Che cos’è, oggi, uno studioso di storia? In che cosa consiste, davvero, la ricerca storica? Sono domande alle quali dovremmo sempre essere in grado di rispondere, dando ragione di ciò che facciamo. E tuttavia, è difficile chiarire a sé stessi e agli altri che cosa davvero faccia chi si occupa di ricerca storica: fortunatamente (uso il corsivo non per caso; la ragione apparirà evidente fra poco), esistono le istituzioni, che, a volte, orientano verso obiettivi comuni la volontà dei singoli.
Tra le abilità richieste allo studioso di storia, c’è la capacità di leggere i documenti; cominciamo dunque da uno di questi oggetti:
La vita giuridica di una istituzione è segnata dal suo atto costitutivo. I regolamenti appositi seguono, ma una fondazione non può prescindere dal suo scopo. Il regio decreto del 25 novembre 1883 contiene quattro avverbi rivelatori della natura del neonato Istituto: straordinariamente, i membri dell’Istituto potranno essere convocati quando ve ne sia necessità (art. 4); l’Istituto dovrà avere sede in Roma poiché corrisponde direttamente col Ministero della pubblica istruzione (art. 3); undici membri dell’Istituto su quindici rappresentavano, singolarmente, le cinque Deputazioni e le sei Società di storia patria allora attive in Italia (art. 2); segnatamente, lo scopo dell’Istituto è quello di provvedere al coordinamento e alla concreta realizzazione di tutti quei lavori che abbiano per oggetto «la pubblicazione de’ fonti di storia nazionale» (art. 1).
L’Istituto storico italiano divenne Istituto storico italiano per il medioevo nel 1934, ma la sua missione è rimasta segnatamente quella che ho appena ricordato. Dall’Istituto sono passati studiose e studiosi che, grazie al legame diretto con il Ministero della pubblica istruzione e all’istituzione, dal 1923, di una Scuola storica nazionale, hanno contribuito in maniera più o meno straordinaria alla storiografia italiana, europea e mondiale.
Dallo stesso anno in cui venne fondata la Scuola, l’Istituto occupa alcuni ambienti dell’Oratorio dei Filippini, in un complesso che ha al suo centro la chiesa di Santa Maria in Vallicella. L’insieme di edifici racchiusi oggi tra via piazza dell’Orologio, piazza della Chiesa nuova e corso Vittorio Emanuele II è legato al nome di Francesco Borromini: dal 1637 Borromini pensò, mise in opera e lasciò al suo successore Camillo Arcucci uno spazio che è oggi, almeno in parte, dell’Istituto. Come successore dei Ministeri dei lavori pubblici, di grazia e giustizia e della pubblica istruzione, che occuparono in forze buona parte del complesso dei Filippini dal 1871, l’Istituto non è responsabile dei pesanti lavori che hanno certamente modificato l’impianto borrominiano, ma non hanno cancellato scorci come quello che segue:
Per quanto riadattato, è facile intravedere ancora l’idea di Borromini nella realizzazione delle logge, ispirata, come dichiarò egli stesso, alle invenzioni di Michelangelo per il palazzo del Campidoglio.
Già, il Campidoglio. Immaginiamo un solerte funzionario che la mattina, passeggiando per corso Vittorio Emanuele II verso l’edificio più rappresentativo del Comune di Roma, si fermi a guardare Santa Maria in Vallicella e: a) entri in una delle chiese più importanti della città per fare le sue devozioni; b) chieda di accedere al cortile degli agrumi per procurarsi quanto è necessario a combattere i malanni di stagione; c) decida, avendo alzato gli occhi, che quei locali finestrati che il Comune ha da molti decenni affittato all’Istituto debbano cambiare destinazione d’uso. E del resto, l’Archivio storico capitolino non occupa già parte del complesso e, al secondo e al terzo piano, disponga di grandi spazi restaurati nel 2006 e ancora inutilizzati? Il documento trasmesso dall’ufficio Patrimonio del Comune di Roma all’Istituto a metà novembre è granitico: ingiunge di «rilasciare bonariamente i locali, liberi da persone e cose, entro 90 giorni dal ricevimento della presente»; in caso contrario, si procederà alla «riacquisizione forzosa del bene», anche a fronte di un debito dell’Istituto nei confronti del Comune di 24.473, 88 euro.
L’Istituto e il suo presidente, Massimo Miglio, hanno risposto nel solo modo possibile. Hanno dichiarato che il documento contiene una falsità dimostrabile (falsamente è l’avverbio utilizzato) e hanno mobilitato tutti coloro che possono impedire un atto privo di senso. Una nota del 25 novembre del presidente Miglio informa di un colloquio avuto con la sindaca di Roma Virginia Raggi nella serata del giorno precedente, durante il quale la sindaca avrebbe «espresso la volontà di sospendere ogni iniziativa intrapresa dai suoi Uffici contro l’Istituto storico italiano per il Medioevo».
È già qualcosa, se non fosse per l’uso di quell’avverbio, bonariamente. In italiano, ha due significati, il primo registrato nei dizionari, il secondo imposto dalla lingua non codificata del diritto. Bonariamente può rinviare a qualcosa che avviene con bontà schietta e cordiale, con indulgenza, con ingenuità, con spirito conciliante, alla buona e senza formalità; in ambito giuridico, lo stesso avverbio può indicare una pretesa che si intende far valere senza ricorrere, in un primo momento, a metodi più formali.
Che il documento ricevuto dall’Istituto storico italiano per il Medioevo contempli il secondo uso possibile dell’avverbio è quasi certo. In quante circostanze si cerca di far valere una prassi, anche linguistica, facendo finta che essa attesti un diritto o addirittura una norma? L’assenza di comunicazione tra il Sindaco e gli Uffici non è sufficiente a spiegare uno slittamento che è rivelatore di una mentalità. O, forse, tutta la vicenda non è altro che un gigantesco equivoco.
Torniamo a metterci nei panni del nostro solerte funzionario, amante dell’arte e degli agrumi. L’aver alzato improvvisamente gli occhi verso le stanze dell’Istituto storico italiano per il medioevo può aver causato un improvviso calo di pressione e un malessere protratto per tutta la giornata. Una volta giunto in ufficio, in preda alla confusione, avviene uno scambio di pratiche; si minaccia di sfratto l’Istituto, mentre si intendeva inviare una lettera al ristorante pizzeria “Medioevo” di Rosolina, in provincia di Rovigo.
Le cose sono andate certamente così, con bontà schietta e cordiale, con indulgenza, con ingenuità, con spirito conciliante, alla buona e senza formalità. La lettera dell’ufficio Patrimonio del Comune di Roma era destinata a un ristorante e non a un Istituto storico. Probabilmente.