«Posso toccare?», chiedo. «Tutto è fatto per essere toccato, qui», risponde Enrica Panzeri, archivista dell’Archivio Storico della Fondazione Istituto dei Ciechi di Milano. In tenebris opera solacium, recita il testo nello stemma dell’istituto, raffigurante tre lingue di fuoco che illuminano una ruota, uno spartito e un libro. Così nella giornata che trascorrerò qui toccherò come il lavoro ha illuminato le tenebre a metà Ottocento. Passerò le mani sul volto in gesso di Beethoven e sull’increspata cartina geografica dell’Italia, su cui si sono posate le mani degli alunni della scuola dei ciechi per conoscere la fisionomia del compositore da loro suonato e le traiettorie in rilievo della loro nazione. Premerò il tasto play di un registratore a nastro e ascolterò la voce di una maestra dettare a metà anni ’70 del Novecento la frase: “In assenza dell’arbitro – virgola – mi conto da solo – punto – Nove virgola dieci – puntini – maiuscolo – Sono kappa o.”. Sorvolerò con i polpastrelli le pagine del volume 1 del romanzo “Luce nelle tenebre” di Hellen Keller, scrittrice e prima persona sordocieca a conseguire una laurea in lettere; decifrerà per me la scrittura braille Ettore Bianchetti, alunno della scuola dal 1961 al 1972. Seguendo l’incedere della dita sul foglio leggerà: “Fuori il caldo era opprimente. I cani dormivano all’ombra del muro e le galline che avevano l’abitudine di scappare chiocciolando davanti agli abitanti della fattoria, rimanevano invisibili”.
LA STORIA MAESTRA
Rodolfo Masto, presidente della fondazione, mi racconta l’importanza di rendere visibile questo archivio: «Ho sempre creduto che la Storia fosse maestra. Le persone devono conoscere, per riconoscersi in una causa. Come si è posta Milano nel tempo rispetto ai bisogni dei più fragili? Alla fine del 1800 la città si è allineata ad un pensiero che definiremmo mitteleuropeo, che correva dalla Francia all’Austria: ovvero la possibilità di acculturare i ciechi. Da quell’epoca provengono racconti di bambini che dicevano di vivere nei pollai, nei sottoscala, tenuti nascosti perché era diffusa la credenza che un figlio con handicap voleva dire che il Signore ti aveva punito perché eri stato cattivo. Attingere alle radici culturali, riprendere pezzi di storia vuol dire aiutare a superare uno stereotipo che ancora c’è, anche se oggi i non vedenti raggiungono i più alti gradi delle università. Conserviamo una vecchia fotografia dell’istituto, circondato solo da orti. Ci troviamo in via Vivaio ed ecco, io penso che dai vivai agricoli sia spuntato nei confronti di queste persone, fino ad allora ignorate, il fiore della cultura». Uno dei documenti più antichi conservati in archivio è del 1845, a firma di Michele Barozzi, ragioniere, già direttore delle Pie Case d’Industria e di Ricovero, e fondatore dell’istituto. Titolo: “Relazione dettagliata della sua fondazione, del suo sistema disciplinare ed amministrativo, de’ metodi d’istruzione e del loro risultato”. Si legge: “L’Istituto ha per iscopo principalissimo di riparare in parte ai torti della natura coll’istruire e onorare i ciechi dando loro l’idea, la più possibilmente estesa del creato e far loro amare il Creatore; di toglierli all’inazione ed alla degradante oziosità cui sono generalmente obbligati, ammaestrabili in tutto ciò che può renderli attivi ed utili a se stessi ed agli altri”. Sempre quell’anno, Bianca Milesi Mojon, benefattrice in avanscoperta a Parigi per conto dell’istituto, cominciava così una lettera: “Mio caro signor Barozzi, già da più giorni avevo avuto la visita di Messier Foucault ma solo ieri potei dargli l’appuntamento ove abita e dove ho veduto l’ordigno veramente mirabile del quale le unisco il prodotto. Monsignor Focault fu il primo a dire che è disposto a dare delle istruzioni a chi volesse imitare i suoi ordigni. Io mi sono astenuta dal dirgli che ella ne possedeva già uno copiato, sebbene fossi certa che egli non l’avrebbe presa quanto a male; è un esemplare alfabeto convenzionale mediante i quali i ciechi comunicano fra loro con somma destrezza e che impiegano nei loro studi per scrivere e fare la musica, per far loro le note, per copiarsi i pezzi di letteratura. Ho visitato ieri un’allieva dell’istituto, la quale è poetessa e ha una libretto che ella stessa si è fatta copiando gli autori a lei più cari, con questa specie di scrittura stenografica”.
VISITA GUIDATA DA ETTORE
Mentre visito quello che era il salone dei concerti, dove avevano luogo le dimostrazioni al pubblico borghese e benefattore del talento musicale degli allievi – ma anche del talento nell’intrecciare cestini di vimini – sento un vociare di bambini provenire dall’esterno. Così vuoto e spaziale ora il salone che fu luogo di esibizioni, e testimone ne è l’organo a canne che domina una parete, così pieno e movimentato il cortile in cui le voci giocano. Scopro che sono degli alunni della Scuola Media Statale per Ciechi qui attigua, dove in realtà ci sono allievi non vedenti ma anche vedenti e con altre disabilità. Li intravedo dalle finestre; attraverso le tende spesse sono ombre, macchie, che scompaiono al suono della campanella di fine ricreazione, lasciandoci in un silenzio irreale. Fino al 1977 questa scuola era destinata esclusivamente ad alunni con disabilità, poi la legge 517 del 4 agosto di quell’anno abolì le classi differenziali. Anche il parquet sul quale cammino è d’archivio. Percorrendolo infatti, il rumore dei passi, del peso del piede che s’imprime sul legno quasi affondandoci, si tramuta in segnaletica sonora il cui riverbero diceva, e ancora oggi dice, dove siamo, dove andiamo e che siamo. Ci dice che esistiamo nello spazio e produciamo suoni. «Ti porto nel corridoio musicale», dice l’ex allievo Ettore Bianchetti, «qui c’era la sezione femminile. In ogni aula c’era un pianoforte e ogni pianoforte suonava la sua melodia, quando lo percorrevi si sentiva un gran casino. Sulla sinistra ora dovrebbe esserci una porta – spiega mentre proseguiamo – dietro questa porta c’è una scalinata con un corrimano dell’Ottocento su cui ci mettevamo a cavallo e scivolavamo». Parla poi di una terrazza che loro maschi erano soliti scavalcare per accedere alla sezione femminile, «una volta uno cadde, per fortuna atterrò sulla grondaia». Mi indica il cimitero degli strumenti, un antro dove allo sciogliersi della banda musicale vennero stipate arpe, pianoforti, trombe e tromboni. Per il nostro incontro ha redatto quattro biografie di suoi compagni d’istituto, il capitolo 8 della biografia di Troncatti Martino è dedicato al gioco della tolla che “consisteva il più delle volte nel recuperare una lattina di medie dimensioni e riempirla fino all’orlo di sassi in modo da appesantirla per non farla sollevare dal suolo. Gli si infliggevano quattro sonore martellate per appiattirla e darle una forma rotonda un po’ bombata, e poi si prendeva a calci come un pallone”. Di sé invece racconta: «Nato cieco per cataratta congenita e glaucoma, abitavo a Brescia. Mia madre non volle venire quel giorno. Avevo sei anni, mio padre mi portò qui, “Ettore vado a fare pipì poi vengo”. Sparito. Per fortuna ha avuto il coraggio di farlo. Perché altrimenti l’istruzione, la cultura, dove sarebbero ora? “Quando capitava di uscire dall’istituto per una gita o per giornate ricreative, sembrava a noi di entrare in un altro mondo”, scrive in uno dei testi che ha preparato per raccontarsi. «Sì – commenta – perché il pericolo era quando tornavi a casa per le vacanze. Uscito dal collegio mi venne una gran malinconia, inizialmente facevo delle gran camminate da solo per il paese». Poi prese impiego come centralinista per una compagnia aerea.
FOTO DI GRUPPI
Fra le 1983 fotografie finora catalogate, «ma ce ne sono di più» sottolinea Melissa Tondi, , conservatore museale dell’Istituto, c’è una serie riguardante la scuola professionale di centralinisti che qui aveva sede. «Molti non vedenti – spiega Melissa Tondi – oggi lavorano per esempio nei call-center di alcune assicurazioni. Se hai l’auto in panne, se hai fatto un incidente, è proprio un non vedente a prestarti il primo soccorso». “Dove gli occhi dei chiaroveggenti trovano una differenza dei colori, le dita dei ciechi trovano spesso una differenza di levigatura o di scabrosità”, informa uno dei programmi delle materie di studio della scuola, fra cui appunto lo studio dei colori e il riconoscerli a partire dalla consistenza dei coloranti lasciata sul tessuto. Fra le materie di studio della scuola di massinokinesiterapia per giovani ciechi c’erano invece “la rieducazione motoria dei poliomielitici e dei discinetici, nonché nozioni di neurologia e di fisioterapia”. In un depliant dell’Unione Italiana Ciechi, conservato tra i faldoni delle foto, si precisa che “quando i nostri giovani escono dall’Istituto con una certa cultura e una preparazione professionale o lavorativa, non si è che all’inizio”. Nella pagina successiva c’è la foto di un “massaggiatore cieco presso l’Ospedale Maggiore di Milano”: l’uomo è in piedi, indossa un camice bianco e porta spessi occhiali neri, davanti a lui è seduto un adolescente che guarda davanti a sé e ha l’avambraccio destro infilato in una pressa di ferro meccanica; i legacci si stringono attorno ad un cuscinetto protettivo che fascia l’avambraccio del ragazzo. L’uomo gira la manovella della pressa, le vene della sua mano sembrano anche queste molle ferree, in trazione costante, più muscolature che vene. Dai faldoni riemergono altre immagini: esercitazioni ginniche per forgiare la postura, i velocisti ciechi Giovanni Vercellini e Alfredo Vecchi al loro arrivo al traguardo del Giro d’Italia a piedi, nel 1930. A fil di matita, sotto una foto, c’è segnata la didascalia mutilatino cieco: un trombettista con una protesi nera in luogo della mano sinistra è intento a suonare per il ritrattista. Poi c’è un’immagine, che non vedo ma che mi dipingono raccontandomela: ogni 1° novembre, nel giorno dei morti, da quarant’anni, il fioraio dell’istituto depone omaggi floreali sulle tombe di tutti i benefattori al Cimitero Monumentale di Milano. In archivio sono confluiti anche tutti i loro testamenti, comprendenti documenti e ricordi, foto di case e oggetti di proprietà, un memoriale alle loro vite.
Ci sono cose a fine giornata che non ho toccato: gli organi interni di un modello anatomico, alcuni animali della savana imbalsamati, un fiore di plastica, una piccola gru; riproduzioni in miniatura delle realtà del mondo, protette dalle vetrine lungo il corridoio che mi riporta verso l’uscita. Ho inserito però un indice nell’Opticon, un marchingegno in voga negli anni ’80, dotato di una piccola telecamera che, passata sopra un foglio, è capace di leggere e tramutare le lettere in impulsi elettrici diretti al polpastrello, e le cui vibrazioni corrispondono alle lettere braille. «Nella persona che non vede non c’è la dimensione – conclude Ettore – perché potresti ingrandire o diminuire secondo la tua fantasia i palazzi e le cose: è quella che io chiamo la terza dimensione».
Questo articolo fa parte del percorso editoriale per raccontare Archivio Meraviglioso, un progetto creato in collaborazione con Wikimedia e con il supporto di Fondazione Cariplo per la costruzione di una piattaforma collaborativa per la digitalizzazione e la divulgazione dell’archivio dell’Istituto dei Ciechi di Milano.