Oltre le parole di plastica, cosa significa Partecipazione?

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    Nel rincorrersi costante tra comunicazione sui media vecchi e nuovi, senso comune e chiacchiere di ogni giorno, politiche top-down e pratiche bottom-up, negli ultimi anni si sono costruiti vasti campi per la coltivazione di quelle che possiamo definire parole-ombrello; o, se preferite, slogan, buzzword o plastik-worten. Si tratta di quei termini all’interno dei quali vengono fatti ricadere concetti e pratiche distantissimi tra loro, che agiscono per suggestione, accumulando confusamente significati contigui che nella mente dei singoli, delle organizzazioni e delle istituzioni rimandano tuttavia a cose molto diverse. Tra le parole ombrello che ci si trova spesso a maneggiare, ce ne sono alcune particolarmente popolari, come ‘innovazione’, ‘smart’, ‘resilienza’ o ‘comunità’.

    L’indeterminatezza nella quale prosperano genera perdita di potere e di efficacia per chi opera all’interno delle piattaforme – politiche, territoriali, produttive – che le adottano. Per non dover costantemente accordarsi sul loro significato, si finisce per metterle da parte sperando che l’ambiguità non si trasformi in un problema. Cosa che – puntualmente – avviene. Per questo, quando le incontriamo è necessario mettere in atto processi che aiutino a situarle: traducendole, smitizzandole, articolandole e mostrandone le contraddizioni interne e di sistema. Non si tratta di giochi definitori ma di pratiche di soggettivazione indispensabili per costruire posizionamenti, traiettorie e strategie.

    In questo testo ricostruirò un percorso di questo tipo che abbiamo condotto nel 2020 con cheFare nella prima tappa de laGuida1laGuida è il festival dei nuovi centri culturali di cheFare. La prima tappa si è tenuta tra giugno e ottobre 2020 con i nuovi centri culturali e i policy maker di Liguria, Piemonte e Valle d’Aosta. La riflessione portata avanti con i 67 nuovi centri culturali, le decine di partner culturali e di rete, i sostenitori Compagnia di San Paolo e Fondazione Unipolis è stata centrata sulle forme di accesso, partecipazione e collaborazione dei quali i nuovi centri culturali possono essere protagonisti nelle politiche territoriali.. Il nostro obiettivo era assolutamente pratico: costruire vocabolari comuni tra soggetti che operano sulle stesse piattaforme progettuali e territoriali arrivando però da esperienze, valori e visioni diversi. Ed abbiamo scelto di farlo a partire da una parola-ombrello in gran voga, partecipazione, e da un suo termine ancillare, collaborazione.

    Pochi miti contemporanei – infatti – godono di buona salute quanto quello della partecipazione. Costantemente invocata come tecnica, metodo o obiettivo della politica e della cultura contemporanee, la partecipazione è un esempio perfetto di categoria ombrello. Perché con partecipazione intendiamo cose molto distanti. Come il prendere parte a una qualsiasi attività tramite presenza, adesione, interessamento. Ma anche la presenza nel cast di un film di un attore noto. Oppure, l’intervento dei cittadini nel funzionamento degli organi di governo mediante l’esercizio di diritti definiti. Con partecipazione si intende la presenza dei fedeli alle celebrazioni liturgiche ma anche il concorrere alle attività di un’azienda, formandone il capitale e spartendone gli utili. Partecipazione è, infine, il sentimento di vicinanza che ci porta a condividere gioie e pene di altri, come nel caso di un matrimonio o di funerale.

    Tutte queste forme hanno, in ogni modo, una connotazione positiva che ha a che fare con la simpatia, con l’empatia e con la comunanza; con l’idea di una remunerazione e di guadagno; con l’essere protagonisti in qualche forma di un’attività democratica. Così come positive sono le connotazioni che diamo al termine collaborazione, il quale rimanda a uno sforzo collettivo nella produzione di opere materiali e immateriali; nel perseguimento di un bene superiore; nella formalizzazione tra più parti di un rapporto di lavoro.

    Ed è giusto che sia così. Alla crescita esponenziale della complessità delle sfide che ci si presentano oggi – dal cambiamento climatico alla pandemia, dalle nuove disuguaglianze alle migrazioni globali – abbiamo bisogno di rispondere trovando il meglio nelle forme di partecipazione e collaborazione che le nuove piattaforme possono offrirci. Per farlo, è importante imparare a scavare.

    Tre idee di partecipazione

    In anni recenti, uno dei contributi probabilmente più interessanti per aprire la ‘scatola nera della partecipazione’ è stato quello del massmediologo Nico Carpentier. Dopo aver svolto per anni ricerche su media alternativi, partecipativi e social network, Carpentier ha pubblicato nel 2016 l’articolo Differentiating between access, interaction and participation2N. Carpentier, Differentiating between access, interaction and participation, «Conjunctions. Transdisciplinary Journal of Cultural Participation», 2(2), 7-28 (2016). nel quale identifica tre tipologie di pratiche diverse che vengono solitamente confuse tra loro.

    La prima ha a che fare con l’accesso, un tema chiave degli ultimi decenni. Ragionando in termini di accesso, le prime immagini mentali alle quali si attinge provengono dalla geografia e dalla topologia: accesso quindi allo spazio fisico, in qualche modo preliminare ad ogni altra forma. I Disabilty Studies attraversano questa prima connotazione, ampliandola con sguardi che provengono da altre discipline verso una concezione più ampia che implica la possibilità di accedere a determinate forme di relazioni e di spazio per persone con diversa abilità. Un ulteriore sviluppo di accesso ha – ovviamente – a che fare con il digital divide e con la riduzione degli ostacoli di ordine sociale, culturale ed economico verso determinati media, tecnologie, contenuti e saperi.

    Una seconda idea di partecipazione ha a che fare con l’interazione, intesa sia in senso filosofico, che ingegneristico. Implica il dare per scontato che due elementi X e Y interagiscono se ognuno agisce sull’altro, in un universo causale in cui ogni entità potenzialmente agisce ed è agita da altre. Da qui deriva la concezione di interazione come ogni incontro sociale tra individui e, per estensione, la reciproca influenza tra esseri umani.

    Una terza accezione di partecipazione, che potremmo definire ‘propria’, ha a che fare con la dimensione politica. Proprio per questo, porta con sé un’ambiguità di fondo che riconduce alla dicotomia mai risolta tra due visioni possibili della democrazia. Nella concezione minimalista, la partecipazione è ineluttabilmente subordinata al processo deliberativo e a quello di rappresentanza. In quella massimalista, al contrario, non può esserci rappresentanza senza partecipazione diretta.

    Per Carpentier, quindi, per parlare di partecipazione è indispensabile situarsi in una precisa idea di gestione del potere. La differenza tra il ruolo del potere nell’accesso e nell’interazione (da un lato), e nella partecipazione (dall’altro), sta nell’enfasi nella costruzione di uguaglianza nelle posizioni di potere tra attori privilegiati e non privilegiati nei processi di decisione e sulla messa in atto di specifiche azioni e strategie mirate alla riduzione della disuguaglianza.

    Da questo punto di vista, è cruciale comprendere a che tipo di partecipazione pensiamo in relazione a processi, reti, piattaforme, forme di attivazione specifiche. Così come è cruciale chiedersi ‘quanto potere sono disposto a cedere’? O, ancora più precisamente, ‘quante e quali risorse – economiche, sociali, culturali, simboliche – sono disposto a mettere in gioco per ridurre le disuguaglianze di potere tra i soggetti che prendono parte’?

    Cinque forme di collaborazione

    Richard Sennett è uno degli intellettuali più rilevanti degli ultimi decenni; la sua ricerca si è occupata costantemente di come gli esseri umani costruiscano collaborazione e partecipazione nelle città e nell’organizzazione del lavoro, con un’attenzione particolare alle forme della politica ed agli aspetti culturali. Nel suo libro del 2012 Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione3R. Sennett, Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, Feltrinelli, Milano 2012., il sociologo statunitense ha costruito un possibile continuum di idealtipi di scambi tra individui che può insegnarci molto su come pensiamo la partecipazione.

    A un estremo si trova quello che è definito come «scambio altruistico», messo in atto senza che ci si aspetti nessuna contropartita. È la forma del dono puro – o scambio di clausurarealizzato per gli altri ma estraneo ai loro giudizi e facente riferimento, piuttosto, al giudizio di un sé interiore o di un’entità superiore. Lo scambio altruistico perciò è orientato a mettere in atto ‘azioni buone’ in quanto tali.

    Accanto troviamo lo «scambio simmetrico» di un ‘buon affare’, che possiamo immaginare come una compravendita in un negozio dell’usato nella quale entrambe le parti partecipano con la convinzione di star guadagnando. È la condizione che nella teoria dei giochi viene definita winwin, dove si armonizzano elementi competitivi e collaborativi. Allo stesso tempo, questo scambio è anche caratterizzato da un equilibrio tra dimensione formale e informale, tra implicito ed esplicito. Ciò non implica in nessun modo una trasformazione delle posizioni iniziali delle parti: una volta conclusa con soddisfazione la transazione, ognuna delle due parti tornerà alla propria zona di comfort iniziale. E non ci dice nulla, ovviamente, sulla sua reale equità.

    Lo «scambio differenziante» è una terza tipologia, simile alla precedente ma basata su una chiara presa di coscienza delle differenze dei soggetti coinvolti: implica una riflessione sulla natura dell’identità propria e altrui, sui ruoli e sul proprio modo di pensare. Ha a che fare quindi con forme di comunicazione dialogica nelle quali si ritorna su alcuni elementi per interrogare sé stessi e l’altro su cosa è possibile cedere o meno, in trattativa costante. In altri termini, nello scambio differenziante si mette in atto un’incessante discussione dei confini attivi, costruendo un’esperienza di scambio che può mitigare la competizione a favore della collaborazione. Si tratta dello scambio messo in atto nei caffè dell’Ottocento, frequentati da intellettuali e scrittori, ma anche imprenditori, attivisti politici, sociali e religiosi. Luoghi nei quali il tempo era impegnato nella ritualizzazione continua della negoziazione di opinioni e idee e dai quali, idealmente, ogni volta si tornava leggermente trasformati.

    Lo «scambio a somma zero» ci è familiare fin da bambini perché implica regole chiare, confini inamovibili e soprattutto vincitori e perdenti inequivocabili. È lo scambio di nascondino e di un-due-tre-stella ma anche quello del mors tua vita mea, nel quale il guadagno – o il successo – di uno corrisponde anche alla perdita – o al fallimento – dell’altro. Ciò che però spesso consideriamo come somma zero – ci invita tuttavia a considerare Sennett – molto raramente lo è in modo perfetto: esistono quasi sempre altri tipi di risorse, capitali, ricchezze che vengono messi sul tavolo, scambiati, discussi o rielaborati dai partecipanti al gioco. In questo contesto, la competizione si costituisce anche simbolicamente e le convenzioni possono comunque essere ri-negoziate dai partecipanti.

    L’«asso pigliatutto» si pone all’esatto opposto dello scambio altruistico. È la forma più vicina alla logica della guerra totale, dove un soggetto riesce ad eliminare tutti gli altri concorrenti. Ogni connessione economica, sociale e culturale tra le parti è interrotta. Il predatore apicale è quello che detta legge e che virtualmente distrugge tutto e tutti.

    Il continuum degli scambi di Sennett è utile perché pone alcune domande precise a chi vuole costruire piattaforme e percorsi di partecipazione. Quali forme di scambio si vogliono attuare, e in quali momenti diversi? Quali sono gli impliciti che vogliamo che rimangano tali e quali invece vogliamo esplicitare? Quali spazi lasciamo per l’informalità – per la negoziazione, per la ridefinizione dei confini, per i rituali emergenti – tra le pieghe dell’ossessione contemporanea per l’iper-progettazione?

    Cultura, rituali ed estetiche

    Dalla lettura di Sennett emerge chiaramente che quando si parla di forme di collaborazione e partecipazione non possiamo fare a meno di guardare agli spazi simbolici e rituali – e quindi culturali – nelle quale queste avvengono. E non è un caso che proprio in ambito culturale il ricorso a forme partecipative ha avuto negli ultimi anni un successo senza precedenti. Questo è vero sia per quello che riguarda gli aspetti del management culturale – che ha sviluppato strumenti raffinati di audience engagement e audience development, mutuandoli da discipline come il marketing e la comunicazione, per stabilire relazioni inedite con i pubblici – che quelli legati a metodi, tecniche, estetiche ed obiettivi delle pratiche artistiche – come testimoniano il costante proliferare di progetti di arte partecipativa e il successo avuto anche presso pubblici non specialistici della Biennale di Venezia del 2017 Viva Arte Viva, incentrata proprio sulle forme sociali, collettive e comunitarie. Si tratta di tendenze di indubbia natura progressista, che mirano all’ampliamento della base di fruitori della cultura, ad una sua democraticizzazione e alla lotta di quello che potremmo definire ‘effetto Le vacanze intelligenti4Nel film omonimo del 1978, i figli di un’anziana coppia di fruttaioli romani – interpretati da Augusta Longhi e Alberto Sordi – organizzano per i genitori una vacanza culturale attraverso l’Italia che culminava proprio in una visita alla Biennale di Venezia. Una Biennale popolata da opere criptiche – neoastrattiste, iperrealiste, concettuali – impossibili da decodificare per i popolani. Gli equivoci surreali che ne derivano evidenziano, da un lato, la frattura che si è costruita in quegli anni tra generazioni che hanno avuto accesso a percorsi formativi diversissimi e, dall’altro, la distanza tra la cultura d’élite e quella popolare..

    Sebastian Diaz Morales, Suspension, 2014, Video HD, 14’40”

    La grande enfasi sulle cosiddette social practices nell’arte e nella cultura, tuttavia, possono portare con sé contraddizioni e corto-circuiti che rischiano di ottenere effetti anche contrari a quelli auspicati.

    Nel suo libro Lo spettatore emancipato5J. Rancière, Lo spettatore emancipato, DeriveApprodi, Roma 2018., pubblicato in Italia nel 2018, il filosofo francese Jacques Rancière si interroga a fondo su cosa voglia dire veramente coinvolgere lo spettatore. Lo fa ricostruendo un percorso che, a partire dall’inizio del Novecento, ha attualizzato il pensiero legato al Mito della caverna di Platone: se chi è incatenato nella caverna guarda uno schermo nel quale vengono proiettate immagini confuse del mondo esterno, l’obiettivo del filosofo – e per estensione dell’intellettuale e della persona di cultura – è intraprendere un percorso di emancipazione, liberandosi delle catene e uscendo dalla caverna. In due modi diversi e complementari, sostiene Rancière, è da questa posizione che si sono mossi sia Brecht che Artaud.

    Per il primo, l’emancipazione consisteva nel mettere lo spettatore di fronte a un dilemma di ordine etico e politico, obbligando a scegliere e prendendo parte (partecipando, per l’appunto) per quello che è giusto e contro quello che è sbagliato. Per Artaud, invece, nel teatro era necessario abbattere il confine tra il pubblico e quello che succedeva sopra il palco, rimescolando ruoli e confini.

    Riconoscendo l’urgenza storica delle prospettive di Brecht e Artaud, Rancière afferma però la necessità di superare – nella cultura attuale – la diffidenza verso i processi mentali che non hanno manifestazioni esteriori visibili; di smettere di pensare, cioè, che l’esperienza estetica esclusivamente soggettiva sia meno valida delle altre. Se guardiamo un film senza applaudire siamo meno emancipati di chi fa il contrario? Se stiamo leggendo un libro senza discuterne con altri, questa esperienza ci emancipa meno di quella di chi fa il contrario? Non si tratta di domande importanti solo per chi si occupa di filosofia estetica. In un mondo nel quale siamo costantemente chiamati a manifestare presenza, approvazione e riprovazione tramite like, cuori, stelle, voti, recensioni, status, dichiarazioni e prese di posizione, si tratta invece di domande di natura strettamente politica.

    Ed è alla natura strettamente politica delle cosiddette social practices che fa riferimento un altro testo critico fondamentale, quello della storica dell’arte e critica Claire Bishop, Inferni artificiali6C. Bishop, Inferni artificiali. La politica della spettatorialità nell’arte partecipativa, Luca Sossella Editore, Milano 2015.. Pubblicato in Italia nel 2015, il testo analizza l’arte partecipativa come una costruzione ideologica che tende a separare il mondo esterno – alienato, conflittuale, direttivo – dai micro-mondi che si costruiscono all’interno delle pratiche partecipative, comunitarie, egualitarie, collaborative. Questa operazione artificiale, di negazione in vitro di quelle forme di potere che (come mostra anche Sennett) fanno ineludibilmente parte dell’esperienza umana, ha il risultato paradossale di neutralizzare le possibilità di dialogo e trasformazione che dovrebbero essere l’obiettivo ultimo delle social practices.

    Un elemento cruciale sul quale porta l’attenzione Bishop è il fatto che l’arte partecipativa cerca in tutti i modi di uscire dal discorso sui parametri estetici che è alla base della maggior parte delle altre pratiche artistiche: in quanto ‘innatamente’ giusta, considera il piano estetico come meramente accessorio. Ma non è forse – si chiede Bishop – la riflessione sull’estetica (intesa come indagine sulle forme della percezione e dell’esperienza) una delle indagini più eminentemente politiche dell’arte?

    Anche in questo caso, non si tratta di riflessioni per gli addetti ai lavori. Come dimostra la natura spesso preconfezionata e identica a sé stessa della costruzione estetica e simbolica delle pratiche di politica partecipativa, è qualcosa che riguarda chiunque prenda parte a questi processi. La rincorsa costante di forme estetiche neutrali e sterilizzate, infatti, corre il rischio di spazzare sotto il tappeto tensioni, conflitti e differenze.

    È quello che ha evidenziato, con altri termini, il semiologo Claudio Paolucci nell’intervento conclusivo de laGuida, quando ci ha ricordato che uno dei grandi pericoli della partecipazione è l’immunizzazione: un’operazione che include parte di ciò che intende escludere per vanificarne la forza d’urto, come avviene nel caso dei vaccini. Al contrario che con i vaccini, nei processi partecipativi abbiamo un problema quando vogliamo cambiare le cose ma la nostra dose di cambiamento è troppo piccola. Ed allora i processi rischiano di diventare escludenti proprio perché fanno partecipare.

    In questo testo ho provato a delineare un percorso teorico che è, nel lavoro quotidiano di cheFare, anche assolutamente pratico. Spero di essere riuscito a restituire la complessità di un campo che molti dei lettori di Pandora Rivista si trovano ad attraversare, e che le pagine che avete letto possano costituire una bussola per navigare con più consapevolezza, o una scatola degli attrezzi per progettare politiche in modo più consapevole. Due parole-ombrello – bussola e scatola degli attrezzi – che ci riportano alle prime righe e che meriterebbero un testo a parte. Ma sarà per il futuro.

     


    Testo precedentemente pubblicato in Pandora Rivista – 3/2020 – Piattaforme

    Immagine di copertina di Israel Sundseth su Unsplash

    Note