Salone del libro di Torino. Un successo senza critica

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    Che il trentesimo Salone del libro di Torino sarebbe stato un successo lo si mormorava – in barba ad ogni prudenza e scaramanzia – già la mattina di giovedì, che è tradizionalmente la più fiacca, l’unica durante la quale si possa girare con calma per i padiglioni, immersi nel (sempre relativo) silenzio che solo poche ore dopo sarà un vano (e quanto rimpianto) ricordo.

    Quando sono arrivato, verso le 10:30, la coda ai botteghini era già lunga, e formata non solo – forse neanche per la maggior parte – dalle consuete scolaresche (comunque assai numerose). Ho ritirato l’accredito di Nuovi Argomenti e sono entrato, deciso a passeggiare svagatamente per i corridoi e farmi una prima impressione generale, iniziando dai miei stand preferiti, che ogni anno visito per primi: quello, elegantissimo, di Aragno, coi suoi tre divani a stagliarsi sul grigio antracite delle pareti e il blu intenso delle copertine ordinatamente in mostra; poi quello, così kitsch, della Gran Loggia d’Italia, le cui colonne finto antico, a dire il vero, in tanti anni non ho mai osato varcare, preda di un timore irrazionale e infantile più che reverenziale.

    E poi gli stand di alcuni piccoli editori di cui seguo un po’ più da vicino il lavoro: NN, Manni, la neonata Terrarossa edizioni, Il Sirente. Non compro (lo faccio raramente alle fiere), ma sfoglio qualche titolo e prendo sempre il catalogo, che leggerò con cura maniacale più tardi, seduto all’aperto in una delle molte, e ottime, vinerie torinesi.

    Mentre il brusio costante cresce fino a diventare rombo, ho l’impressione di un ritorno al passato. Dovessi dire ora cosa ha di diverso questo Salone sarei in imbarazzo. Certo, non c’è il super-gruppo Mondadori, non c’è Adelphi, ma la loro assenza passa quasi inosservata. Quella di Einaudi è una assenza/presenza, visto che il “Punto” è quest’anno assai più grande che in passato; è fornito e molto frequentato. Persino io, contravvenendo alla mia regola – non comprare libri in fiera a meno che non siano introvabili, e soprattutto non comprarli la mattina perché poi dovrai camallarti una borsa pesantissima tutto il giorno – faccio la fila alla cassa con l’ultimo Mari e un paio di Meridiani che mancano alla mia collezione.

    Continuo il mio giro e parlo con alcuni amici espositori. Sono tutti sorridenti, già soddisfatti, e sono passate solo poche ore, dal numero di visitatori, e soprattutto delle vendite. Certo l’assenza del Colosso ha immediatamente garantito maggiore visibilità a tutti gli altri. Si narra, come fosse una fiaba, che Feltrinelli abbia già incassato in una mezza giornata quanto in cinque giorni a Milano, ma anche i medio-piccoli non se la stanno cavando male, tutt’altro.

    Giro ancora per gli ormai affollatissimi corridoi del Lingotto e noto il proliferare di stand di editori dai nomi improbabili; improbabili, del resto, meno dei loro cataloghi, riempiti di imitazioni della peggiore editoria di consumo, o di testi esoterici e, ad esser gentili, quanto mai fantasiosi. Pazienza, mi dico, cercando di svicolare mentre, sorridenti come venditori di aspirapolvere, alcune giovani mi invitano ad una presentazione (nello stand stesso, naturalmente) per il pomeriggio.

    Dopo poche ore sono pronto ad entrare nel vivo. Perché va bene l’atmosfera, vanno bene le vendite e i sorrisi, ma il Salone è soprattutto altro; ciò che più mi preme sono le presentazioni dei libri, i dibattiti, le occasioni di riflessione e incontro. Non mi interessa vedere o incontrare l’autore-feticcio, ma mi importa, e molto, ascoltare nuove idee e prospettive, quasi i dibattiti fossero mini-seminari di un’ora.

    Come al solito sono pronto a difendere il mio entusiasmo dagli immancabili (e affollatissimi) incontri con star più o meno televisive che poco o nulla hanno, o dovrebbero avere a che fare con un Salone del libro.

    Da Giuseppe Montesano con il suo inclassificabile (e straordinario) Lettori selvaggi fino a Richard Ford e Mathias Énard; dagli incontri-studio su Primo Levi ai laboratori di traduzione e la storia d’Italia in cento foto, gli autori e gli incontri di qualità non sono mancati. Ottima è stata anche l’idea di coinvolgere ancor più che in passato la città tutta, con un Salone Off molto valorizzato e letture dislocate in alcuni luoghi-simbolo (la mongolfiera di Borgo Dora, la Cavallerizza Reale, il Sommergibile, etc.).

    In questo cammino trionfale, ripetutamente descritto nei giornali e giustamente rivendicato da Nicola Lagioia nel suo discorso finale, c’è un elemento cruciale che mi pare nessuno abbia considerato: è stato, salvo sparute eccezioni, un Salone senza critica.

    È chiaro che non si può pretendere da una manifestazione anche popolare di trasformarsi in aula universitaria, ma perché, ad esempio, far dialogare Annie Ernaux con Daria Bignardi e non con uno studioso di letteratura francese? Ma mi spingo oltre: perché non prevedere, accanto ai concerti e gli happening, accanto agli eventi (ormai, lo sappiamo, praticamente obbligatori) dedicati al cibo, anche una sezione dedicata al dibattito critico sul libro e la letteratura?

    Perché non approfondire, invece di obliterare, quella vocazione non accademica ma ermeneutica che i precedenti saloni, se pure con timidezza, avevano mostrato? È davvero solo un problema di popolarità e di pubblico? Il Salone di Torino, con il suo prestigio e la sua popolarità, può e deve essere anche elemento trainante per un rinnovato dialogo tra autori, critici e lettori. Senza accademismi spinti, ma anche senza facili (e ormai triti) cedimenti al pop a tutti i costi. Perché, insomma, non complicare la retorica dello story-telling con l’inciampo del pensiero (critico)? Una società, non solo di lettori, si costruisce anche così.

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