Scup, oltre una normalizzata efficienza

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    L’università di Warwick, nel nord dell’Inghilterra, è immersa nella verdissima campagna inglese. D’inverno le temperature rigide e l’umidità oltre il cento per cento ne costringono la vita sociale dentro palazzoni di cemento armato, con grandi vetrate che catturano le poche ore di sole a disposizione. L’aspetto è sgradevole, ma funzionale. L’intero campus si snoda per chilometri in una planimetria ondulatoria e geometrica insieme, costellata di stradine alberate e panchine e ampi prati a separare gli edifici che ospitano le facoltà, ed è, nel complesso, il tentativo mal riuscito di riprodurre una città in miniatura.

    Scup è un progetto di alternativa che si è fatto comunità. cheFare ospita una serie di articoli che ne raccontano la storia attraverso la voce dei suoi attivisti.

    Il primo edificio che si incontra durante le procedure d’accettazione è la Student Union, cioè il sindacato degli studenti. Sede di ristoranti, pub e di una discoteca, la Student Union ha una perfetta coerenza estetica con il resto, e sembra la versione sbiadita di una brochure informativa. L’arredamento dal design scadente e i colori pastello dominano un po’ ovunque, mentre l’aria posticcia del campus si trasforma al suo interno in una serie di attività ludiche che avevano come fine dichiarato l’ubriachezza molesta. Attività dionisiache, quasi, e tuttavia recintate, confinate, frammiste a bacheche in sughero affollate di volantini e segnalazioni varie.

    Fra queste, spicca la pubblicità di un gruppo di free hugs, abbracci gratuiti fra sconosciuti.

    Quando decisi di trascorrere sei mesi del mio percorso formativo universitario in Erasmus a Warwick non avevo idea di che cosa avrei trovato. Un amico di vecchia data mi aveva avvisato del suo aspetto “orribile”, ma io non mi spaventai abbastanza e partii lo stesso.

    Ci misi poco ad ambientarmi nel contesto internazionale che l’università offriva: studenti francesi, spagnoli, tedeschi, italiani, indiani, cinesi, giapponesi, americani, coreani, pakistani, qualcuno dallo Sri Lanka e dalla Grecia, persino. Era facile fare amicizia perché eravamo tutti accomunati da una cosa più forte delle rispettive barriere culturali, e cioè da una barriera culturale più grande, quella formalmente negata ma ugualmente percettibile che ci distingueva dagli inglesi. Come gli inglesi, tuttavia, eravamo proiettati verso un futuro fatto di piani di studio personalizzati e professori giovani e disponibili, la porta della stanza sempre aperta in un ricevimento perenne.

    Una grossa differenza rispetto all’università italiana, non c’era dubbio. Ci diedero subito un badge personale, che dava accesso a ogni sorta di servizio, agli sconti sui trasporti, sul cibo, sul cinema del campus e, soprattutto, alla biblioteca, enorme, maestosa.

    Anche lei decorata in colori pastello che ne volevano redimere l’aspetto architettonicamente deprimente, con la tipica moquette sul pavimento, ma con scaffali semoventi e tutto il patrimonio in consultazione libera, stampanti e fotocopiatrici a iosa, e decine di computer nuovi di zecca messi in postazioni singole comode e protette.

    Protezione è il termine che mi viene in mente a ripensare a quella biblioteca meravigliosa, e alle ore di studio che ho felicemente speso lì dentro. Era il paradiso della formazione universitaria, e nella mia mente si andava delineando un quadro che nella sua banale cornice di entusiasmo sembrava confermare ogni cliché dell’esterofilia nostrana, il mantra che “all’estero funziona tutto meglio”, che “all’estero funziona”.

    Passata la sbornia tipica delle novità esaltanti, iniziai però a notare alcuni aspetti meno evidenti, e sicuramente meno sbandierati, della vita comunitaria. Banalmente, ricominciai a notare la bruttezza assordante dell’ambiente che mi circondava.

    Anche la gentilezza degli operatori cominciò lentamente a scivolare in un formalismo burocratico, mentre le risposte sicure delle segretarie si coloravano di incomprensione, di automatismo secco e anche un po’ piccato di fronte al mio parlare imperfetto.

    L’aspetto incredibilmente pulito dei vialetti del campus mi metteva in soggezione. Percorrendoli avevo la sensazione netta che avrei dovuto continuare a seguirli ad ogni costo, perché al di fuori dei vialetti non era previsto alcun percorso, e nessuna meta era ipotizzata al di là delle loro destinazioni, cioè quegli edifici che, nella loro granitica solidità, incarnavano il fine ultimo di chi abitava quel luogo.

    Persino la Student Union, con la sua orgia programmatica del sabato sera, iniziava a sembrarmi lo sfiatatoio necessario di una pentola a pressione, la valvola di sfogo di una vita condotta sui binari dell’iperproduttività. Quell’edificio non aveva più nulla di sindacale, al punto che quando per caso incappai in una vera protesta studentesca – con tanto di megafoni e cartelli – mi trovai circondata dagli insulti che i colleghi studenti borbottavano piccati ai manifestanti, rei, con la loro rumorosa espressione di pensiero difforme, di aver interrotto il piano di perfetta e perenne efficienza in cui vivevamo. (La piccola protesta era relativa all’aumento di tasse universitarie già esorbitanti: tra le 7,000 e le 9,000 sterline annue per gli inglesi e gli europei, alle quali si va ad aggiungere un costo della vita di non facile gestione.)

    Eppure mi avevano detto che la Student Union era il segno tangibile di una grande vittoria, dato che era stata costruita negli anni Settanta sull’onda di un movimento studentesco tra i più battaglieri d’Inghilterra. All’epoca, l’università si guadagnò il titolo di Red Warwick. Anche la red square, la piazza rossa che si trova lì vicino, si dice fosse stata chiamata così in onore dell’omonima piazza moscovita – ma i mattoni in terracotta che la ricoprono potrebbero far pensare ad altre, meno ideologiche, motivazioni.

    Cominciai a chiedermi come era stato possibile arrivare a quella condizione di abulia permanente, a quella noia grossolana e sazia che ogni individuo sembrava emanare. E più me lo chiedevo, più me ne sentivo invasa, come una droga al contrario, che invece di darti dipendenza ti fa desiderare di smettere immediatamente.

    La piccola città in miniatura della Warwick University, con le sue panchine di metallo freddo e i suoi colori pastello, mi dava ormai il voltastomaco. Notai forse per la prima volta che le volanti della polizia facevano la ronda ogni quindici minuti, e fui sorpresa ma soprattutto profondamente turbata quando un giorno i poliziotti di una di quelle volanti scesero per odorare la mia sigaretta di tabacco, convinti che ci fosse “qualcos’altro”.

    L’episodio mi fece realizzare che, in quell’efficienza smaltata e securitaria, c’era qualcosa di profondamente coercitivo. Essa era il risultato non di una pianificazione illuminata, come i vialetti alberati e le panchine e i prati curati volevano suggerire, ma della normalizzazione lenta e inesorabile di ogni conflitto, ogni istanza, o semplicemente di ogni imprevisto che con il suo apparire e pretendere cittadinanza poteva turbare l’ordine costituito.

    Con buona pace degli entusiasmi esterofili, capii che la coltre formalistica e produttivistica che ammanta quest’università immersa nella verdissima campagna inglese era il prezzo da pagare perché le cose funzionassero secondo questo modello, il prezzo della cronometrica efficienza inglese.

    Con questo non voglio sconsigliare le esperienze all’estero. Un’esperienza all’estero fa sempre bene, siamo abituati a sentir dire, e io lo confermo. La mia, di esperienza, mi fece infatti realizzare alcune cose molto importanti sul mio futuro.

    Principalmente, mi fece venir voglia di tornare e restare in Italia. Ormai avevo la certezza che il modello che avevo visto dipanarsi nella flemmatica quotidianità della ridente campagna inglese fosse l’ispirazione, nemmeno troppo occulta, che aveva guidato negli ultimi anni la mano dei legislatori nostrani. La normalizzazione lenta ma inesorabile, dal retrogusto tatcheriano, che ha portato un’università battagliera e vitale a trasformarsi in una piccola fabbrica di laureati obbedienti, abituati ad essere sorvegliati a vista come criminali dalle telecamere e dalle ronde poliziesche, è qualcosa a cui le recenti riforme universitarie sembrano in qualche modo ambire.

    È questo il modello di efficienza che stiamo tentando di importare. Un modello dove le cose funzionano un po’ meglio, perché un po’ meglio funzionano davvero, ma al prezzo di cedere alcune libertà individuali e collettive, e in generale di abdicare a qualunque impulso di cambiamento. Un’efficienza interpretata come l’andare dal punto a al punto b senza deviazioni, una specie di vialetto mentale circondato da praticelli non calpestabili.

    Tornai pensando che se quello che avevo visto in Inghilterra era lo specchio del mio, del nostro futuro, avrei impiegato tutte le energie che avevo in corpo per rompere questo specchio e guadagnarmi sette anni di sfiga, contrapponendo al piano di efficientizzazione ogni ostacolo che la mia mente ancora non normalizzata potesse escogitare.

    Mi sentivo stordita, e sicuramente combattuta nel giudizio negativo sulla blasonata università straniera. Soprattutto se questo giudizio lo mettevo in relazione con quel carrozzone mastodontico e un po’ geriatrico della Sapienza, dove per stampare un foglio di prenotazione agli esami bisogna fare il giro della città universitaria e infine pagare una ditta esterna per la straordinaria opportunità di usare una stampante.

    Tuttavia, piano piano, trovai altre persone che avevano fatto la mia stessa scelta: partire, studiare all’estero, assaggiarne l’efficienza produttivistica; e dunque tornare, perché in quel modello non c’era nulla che fosse anche solo minimamente assimilabile a un reale benessere, personale e collettivo.

    La soddisfazione più grande la ebbi molti mesi dopo, durante una manifestazione gigantesca e stancante, da Vera, un’attivista del centro sociale Spartaco. Mentre camminavamo in corteo mi raccontò che era stata dieci mesi in Australia per imparare l’inglese, facendo la cameriera nei ristoranti e le pulizie negli alberghi, e da lì era partita per l’Olanda, tre anni alla Rijks University di Groninger, per una specializzazione in biologia marina. La Rijks è un’università internazionale, come Warwick, e come Warwick disegnata all’interno di una piccola città la cui economia ruota tutta attorno agli studenti. Era comoda, ogni cosa a portata di mano, eppure anche lei aveva scelto di tornare per evitare di soccombere alla morte dell’anima.

    “Le cose funzionavano… Oddio, i treni erano sempre in ritardo anche lì, però, ecco, altre cose funzionavano meglio. La tessera studentesca dava diritto a ogni tipo di sconto su tutto il territorio nazionale. Ma era noioso. Mortalmente noioso. Nessun tipo di fermento culturale. Eh, guarda, io c’ho anche provato a cercare un po’ di pepe! Avevo saputo che negli anni novanta erano stati occupati alcuni stabili, in periferia, e così sono andata a vederli. Ma quando sono entrata non ho trovato niente di più che gusci vuoti, posti dove ogni tanto si vedeva un film, ogni tanto si organizzava una cena, senza l’ombra di un collettivo politico. Come fossero disinnescati. E anche le persone, erano come disinnescate. Al campus non c’era nulla che unisse gli studenti, tranne il lavoro in laboratorio: dalle sette alle cinque durante la settimana, e poi il fine settimana tutti a fare baldoria”.

    Anche lei aveva avuto l’impressione che quel tipo di socialità fosse un po’ forzata? Non forzata, proprio finta, mi rispose lei, posticcia, imposta da orari di lavoro stressanti e da una mentalità che non concepisce il contatto umano al di fuori dei vincoli imposti dalla cordialità.

    Formale, “come la città: tutto pulito, tutto perfetto… Non sembrava abitata”.
    E forse è per questo che entrambe siamo tornate e ci siamo messe a lavorare politicamente, socialmente e culturalmente sul territorio: per non vivere in città che non sembrano abitate.

    Riconosco di essere partita da molto lontano per raccontare la storia di Scup. (Per chi non lo sapesse, Scup è un centro sociale polifunzionale autogestito di Roma, e il mio compito, in queste righe, dovrebbe essere quello di raccontare la sua storia.) Però le cose che ho detto sono una necessaria premessa alla storia di Scup, perché è quella sensazione di insofferenza al modello imposto, quel rifiuto a farsi normalizzare, quella battaglia quotidiana contro un efficientismo privo di benessere e socialità che fa scattare ogni giorno la molla di Scup e di molti altri spazi culturali della capitale.

    Qualcuno potrebbe dire che si tratta di semplice pigrizia, di ottuso provincialismo, eppure io credo che se è vero che molti partono per non tornare, perché all’estero trovano, se non proprio lavori migliori – perché spesso non ce ne sono nemmeno lì – almeno dei salari decenti paragonati ai nostri, è anche vero che molti tornano, cioè non restano, perché sono inquietati dalla forma di vita che si dà in quei paesi, da quel modello produttivo e sociale, e non vogliono che si riproduca anche qui, mentre un’alternativa è ancora possibile.

    A Roma, ad esempio, la capitale, dove come in ogni capitale del mondo si riversano “gli stanchi, i poveri, le masse infreddolite desiderose di respirare libere, i rifiuti miserabili” del neoliberismo, quel tipo di efficienza sarebbe fatale, cancellerebbe la diversità meticcia e ribollente di vita che ancora, con tutte le sue contraddizioni, continua ad animarla. Il decoro, che pare diventato la cifra di giudizio della vivibilità di una città se non addirittura della sua moralità – qualunque cosa voglia dire, non può esaurire i termini del dibattito sull’abitare dell’uomo in uno spazio urbano.

    Nel tempo, con gli altri, lavorando insieme nella costruzione di questa alternativa, ho capito che per sfuggire a quel modello e allo stesso tempo cambiare la realtà in cui viviamo c’è solo una strada, quella di fare e alimentare comunità. Ed è qui che la storia di Scup comincia davvero.

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