Pubblichiamo un estratto da Tecnologia della rivoluzione. Progresso e battaglie sociali dal microonde all’intelligenza artificiale, libro di Diletta Huyskes edito da Il Saggiatore editore. Ringraziamo l’autrice e l’editore per la disponibilità.
Cyborg situati
Nella fantascienza, i cyborg esistevano ancora prima che venisse inventato un nome per identificarli. Ognuno di noi ha in mente un robot umanoide, un androide della storia del cinema o della letteratura: io penso subito a Rachel, di cui l’umano Rick Deckard si innamora nel celebre romanzo Gli androidi sognano pecore elettriche? del profeta Philip K. Dick (e da cui è tratto il film Blade Runner). Altri pensano a Maria di Metropolis o al poliziotto Robocop. Ma c’è una studiosa che, ispirata da questo stesso immaginario, ha fatto del cyborg l’emblema della complessità del soggetto contemporaneo, della rivoluzione culturale nota come cyberfemminismo.
Donna Haraway ha preso in prestito il protagonista del cyberpunk per poi restituirlo con nuovi significati: Ghost in the Shell, per esempio, è ispirato proprio all’opera della filosofa. Biologa di formazione, ha sempre accostato allo studio degli organismi viventi (e non) quello della filosofia. Come testimonia Rosi Braidotti, è stata allieva del filosofo della scienza ed epistemologo Georges Canguilhem e profonda lettrice di Michel Foucault. Studiando con Canguilhem, Haraway si forma attraverso una critica del pensiero cartesiano e dei suoi dualismi, immaginando metodi alternativi per identificare l’umano e l’animale al di là delle categorie rigide imposte dal positivismo scientifico.
Nel 1980, Donna Haraway è diventata la prima docente di ruolo di teoria femminista negli Stati Uniti. Il suo celebre Manifesto cyborg è stato pubblicato per la prima volta come saggio nel 1985. Noi lo conosciamo – almeno nella sua edizione italiana – come una raccolta di tre saggi che l’autrice scrisse tra il 1985 e il 1991.
Lavorando in modo molto diverso rispetto alle autrici citate nei capitoli precedenti e ponendo il suo ragionamento più sul piano filosofico che militante, Haraway ha incoraggiato una vera e propria rivoluzione oltre il femminismo. Occupando gli spazi universitari ma anche le gallerie d’arte, attraverso la teoria cyborg ha fatto cultura proponendo nuove immagini di pensiero alle politiche socialiste dell’epoca. Così facendo, ha fatto conoscere una prospettiva femminista sulla scienza e la tecnologia a chi altrimenti non avrebbe mai scoperto questo rapporto e la sua importanza, per primo lo stesso movimento femminista. Questa è la prima grande differenza tra l’opera di Haraway e quelle delle sue contemporanee.
La seconda è la sua (in)accessibilità. Il Manifesto, l’opera che ha reso Haraway la madre del cyberfemminismo, è un testo in gran parte inaccessibile. I lettori più diversi hanno dimostrato interesse verso questo testo – che la stessa autrice descrive come «ironico mito» –pensando di trovare al suo interno idee sul rapporto tra essere umano e macchina o su come governare i robot. Molte femministe continuano a essere incuriosite dal titolo (e dai discorsi attuali sempre più permeanti sull’intelligenza artificiale) sperando in una lettura chiara e incoraggiante. Ma non si trova nulla di tutto questo (almeno apparentemente) nel testo di Haraway, che, fin dalle prime pagine, si propone come una cartografia socio-politica (ma profondamente enigmatica) del contesto attuale, per esempio l’elezione di Reagan come presidente degli Stati Uniti e il «nuovo ordine mondiale». L’obiettivo veramente audace e nuovo di Haraway, però, era epistemologico: ribaltando il nostro rapporto con la tecnologia (ma anche il ruolo che le affidiamo), la studiosa ha creato una risposta travolgente e affermativa per dare una scossa al movimento femminista e ridefinire l’etica della scienza contro la sua presunta oggettività. Lo fa, però, con continui rimandi teorici e semantici a una tradizione filosofica postmoderna complicata che si riflette in un linguaggio oscuro che lo rende difficile da approfondire per chi non lo conosce. Per questo motivo, penso sia ancora più utile provare a inserire il lavoro di Haraway in questa cartografia (seppur parziale) del femminismo tecnologico, per includere il suo enorme contributo sul genere e la tecnologia in una prospettiva di teorie più ampie e più legate tra loro di come potrebbe in apparenza sembrare. Se i cyborg harawayiani sono diventati cultura, è anche vero che lo stile così originale dell’opera li ha allontanati da un più unitario campo di ricerca, disincentivando molte persone dall’approfondire il rapporto tra genere e tecnologia.
Manifesto cyborg è l’opera che mi ha introdotta non solo al femminismo tecnologico, ma allo studio del rapporto tra tecnologia e società in generale. L’ho amato così tanto quando l’ho incontrato per la prima volta anche perché mi ricordava i romanzi di Ursula LeGuin e i saggi di Gilles Deleuze e Felix Guattari. Nessuna incoerenza: per comprendere appieno Haraway serve tornare indietro a conoscere la filosofia del divenire, che comincia ben prima di Deleuze e del femminismo. Il percorso che mi ha portata al femminismo cyborg – reso possibile anche dalle analisi di Rosi Braidotti – parte da Friedrich Nietzsche. Perché da Nietzsche, filosofo dell’affermazione gioiosa e vitale, e dalla sua idea di forze differenti partono Deleuze e Guattari per concettualizzare il desiderio. Un desiderio che spinge verso la differenza, verso il pensiero rizomatico orizzontale e multidirezionale (che si contrappone al pensiero ad albero, lineare e verticale) e dal quale è a sua volta alimentato. Grazie a questa tradizione di desoggettivizzazione e al divenire operati dagli autori di Mille piani per primi, teoriche femministe come Judith Butler hanno concettualizzato la costruzione sociale e a performatività del genere (per esempio, nel divenire‐donna).
Tra le altre, Haraway ha contribuito a immaginare come rendere questo divenire‐altro, disfacendosi non solo del genere ma di qualsiasi altra categoria binaria. Nel cyborg, infatti, Haraway ha rintracciato la peculiarità tipica di un soggetto in costante evoluzione e non ordinabile in nessuna rigida dicotomia. Né uomo né donna, né umano né animale, né eterosessuale né omosessuale, né spirito né corpo, né Sé né Altro, ma piuttosto una complessa commistione di tutti questi elementi.
Nella sua introduzione all’edizione italiana del Manifesto, Rosi Braidotti scrive che «per Haraway il cyborg è un modo di pensare la specificità senza piombare nel relativismo». Qui sta tutta la rivoluzione del cyborg: celebrare la specificità al posto della differenza, su cui invece erano ancora concentrati i movimenti femministi in Europa. Il femminismo della differenza infatti rivendicava – e lo fa tuttora – la separazione biologica e simbolica tra uomo e donna, e quindi la differenza sessuale. Ciò è reso necessario dallo storico riconoscimento del soggetto maschile come «soggetto neutro», per evidenziare invece le differenze che rendono la donna diversa e quindi non rappresentabile attraverso l’uomo, o della separazione stessa tra sesso – che rappresenta il biologico – e genere – che rappresenta il sociale (nata dalla filosofia del divenire) – e che consente a chi non è biologicamente riconosciuto come tale di identificarsi come una donna.
Il cyberfemminismo è proprio il primo tentativo profondo di superare il binarismo a livello simbolico, introducendo una raffigurazione terza, il cyborg appunto, che punta sulla diversità più che sulla differenza. Diversità perché le donne sono diverse dagli uomini ma sono anche diverse tra loro perché «non c’è nulla nell’essere “femmina” che costituisca un legame naturale tra le donne; non esiste neppure lo stato di “essere” femmina: anche questa è una categoria altamente complessa, costruita attraverso controversi discorsi sessuali e scientifici, pratiche sociali di vario genere». In questa diversità affermativa, le donne possono trovare alleanze politiche basate «sull’affinità, e non sull’identità» tra le loro esperienze e quelle di qualsiasi altro soggetto, che sia umano, animale o virtuale. Virtuale soprattutto perché unisce due diversi significati: quello che gli dava Deleuze, e cioè il potenziale, ciò che ancora non è e deve verificarsi ma che è probabile o addirittura inevitabile, e il virtuale in senso cyberfemminista, ovvero uno spazio simulato, non completamente reale, reso possibile come tale da strumenti elettronici o tecnologici.
Questa virtualità è il progetto cyborg. Haraway non vuole rivendicare la differenza, perché è la stessa che fa da base al pensiero metafisico occidentale. Le macchine, scrive, «hanno reso totalmente ambigua la differenza tra naturale e artificiale, mente e corpo, autosviluppo e progettazione esterna nonché molte altre distinzioni che si applicavano a organismi e macchine». Vuole piuttosto proporre un soggetto nuovo, femminista, che risponda alla crisi postmoderna dell’identità: una «corporalità virtuale» che apprezza la tecnologia come forza potenzialmente liberatrice dalla differenza e dalle rigide imposizioni culturali.
Il cyborg è quindi il precursore del soggetto queer, che secondo Braidotti, sempre nelle stesse righe, «autorizza modi e forme di soggettività e di desiderio che si sottraggono ai dualismi dominanti». Braidotti a sua volta ha teorizzato il soggetto nomade, concettualmente simile al cyborg, ma allo scopo di far dialogare il femminismo della differenza e quello della diversità. Gli assi di differenziazione, quelli che oggi chiameremmo «intersezioni» o stratificazioni di disuguaglianze, sono oltre al genere anche l’etnia, l’età, la classe sociale e molti altri. L’interazione tra questi assi – o forze, per dirla con Nietzsche – dà vita a soggetti unici e complessi, che Braidotti chiamerebbe «nomadi». Ma questi assi non sono rigidi né assoluti, sono interattivi.
La tecnologia, per Haraway, contribuisce a rendere tutto questo possibile e a «ricostruire i nostri corpi». Per questo decide di individuare in un soggetto altamente tecnologico il suo soggetto femminista, umanizzando il cyborg e cyborgizzando l’umano, ispirandosi sicuramente a Bruno Latour e all’idea di un’agency non umana. Haraway ha ripetuto più volte che siamo tutti diventati dei cyborg: chi usa gli occhiali da vista, chi ha protesi incorporate o assume regolarmente farmaci. La nostra essenza puramente biologica è già alterata – e migliorata – da infinite componenti impossibili da scindere.
I corpi che contano di Judith Butler, le donne cyborg di Donna Haraway, attraversano il corpo femminile per trascenderne i limiti biologici. Come quello del travestito, dello sciamano, il corpo della donna‐medusa esce così potenziato, assumendo insieme i poteri del maschio e della femmina, come fa Diamanda Galás nel suo uso amplificato e non solistico della voce (über‐voice), o Laurie Anderson, quando assume un timbro di voce maschile grazie a un altro strumento elettronico, il vocoder. Così come la performance reinventa i limiti dell’arte, questi corpi di donna appaiono mutevoli, permeabili, queer, alludendo alla possibilità di riformulare il proprio destino oltre il senso comune, producendo insoliti paradossi.
Gena Corea aveva già proposto un’immagine simile, ma con un senso estremamente negativo: quella della Mother Machine, la madre come macchina riproduttiva, individuando nella tecnologia uno strumento che favoriva l’abuso e lo sfruttamento delle donne. Le posizioni legittimamente più preoccupate dell’impatto della tecnologia e di altri interventi esterni sui corpi femminili hanno spesso avuto ricadute essenzialiste e deterministe, spaccando il femminismo in due rispetto al rapporto tra genere e tecnologia. È importante notare che il bersaglio simbolico e teorico di Haraway non era solo il positivismo storico, ma anche le politiche di sinistra in generale e alcune teorizzazioni specifiche come l’ecofemminismo. Proponendo il cyberfemminismo non voleva superare solo la rigidità scientifica inaugurata da Cartesio, ma anche il rifiuto dell’artificiale portato avanti da alcune femministe. La citazione di apertura di questo capitolo, «Meglio cyborg che dea», è proprio una provocazione diretta alla deificazione della natura a scapito di qualsiasi «intrusione» tecnologica. La filosofa statunitense si oppone così radicalmente a questa dicotomia che sostiene che il mito, e quindi il cyborg, e il mezzo, ovvero la tecnologia, si costituiscano mutualmente (come ogni altra cosa). Da ciò ne deriva che è impossibile – e a quanto pare nemmeno auspicabile – separare il soggetto contemporaneo dalla tecnologia, e per questo ogni rigida categoria perde senso d’esistere.
Haraway, come già Firestone prima di lei ma anche Sadie Plant, si collocano dall’altra parte di chi pensa sia possibile incoraggiare la tecnica e la tecnologia senza per forza accettare anche tutta la razionalità e il positivismo entro cui si sono collocate e sviluppate nel corso dei secoli. Se la cultura maschile è sempre stata raffigurata in questi termini anche grazie e attraverso la tecnologia, allora, pensa Haraway, troviamo nuove raffigurazioni materiali – e non solo ideali – che ci descrivano come esseri complessi per rendere possibile una nuova cultura della tecnologia e del nostro rapporto con essa.
Questa nuova cultura dovrebbe risolvere l’apparente distanza tra la complessità e la riduzione‐semplificazione binaria operata dal positivismo attraverso un’epistemologia femminista che metta al centro il soggetto e le sue esperienze e conoscenze situate.
Il punto di partenza descritto da Haraway non era sicuramente incoraggiante. Per esempio, fa notare che nel periodo reaganiano le femministe che si occupavano di scienza e tecnologia erano considerate come un «gruppo di interesse particolare» e non un gruppo di interesse classico. Questa classificazione mi fa ripensare ai gruppi sociali rilevanti introdotti da alcuni costruttivisti sociali, che Haraway critica duramente. Nel problematizzare una certa oggettività scientifica, si scaglia infatti innanzitutto contro gli studi sociologici sulla scienza e la tecnologia, accusandoli di cinismo nella loro critica al metodo scientifico (che sostenevano essere costruito socialmente, e quindi parziale). Aveva in mente sia gli studi di Bijker, Hughes e Pinch sia quelli di Latour, colui che considerava il laboratorio come «l’industria ferroviaria dell’epistemologia, dove i fatti possono solo correre sulle rotaie che escono dal laboratorio». Di Latour e quella tradizione Haraway non apprezzava la separazione in «teoria» e «prassi», cioè l’idea che ci fosse un ampio distacco tra ciò che gli scienziati pubblicavano sui libri e ciò che effettivamente facevano. Secondo questo costruttivismo, il problema risiede nel fatto che le scoperte scientifiche ci vengono presentate come esplorazioni lineari e oggettive della natura, quando vengono in realtà costruite attraverso moltissime fasi e scelte in laboratorio, traducendo frammenti sperimentali in piccoli tasselli di conoscenza. Latour è arrivato a teorizzare questa posizione – costitutiva dell’Actor‐Network Theory (ant) – grazie alla sua osservazione e studio della pratica scientifica direttamente nei laboratori, del ruolo della letteratura scientifica e del contesto politico e normativo nel quale tutto questo si inserisce.
Haraway, storica della scienza, sottolinea queste posizioni – esplicitando un certo nervosismo nei loro confronti – e la loro visione della scienza come un campo di forza e potere, una pratica di persuasione. Fondamentalmente, Haraway si posiziona alla stessa distanza dal relativismo costruttivista e dal positivismo dicotomico. A quest’ultimo contesta tutto quanto già visto finora, e in particolare la pretesa oggettiva della verità a partire sempre dallo stesso punto di vista, a danno delle soggettività e delle responsabilità storiche collettive. Secondo la biologa‐filosofa, il femminismo era rimasto intrappolato tra questi due poli, prima affidandosi al marxismo, che comunque predicava il dominio sulla natura e un certo universalismo, e poi rispondendo con una radicale soggettività che insisteva sulle contingenze storiche e le modalità di costruzione di ogni singolo evento o oggetto.
La soluzione invece stava nel trovare un modo per dare importanza alla specificità, all’esperienza, alla contingenza storica e politica rifiutando l’unica interpretazione standard possibile senza però ripudiare la scienza, ma anzi attraverso di essa cercando un’oggettività diversa e nuova (che tenga conto dei rapporti di potere e delle oppressioni) in grado di fornire un «migliore resoconto del mondo» che pur rimane reale e condiviso. Come si crea questo codice in grado di studiare il mondo senza ridurne le complessità?
Abbiamo bisogno del potere delle moderne teorie critiche su come significati e corpi vengono costruiti, non a scopo di negare significati e corpi, ma per costruire significati e corpi che abbiano un futuro.
Per Haraway questo è l’empirismo femminista, una terza via «più etica e politica che epistemologica» (Sandra Harding la definisce invece «scienza successiva») che pone nella visione e nei saperi situati il suo senso. La questione del punto di vista è di estrema importanza, lo snodo femminista sulla costruzione della conoscenza, perché si pone in contrasto con l’idea dell’unica interpretazione possibile del mondo, che è l’unica che ha abbastanza potere per affermarsi. Come ci siamo arrivati, a questo punto? Ad abituarci all’idea che la realtà possa essere spiegata e conosciuta da un piedistallo, dall’alto, da un’interpretazione che dovrebbe valere per tutti ed essere sentita da tutti? Ne abbiamo davvero bisogno, e in che misura, per dare un ordine al mondo? Come si conciliano i saperi situati e la statistica?
L’oggettività nuova, per Haraway, è oggettività situata che «ci permette di imparare a rispondere di quello che impariamo a saper vedere»: non esiste trascendenza universale ma per forza tante prospettive, visioni parziali, modi specifici di vedere che sta a noi comprendere attraverso la cura e l’immedesimazione. I saperi situati e parziali sono l’unico modo per arrivare a una conoscenza razionale condivisa. Anche l’immedesimazione, però, deve seguire alcuni criteri e limiti: «le posizioni dei soggiogati non sono innocenti» e bisogna sapere vedere dal basso senza ricadere in un diverso universalismo. In questa nuova oggettività, la scienza è un’alleata perché è sempre stata utopica, folle, visionaria. Addirittura, ci dice Haraway, per Harding l’evoluzione scientifica corrisponde ai momenti di rivoluzione sociale, e ciò ha senso se si interpretano le lotte come «lotte sul come vedere» (pensiamo al ruolo che viene affidato e giustificato dalla scienza nel colonialismo, nel patriarcato, negli stermini e nei conflitti), capendo che «l’unico modo per arrivare a una visione più ampia è essere in un punto particolare».
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