Sostenibilità: una parola sciamanica

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    Con questo estratto da Manifesto per la sostenibilità culturale di Monica Amari lanciamo il 2° processo di scrittura collettiva del progetto Nube di parole.

    Vogliamo riflettere insieme a voi sul significato del termine ‘Sostenibilità’, specialmente per quanto riguarda la produzione culturale.

    In uno scenario di “diritti culturali negati”, come quello appena descritto, una parola come “sostenibilità”, che fino a qualche decennio fa era quasi misconosciuta, è riuscita a dare centralità a un tema considerato per lungo tempo assolutamente marginale come “l’ambiente”, facendolo diventare occasione per ipotizzare nuovi schemi di ragionamenti, generare inedite capacità di visioni e creare un nuovo lessico.

    Al termine “sostenibilità”, che può essere considerato quasi un neologismo, nato per indicare il dovere/diritto di una comunità a preservare le condizioni necessarie per generare processi di vita, oggi si chiede quasi l’impossibile. Ormai siamo convinti che sia sufficiente pronunciare questa parola per riuscire ad attivare chissà quali capacità sciamaniche, in grado di ripararci dalle pietre delle incertezze che ci sentiamo rotolare addosso. Ritenendola simile a quelle cariatidi o a quei telamoni costretti in eterno a sorreggere i cornicioni dei templi o dei palazzi, alla sostenibilità abbiamo demandato il compito di proteggerci dalla paura di un futuro che ha smesso di apparirci radioso rivelandosi, al contrario, ricco di timori e di prospettive incerte se non addirittura così minaccioso che diventa inutile, per non dire impossibile, contrastare.

    Divertente, oltre che utile, potrebbe essere compiere una veloce indagine di ordine lessicale. Con un gioco di rimbalzi, simili a quelli della palla nel gioco dello squash, la sostenibilità trova origine nella lingua latina da una forma verbale – sustineo, sustines, sustinui, sustentum, sustinere – per poi trasformarsi nella “vulgata” italiana in un aggettivo, “sostenibile”.

    Emigrato nella lingua anglosassone, sustainable, si è trasformato in sostantivo, riuscendo a caratterizzare e a dare un nome a una rappresentazione di idee e di pratiche, sustainability, e, finalmente, compiendo il percorso a ritroso ritornare, in tempi recentissimi, nell’alveo della nostra lingua. Per questo motivo oggi, dopo questo lungo rimpallo lessicale, l’espressione “sostenibilità” può essere considerato, a giusto titolo, un anglismo.

    Alla sostenibilità è stato richiesto di assolvere un arduo compito. Affondando le proprie radici semantiche nel primigenio significato di “sorreggere”, di essere cioè in grado di sopportare sia cambiamenti di stato emotivo che di status economico, deve ricordarci attraverso l’evocazione di un generico e a volte sottinteso – ma non per questo meno imperativo – “principio di responsabilità”, quanto sia importante mantenere il “senso del limite”. Quel senso del limite che, complici le incredibili scoperte scientifiche nell’ultimo secolo, non crediamo possa più fare parte del glossario della nostra vita quotidiana a differenza delle generazioni che ci hanno preceduto.

    Per i Romani i limites o termini erano le pietre squadrate usate per indicare i confini ed erano considerate sacre, tanto che se a qualcuno fosse venuto in mente di spostarle doveva sapere che avrebbe commesso un delitto e, dunque, sarebbe stato perseguibile. Godevano, queste pietre, della protezione di Terminus, una divinità da cui peraltro prendevano il nome, l’unica ad avere il proprio luogo di culto in Campidoglio nel tempio dedicato a Iuppiter Optimus Maximus, al cui interno, sul tetto, era stata praticata un’apertura a forma circolare in modo che il “dio dei confini” sia fisici che spirituali, posto a guardia del mondo materiale e di quello spirituale, potesse estendere il proprio potere sull’Universo e ricordare che la “forza del limite” era destinata a estendersi anche nel mondo dell’iperuranio, oltre la volta celeste. E identiche aperture circolari si ritrovano sia nel consacrato, ma ancora misterioso, Pantheon a Roma sia nella nasco- sta e impervia grotta della Gurfa ad Alia, in Sicilia.

    Oggi, invece, è proprio il concetto di sostenibilità a testimoniare quanto sia importante mediare, porre un limite tra le necessità di salvaguardare l’ambiente, i diritti delle generazioni future e le esigenze del divenire che siamo avvezzi a identificare con il generico, quanto ambiguo, lemma di “sviluppo”.

    Ora non si tratta, però, di tracciare i contorni di una nuova “teofania”, quanto di continuare a narrare una storia che è iniziata nel momento in cui la comunità internazionale ha capovolto i termini della relazione tra l’uomo e la natura, tra l’uomo e l’ambiente (Conferenza di Stoccolma, Nazioni Unite, 1972). Dopo i giorni di Stoccolma, non è stata più la “natura matrigna” a essere messa sotto accusa per la violenza distruttiva e cieca con cui riesce a sopraffare qualunque espressione di vita, ma l’uomo è diventato il principale soggetto a cui imputare le responsabilità dei radicali cambiamenti climatici che mettono a rischio la qualità della vita e la sopravvivenza stessa delle specie viventi.

    Nonostante queste premesse cosi drammatiche la “sostenibilità”, però, dovrà aspettare alcuni anni prima di entrare nel lessico globale, riuscendovi il giorno in cui la comunità internazionale, dopo essersi interrogata sulla necessità di imporre nuove relazioni normative tra il mondo naturale e gli esseri umani, indica come “sostenibile” l’esempio di «uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni» (Rapporto Brundtland 1987).

    Il correlare l’ineluttabile svolgimento del divenire delle attività umane a un “principio di responsabilità” che tenga conto delle possibilità di vita delle generazioni future, altro non è che l’applicazione di quel “principio di prudenza” espresso anni prima, nel 1979, da Hans Jonas. Il filosofo tedesco suggerisce di operare «in modo tale che gli effetti della tua azione siano compatibili con la permanenza di una vita autenticamente umana sulla terra» e propone un’etica fondata sull’autolimitazione dei poteri trasformativi dell’uomo, portatori di esiti distruttivi nei confronti della natura.

    L’avere imputato all’essere umano il dovere di assumersi il principio di responsabilità nei confronti della natura può essere definito, senza paura di essere accusati di sovradimensionamenti lessicali, una svolta epocale. Appare emblematico il fatto che in concomitanza con l’apertura della conferenza sul clima di Copenaghen (7 dicembre 2009), un canale televisivo privato (Sky, canale 620) ha mandato in onda la prima puntata di un programma dal titolo “La Terra dopo l’uomo”. Data per scontata la scomparsa del genere umano non rimane che interrogarsi, a questo punto per pura curiosità, su quello che succederà dopo la catastrofe e su quali possono essere gli effetti per il pianeta. Inutile aggiungere che le immagini sono estremamente realistiche e di grande impatto emotivo.

    Solo tre parole: responsabilità, qualità, etica

    Gli scenari del presente ci costringono a constatare come l’attenzione per l’ambiente, oltre al principio di responsabilità strettamente collegato alla nozione di sostenibilità, ha fatto emergere parallelamente l’interesse per un tema come quello della “qualità”, il quale sembrava essere stato relegato in secondo piano dall’esaltazione dei processi strettamente legati a un aumento illimitato delle capacità produttive. La parola “qualità” sembra trovare la propria origine in un suono gutturale forte “q”, capace di evocare durezza e resistenza (Kallir). Insieme a una tensione alla perfezione in senso formale, la qualità sembra evocare un’attenzione alla “capacità di resistenza”, nei confronti di ciò che potrebbe provocare un deterioramento, un annullamento del presente.

    Il termine si è slargato nella sua accezione fino a comprendere, in aggiunta alle proprietà e alle caratteristiche di un prodotto o di un servizio – che per essere “di qualità” devono durare – anche l’insieme dei processi necessari alla realizzazione di quel determinato pro- dotto o servizio, che per essere qualitativamente interessanti, a loro volta, devono possedere la caratteristica di essere riproducibili. Ed è nella capacità di un processo di “essere riproducibile” che la “qualità” si correla alla “sostenibilità”, la quale trova i fondamenti del suo esistere proprio nella necessità di salvaguardare, di far durare, quelle situazioni considerate indispensabili per la ri-generazione dei processi che concernono la vita biologica.

    Ma per diventare visibile, per oggettivarsi e per essere misurata la qualità presuppone un confronto che porti a una valutazione, a cui possa essere abbinato un processo di certificazione. E se si analizza attentamente quanto è successo in questi ultimi anni non si può fare a meno di constatare come l’emergere dell’idea di sostenibilità non si è limitata a generare, oltre al principio di responsabilità, anche una indefinita attenzione per la “qualità”.

    Ha fatto molto di più, è andata oltre. È riuscita a mettere al centro di una discussione collettiva non tanto una generica “idea di qualità” ma si è concentrata in modo specifico sull’idea di “qualità di vita”, suggerendo che i processi che hanno a che fare con la quotidianità del vivere non possono essere valutati solo da indicatori quantitativi, capaci di indicare l’aspettativa media di vita o le risorse pro capite che ognuno di noi ha a disposizione.

    La percezione della centralità del tema della qualità ha stimo- lato i governi europei a cercare di individuare, con la formazione di specifiche commissioni tecniche, nuovi indicatori in grado di valutare il grado di soddisfacimento della vita di ognuno e della comunità a cui si appartiene. Negli anni in cui la sostenibilità si è conquistata un significato di rilievo nel lessico globale, qualificati centri di ricerca sociale – l’Istat, il Censis, l’Aster, Federculture – hanno iniziato a compilare, anche in Italia, classifiche tanto interessanti quanto temute dagli amministratori pubblici.

    Prendendo in considerazione parametri estremamente diversi quali il tenore di vita, i servizi offerti, il tempo libero, il grado di inquinamento, annualmente vengono stilati approfonditi rapporti che hanno il compito di indicare quale città presenta la migliore qualità di vita. E l’argomento è talmente sentito a livello divulgativo che persino Intelligent Life, il semestrale dell’Economist, ha indicato cinque indicatori – potere e influenza politica, reddito e benessere, educazione, contatti e legami economici, cultura – sulla cui, maggiore o minore, presenza viene basata la scelta dei propri lettori invitati a individuare “la capitale del mondo”.

    L’affannosa ricerca di nuovi indicatori in grado di misurare la “qualità di vita” non fa altro che confermare la presenza di un elevato grado di criticità nel rimanere all’interno di quei canoni e di quei principi che appartengono all’economia classica.

    Ormai chi può ignorare che la crescita economica, basandosi sul dominio per il controllo delle fonti energetiche, sottintende distruzione di risorse, aumento del degrado ambientale, dei rifiuti e persino del rischio di apocalisse?

    Un pensiero alternativo a quello ufficiale, capace di alimentare il terreno fertile all’interno del quale sono cresciute molte delle conoscenze attuali sul rapporto uomo-natura, si è generato nel momento in cui la crisi ambientale è diventata patrimonio comune. La “madre terra” considerata, fino a non molti decenni fa, creatura autosufficiente e “base” sicura per la vita degli esseri animati, ha avuto bisogno di reti giuridiche di protezione dei propri equilibri, seriamente minacciati dallo sviluppo distruttivo dei suoi figli (Zagrebelsky).

    Solo dopo avere scelto di ristabilire una relazione di tipo simmetrico tra l’uomo e la natura è stato possibile ascoltare nuovi voci, nuovi pensieri e si è potuto cominciare a ipotizzare un modello di sviluppo basato sui cicli di vita e su uno scambio paritetico tra ciò che si trasforma e ciò che si distrugge.

    Peraltro la prima analisi del modo con cui le persone interagiscono sul piano della reciprocità economica si trova all’interno dell’Etica Nicomachea, dove Aristotele mostra come la giustizia può essere rispettata all’interno dello scambio, il quale non deve divenire occasione per nuocere al prossimo. Questa attitudine a uno scambio simmetrico si è tramandata per secoli. Si è incrinata nel momento in cui le attività economiche sono state interpretate esaltando un’attitudine al self-interest, basandosi su una disciplina fortemente utilitaristica. Di pari passo si è accantonato un interesse per “l’etica”, ossia su come giustificare in modo razionale un sistema morale, cioè la capacità di un gruppo di persone di agire per un individuare comportamenti che non danneggino il prossimo.

    Le carte ora sembrano capovolgersi e una “nuova etica”, ossia la necessità di nuovi comportamenti, sembra emergere dall’affermarsi del concetto di sostenibilità, che facendo perno sulla salvaguardia dell’ambiente sembra aver rimesso, con prepotenza, il tema del “bene comune” al centro delle attenzioni collettive.

    Una maggiore attenzione per l’ambiente ha, infatti, offerto la possibilità di superare i limiti di una visione antropocentrica grazie alla generazione del concetto di land ethic, secondo cui occorre dilatare il campo della responsabilità collettiva del mondo umano all’intero mondo della vita, accettando il presupposto secondo cui l’etica, applicandosi a una comunità dei viventi, deve rispettarne tutti i componenti: biotici e abiotici.

    Sicuramente, nel riuscire a evocare una situazione di disequilibrio, la sostenibilità ha costretto a considerare un approccio etico, invitando l’opinione pubblica e i gestori della res publica a riflettere sulla necessità di costruire un nuovo orizzonte valoriale.

    Questo approccio, nato dalla necessità di dover individuare i fondamenti oggettivi per giudicare giusti o ingiusti, leciti o illeciti certi comportamenti che riguardano il rapporto con l’ambiente, è andata oltre fino a costringere le istituzioni a porsi il problema di ripensare un modello di sviluppo in grado di coniugare, come suggeriva un famoso ritornello di una canzone di musica leggera, “solo” tre parole: responsabilità, qualità ed etica.

    Alla luce di quanto si è appena narrato appare lecito chiedersi se è ancora possibile misurare ciò che viene definito “sviluppo” utilizzando esclusivamente indicatori di tipo monetario, pensati solo per quantificare l’aumento del Pil, il prodotto interno lordo, immaginato e costruito prendendo come riferimento un principio di crescita economica illimitata, senza considerare l’esistenza di altre ricchezze di natura sociale. Il Pil è un indicatore di attività economiche, non del benessere: prendendo in prestito un esempio utilizzato dagli economisti ci dice a che velocità girano le ruote della macchina ma non in quale direzione la macchina sta andando.

    Forse si potrebbe ripartire riflettendo sul termine stesso di “sviluppo” che non significa “produrre”, come erroneamente si può credere, ma ordinare, trattare con ordine e punto per punto un argomento. Significa togliere dal “viluppo”, da un insieme confuso quali possono essere i fili di seta e di lana o i capelli quando si intrecciano fra di loro, significa dipanare la matassa degli obiettivi del nostro futuro. Una matassa definita con il termine di “complessità”:

    Ecco allora che l’esigenza di riuscire a identificare, e a definire, l’idea di “sostenibilità culturale” la quale può essere considerata uno spin-off, una gemmazione dell’idea più generale di sostenibilità, germina all’interno di questo stato dell’arte. A livello di strategie politiche potrebbe essere presupposto e dare lo spunto per ripensare un modello di sviluppo, ossia per individuare un modo di sbrogliare la matassa, un modo di ordinare la realtà, che si basi non in modo prioritario sull’incremento dello sfruttamento delle risorse materiali, ma sull’incremento del capitale sociale, al fine di riuscire a superare il paradigma dominante, per cui il concetto di benessere della popolazione si esprime esclusivamente nell’aumento dei consumi materiali e non in quello, per esempio, dei consumi immateriali, espressi dalle pratiche culturali.

    Occorre cioè ripartire considerando altri modelli di economia che non siano fondati su quel modello prospettato dai dettami dell’economia classica che hanno portato ai disastri della crisi finanziaria attuale. È arrivato il momento di trovare “altro”.


    Pubblichiamo un estratto da Manifesto per la sostenibilità culturale (FrancoAngeli) di Monica Amari

    Immagine di copertina: ph. Kyler Trautner da Unsplash

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