad essere vivacemente prolifico (almeno una dozzina di lavori) e durevole – quanto meno fino al 2021, anno in cui il duo si scioglie e dove termina il racconto di Rossella Menna.

    Deflorian/Tagliarini hanno composto, negli anni, un affresco arioso e unico, fatto di racconto personale e creazione drammaturgica, suggerendo uno stile, un modo di fare teatro che è al tempo stesso garbato e incisivo, lieve e struggente. Sui loro spettacoli tanto è stato scritto e detto, non serve tornarvi ora: basti dire che la paziente tessitura storico-critica di Menna dà ampio conto dei lavori.

    Mi piace, a questo punto, segnalare due aspetti curiosi del libro. Il primo è il modo in cui Daria racconta le scoperte, le agnizioni, gli incontri che hanno segnato la sua vita. Sono sempre davvero “folgorazioni”, choc, qualcosa che la travolge, la colpisce profondamente. Sono diversi i passaggi in cui l’attrice rivela di essersi messa a piangere, di essere entrata in profonda crisi, oppure ancora di essersi esaltata o devastata, per un film, per uno spettacolo, per una persona. È un modo molto bello di svelare parte di sé, il proprio punto di vista: ma Daria fa sì che noi lettori ci si immedesimi nelle sue stesse reazioni, ci fa capire quanto certe epifanie possano davvero cambiare una vita. I

    l secondo aspetto che invece voglio evidenziare è stilistico, e attiene a Rossella Menna, che per quattro o cinque volte (non sono stato a contarle) usa una espressione curiosa: “giunti a quell’altezza”, “arrivati a questa altezza” e simili. Un termine da scalatori di montagne. E in effetti, il libro è anche questo: il racconto di una scalata, di un tentativo di domare per comprendere la complessità di una donna e di una artista come Daria Deflorian, che ha influenzato e non poco (questo libro ne è la prima conferma) il teatro italiano, mettendo sempre in gioco la propria vita. Ecco allora un nuovo motivo per leggere “Qualcosa di sé”: come accade nei migliori spettacoli di Deflorian/Tagliarini, il racconto di sé diventa, infatti, racconto collettivo, condiviso e condivisibile, in cui l’io si fa, spesso, noi. Scrive Menna: «Ciò che distingue il percorso di Deflorian da quello di altri artisti della sua generazione, eticamente ed esteticamente, è infatti una inscalfibile passione per l’umano e per le sue vertigini esistenziali, una ricerca sullo stare nel presente che tenta di coniugare intelletto e calore emotivo, e che rende impossibile catalogare il suo lavoro del teatro di impegno civile (da cui pure recupera una tensione narrativa), che tra i diversi creatori di dispositivi performativi ipercontemporanei, dai quali comunque assorbe elementi utili per raffinare il proprio linguaggio d’attrice». E in quella sospensione, in quella unicità, c’è la storia, ancora aperta e in divenire, di una ragazza trentina, caparbia e curiosa, che continua a cercare teatro.

     

    Immagine di copertina: Tentativo di book fotografico, data incerta. Foto di Elena D’Agostino, dal volume di Rossella Menna, Qualcosa di Sé, Daria Deflorian e il suo teatro, Luca Sossella Editore, 2023

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