Siamo tutti gattari: come e perché il gatto è stato sdoganato

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    Sono il mio intrattenimento preferito. Dal giorno in cui ho cliccato un reel di Instagram in cui un micio ciccione sbaglia l’atterraggio su una mensola tirandosi giù un panno con sopra bomboniere e sveglia e, senza colpo ferire, fra i cocci rotti e una pianta brutalizzata, alza il culo e si allontana impettito, tronfio del suo orgoglio felino, quel social s’è trasformato in una cascata interminabile di gatti che fanno cose, sono buffi, “gatti divertenti”, “gatti pazzi”, “gatti che miagolano”, come compaiono le prime tre indicizzazioni nelle ricerche di YouTube.

    Anteprima della copertina del libro in uscita, con autocelebrazione di 20/25 righe comprendente di motivi che mi hanno portato eccetera, con rigagnoli d’emozione e quindi con i ringraziamenti sentiti eccetera, tag e hashtag a profusione, 199 like; foto col mio gatto a pancia all’aria, 1 riga, 185 like. Se dovessi valutare il mio indice di gradimento social facendo un raffronto fra il quoziente di impegno e i relativi riscontri ottenuti, capite che (almeno a me) converrebbe giocare altri campionati. È indiscutibile che i gatti conquisteranno il mondo (come da titolo della seguitissima e spassosa pagina facebook), che riverberino più appeal degli umani (disumanizzati a loro volta dall’algoritmo e dalla storia recente) ai quali non resta che antropomorfizzare l’animale, ottenerne un riflesso capace di soddisfare un disperato riscatto del post-umano, un transfert psicoanalitico che lo faccia riappropriare almeno di levità e dolcezza. Trippolo, Pelosetta, Puppolo, Matta, Puzzola, Pucci, Picci, Miscia, Mascio, Trofia, sono vezzeggiativi contagiosi che in una società civile non vorremmo mai pronunciare eppure, prima o poi, con un gatto in casa, escono dalla bocca. La scienza dice che instauriamo anche così un legame, con la cadenza, il tono zuccheroso bambinesco che riconoscono, e gli fa muovere le orecchie, ci cercano, si strusciano. In una parte del pianeta in cui non si fanno più figli per una serie infinita di ragioni, i gatti diventano degli ottimi surrogati, anche perché meno costosi.

    Dati alla mano si è tutti gattari, secondo il Rapporto Assalco nel 2020 ci sono state il 15% in più di adozioni di cani e gatti, si conta che la popolazione felina nelle case italiane nel 2021 sia stata 10milioni di esemplari (15 anni fa erano 7,3), in crescita. Entusiasti sono i produttori di alimenti per animali, con i negozi dedicati che spuntano dietro a ogni rotatoria. Non si nasce gattari, ci si diventa, anche se per anni hai dichiarato apertamente la tua ostilità al felino mentre baldanzoso accompagnavi al parchetto un molosso al guinzaglio, il giorno che ti arriva in casa il gatto, attraversando improbabili interstizi del terrazzo o perché si piazza d’inverno, ululante, proprio davanti al portone del palazzo (in ogni caso devi essere cosciente che è lui a sceglierti, ma pure se vai ad adottarlo al gattile, sempre lui che ti sceglie), cambi per forza di cose prospettiva. Almeno che tu non abbia una fobia, sia un sadico o dedito a messe sataniche. Queste maledette palle di pelo in un secondo fanno sparire i pregiudizi di opportunismo, poca riconoscenza, sfiga, simbolo del diavolo che, per qualche motivo, si portano sulle spalle da secoli.

    Dicono che questa prima affezione incondizionata degli umani sia riconducibile alle caratteristiche fisiche, gli occhi grandi e rotondi o la bocca inarcata all’insù come quella di un sorriso. Un insegnante di comunicazione una volta mi disse che anche nei cartoni giapponesi gli occhi sono disegnati grandi (e non a mandorla) proprio per accrescere l’empatia dei personaggi, notizia che non ho mai verificato ma tendo a fidarmi. Con me ha funzionato, pure con soggetti discutibili come Holly e Benji. Se ci aggiungiamo la morbidezza di un orsacchiotto, la piacevolezza nell’accarezzarli, averceli sopra o abbracciarli quel poco che possono resistere a una stretta affettuosa, si capisce come si diventa rapidamente loro schiavi, gli investimenti sulle crocchette aumentano, il letto che diventa la loro cuccia o la lettiera con la sabbia del deserto Rub’al Khali. Dopo che il gatto è stato sdoganato, in pochi anni ha preso le chiavi del palazzo, e come in ogni autoritarismo la narrazione s’è fatta univoca: aiuta contro lo stress, riduce le malattie cardiovascolari, permette di allontanare la depressione, fiuta il monossido di carbonio, giova alle relazioni, aiuta a rinsaldare le fratture ossee grazie alle fusa, concilia il sonno, riduce lo sviluppo di allergie e tante altre buone qualità governative. Lo so, alcune sembrano delle cretinate, ma come sopra, tendo a fidarmi. O forse no, col cazzo che il gatto concilia il sonno, il gatto si prende il tuo sonno, ti succhia il sonno mentre ti mortifica e ti usa come cuscino, a qualsiasi ora tu decida di riposarti devi restare immobile e soffice per il suo benessere. Anche sull’allontanare le allergie ho i miei dubbi, a me è venuta con gli ultimi arrivati in casa, prima niente, avevo avuto gatti ma nessuna allergia, con ‘sti due qua piano piano ho cominciato a star male, apnea la notte, lacrimazione, starnuti, ho iniziato a prendere confidenza con Ventolin e con gli antistamici, fino all’ultima deleteria bronchite asmatica in cui il pneumologo ha emesso il verdetto: per continuare a campare, ci vogliono due condizioni: smetti di fumare e butta fuori di casa i gatti. A me quel “butta fuori” m’ha ferito profondamente, perché il vecchio chirurgo in pensione e operativo dentro il caldo e luminoso centro privato che mi fa lo sconto se pago in contanti, non ha realizzato e non ha minimamente percepito che mi stava consigliando di abbandonare per strada un pezzo della mia famiglia.

    Un’azione insopportabile da immaginare quel giorno e anche ora che lo racconto, come è inammissibile pensarli spersi, impauriti, affamati, disorientati, lontani. L’ha detto per il mio bene, certo, e questa mia rigidità sull’animale racconta di un innamoramento borghese, da salotto, ok, entrambi i casi (senza sigarette e gatti) mi sono sembrate condizioni di vita inaccettabili, così ho cambiato pneumologo e ogni giorno assumo una terapia. Capisco che, per dire, a mio nonno un discorso del genere l’avrebbe fatto bestemmiare, la sua sopravvivenza era legata al superamento della fame e qualche gatto nel piatto c’era finito per forza.

    I tempi sono altri, per fortuna, con chiunque ho parlato di questa storia mi ha detto ok, è comprensibile immolarsi ma forse sei un po’ tocco; i gattofili invece hanno approvato il mio sacrificio, consapevoli che altra via d’uscita non esiste. La gigante e crescente comunità dei gattari magari non sa che l’8 agosto è il World Cat Day mentre la Festa Nazionale del Gatto è il 17 febbraio, ma quotidianamente fa rete, si prende cura dei gatti propri, di quelli degli amici quando vanno via, delle colonie feline, dei trovatelli che si sono riparati dentro al cofano di una Panda, di quelli che si sono smarriti per i quali, foto alla mano e identikit caratteriale, organizzano task force avvistamenti e grazie al tam tam social, si individua il quartiere, si stringe il campo, vengono salvati. Un movimento coeso e solidale, ben radicato nella Penisola, che non discrimina per il colore della pelle dei proprietari, sesso, censo, istruzione o albero genealogico (l’unica barriera resta con i fasci), il gatto pur calunniato di individualismo è medium e vettore di valori collettivi, la comunità attraverso la mediazione del gatto ricostruisce le basi di un modello sociale eretto su rispetto reciproco, consociativismo, pacifismo, redistribuzione, reciproco sostegno ed equità. Il gatto è evidentemente portatore di valori rivoluzionari.

    Ci seducono i gatti, trascorro ore a guardarli, quando giocano, quando si azzuffano, quando sono seduti, sono fratello e sorella, abbandonati dalla cucciolata, rinvenuti in un orto sotto alle mie finestre, ho resistito ascoltandoli piangere due o tre ore, poi sono partito alla ricerca, sono tornato con due fagotti pulciosi dentro una scatola di cartone, erano destinati all’adozione, casa troppo piccola, dicevo, ho perso da poco l’altro, erano scuse, poi volevo cederne solo uno per ridurre l’impegno. Con la mia compagna li abbiamo svezzati con biberon e latte in polvere per settimane, la veterinaria non era certa che potessero sopravvivere, gli abbiamo dato due nomi minimi, a ribasso di fantasia e risparmio di lettere, Micia e Mao, proprio perché non ci volevamo affezionare ed eravamo pronti a sbarcarli in qualche casa (sicura); vivono con noi da 9 anni, le vacanze e certe volte perfino gli spostamenti di lavoro vengono decisi anche sulla possibilità di gestirli. Mi ritrovo perfettamente nella definizione di William Burroughs, per cui il gatto è un “compagno psichico”, circuita nelle nostre riflessioni eleganza e seraficità, con un gatto vicino è più facile mantenere il controllo, la sua penetrante ragion d’essere induce all’equilibrio, taumaturgo dell’umore, una messa a terra quando il perturbante diventa nocivo. L’inventore della tecnica del cut-up diceva di essersi riscoperto uomo-gatto, oggi diremmo semplicemente gattaro, uno status che prevede una relazione magica continuativa, nel mio caso si avvera quando in casa iniziano a circolare vibrazioni negative, Micia quindi resta immobile e fissa concentrata il vuoto o qualcosa che io non scorgo, sono i fantasmi, i miei e quelli della casa, lei li intercetta e li neutralizza e li esorcizza, un’attività che svolge spontaneamente, con solerzia e discrezione, di solito verso le 6 di pomeriggio, torna poi la quiete, lei va a sgranocchiarsi le sue crocchette e a riposarsi. I suoi occhi allora sono diversi, giuro, anche qui mi devo appoggiare alla letteratura, una strofa di Ode al gatto di Pablo Neruda mi è sempre sembrata calzante: I suoi occhi gialli/hanno lasciato una sola fessura/per gettarvi le monete della notte.

    Torno a guardare i miei reel con Mao, lui mi ha fatto notare come il culto del consumismo abbia fregato pure i suoi fratelli e sorelle, e i video già mi fanno meno ridere e più rimuginare, Mao mi ha indicato le mega strutture che gli umani hanno eretto in casa per il diletto dei loro piccoli amici (eccola l’espressione social che mai mi sarei sognato di dire, piccoli amici, ha un che di pubblicitario, di commerciale, di accondiscendenza, falso come buona parte delle relazioni fra noi umani), insomma per il diletto dei loro pasciuti e lucenti gatti del cazzo, alberi tiragraffi che arrivano fino al soffitto, tunnel di legno, sopraelevate, pedane distanziate e sbalzate che perimetrano il soffitto di un ampio soggiorno inondato di sole, provvisto di sempreverdi con fusto e piantane di design, le grandi finestre che si affacciano sulla città. Anche le immagini, mi accorgo ora, sono troppo ben fatte, due o tre angolazioni per mostrarceli così infinitamente giocosi, sono felici tanto che mi addolora di non poter offrire lo stesso standard di benessere ai miei gatti. Sempre la ricchezza ci viene sbattuta in faccia, ci fa invidia subdolamente, attraverso la bellezza e la festosità, ma poi, pure se sei il super falegname precario interinale e ti costruisci ogni suppellettile da solo, inventi un intero parco giochi dentro l’appartamento mentre ti ripieghi a dormire in un cantuccio, un po’ come la cittadella di Umbrage in Rovine, il libro di Mat Osman: chi pulisce tutta quella roba appesa? Avete presente quanti peli perdono i gatti? Come fanno quelle case a restare sempre splendenti, i parquet e i marmi immacolati?

    Ormai non mi interesso più dei gatti ma mi concentro su che tipo di scala ci vorrebbe per arrampicarmi e togliere, mettiamo a luglio, tonnellate di pelo, quando vedo il palo tiragraffi che da terra arriva al soffitto, penso a quello mio, un cactus di 60 centimetri comprato all’Eurospin, che con due mici dura esattamente tre mesi: dopo aver installato una roba del genere con 5 o 6 animali, quanto dura? E quanto costa? Ma vaffanculo. L’ozio e il gioco, caratteristiche feline, vengono imbrigliati nella prestazione, tale principio toglie al gioco ogni elemento ludico e lo trasforma ancora in lavoro, per dirla alla Byung-Chul Han che si riferisce agli esseri umani ma la speculazione sul gatto, ha in seno la componente del lavoro. Penso a queste scene geniali, un po’ ripetitive ma sempre buone, sette gatti girano per casa, ovviamente bellissimi come il contesto, da dietro una scala a chiocciola una mano tira sul parquet un cetriolo, saltano dritti come per l’esplosione di una mina antiuomo, sgommano, si pestano, fuggono via. Divertente. Ma chi cazzo le gestisce otto, dico otto, lettiere? Chi lo deve fare per lavoro, ovviamente, mi piacerebbe vedere allora come si organizzano le donne o gli uomini delle pulizie costretti a spalare ogni giorno quelle lettiere di merda, letteralmente. Scalzare mentalmente lo svago per le questioni pratiche.

    Mi sembra, ecco, che dopo esserci nutriti della loro armonia e della loro magia e averli innalzati a padroni del mondo, li stiamo infettando dei nostri stessi capricci utilitaristici.

    I gatti non sono elitari, 10mila anni fa sono stati addomesticati per difenderci dai sorci, mentre oggi sono entrati con zampe e coda nell’effimero, a loro volta neutralizzati e deformati dall’intrattenimento di classe narcisistico, intrappolati in un presente ottimizzato non sono più un affidabile, poetico strumento “psichico” ma uno dei dispositivi del successo di chi li mette in mostra; sempre nei reel troppo spesso gli umani sono funzionali e benestanti, belli come i loro animali, girano tranquillamente in città al guinzaglio. Soggiogato da questa ottimizzazione dell’animale, ho provato a farli passeggiare i miei, sembrava fattibile, con pettorina come da video ma non prima di venire uncinato e ricavarne un paio di ferite da taglio, senza allontanarmi dal mio portone, una zona poco trafficata, per fargli fare esperienza ma Mao che è un po’ tonto praticamente si è buttato giù di lato, al limite si lasciava trascinare sull’asfalto come un cadavere mentre i vicini sghignazzavano. Micia invece è una diva, pelo lungo, danza sulle punte, coda dritta che ondeggia di vanità, ha subito cominciato a esplorare il quartiere, un ciuffo d’erba, il pneumatico di un’auto parcheggiata, il fiore. Finché non è passata la furia di un bambino che correva urlante, ‘st’infame, s’è spaventata lei, ha cominciato a saltare, a schiodarsi di dosso la pettorina, è sgusciata via con una fulminea quanto raffinata manovra di escapologia che manco Houdini, s’è andata a nascondere, l’abbiamo seguita, ci abbiamo parlato con molta calma mentre bloccavamo motorini e mezzi che passavano di lì, alla fine siamo riusciti a farla rientrare. Tentativo terminato. È il mio cruccio, mi addolora che ora vivano questo isolamento, che come gli altri randagi fuori non possano sperimentare l’avventura, quando ci penso mi torna sempre in mente un film del regista greco Yorgos Lanthimos, Kinodontas, dove tre bambini vengono tenuti in ostaggio dai propri genitori, non possono uscire fuori dal recinto di casa, sono segregati e con poche possibilità di divertirsi, il mondo fuori è pericoloso, è un crescendo di assurdità degli aguzzini e dei prigionieri che ne interiorizzano le logiche, un’iperbole crudele della reclusione forzata.

    In definitiva mi immalinconisco davanti ai social per non poter offrire a Micia e Mao più possibilità, più esperienze, più tiragraffi e tunnel, crocchette extralusso, ciò che col senno capitalista si può comprare, ma soprattutto per la sofisticazione che involontariamente subiscono a causa dell’incedere senza sosta e radicale delle immagini, per cui si disperde l’immaterialità e il simbolico di questi ottimi compagni quotidiani, in favore della monolitica funzione produttiva e consumistica messa in atto dall’officina dell’apparenza. Temo che prima o poi ci verranno a noia, i gatti, passeranno di moda e pure loro diventeranno inutili. Come tutto il resto.

     

    Immagine di copertina: ph. Daria Shatova da Unsplash

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