La natura della conoscenza come trasformazione

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    Il mondo in cui viviamo è molto più giovane di quanto ci si possa aspettare. Sulla Terra ci sono «umani» costruttori di utensili da circa due milioni di anni. La nostra specie, Homo sapiens, apparve 200000 anni fa, e la ceramica risale a circa 25000 anni fa. Ma la trasformazione più importante verificatasi nel corso della storia umana prima dell’invenzione della scienza, la Rivoluzione neolitica, ebbe luogo in epoca relativamente recente, tra i 12 000 e i 7000 anni fa. Fu allora che vennero addomesticati gli animali, cominciò l’agricoltura e gli utensili di metallo iniziarono a sostituire quelli di pietra. Sono passate circa seicento generazioni da quando gli esseri umani cessarono per la prima volta di essere cacciatori-raccoglitori.

    Le prime imbarcazioni risalgono più o meno a 7000 anni fa, e lo stesso si può dire dell’origine della scrittura. Chi accetta la teoria darwiniana dell’evoluzione non può tollerare la cronologia biblica che situa la creazione del mondo a 6000 anni fa, ma ciò che possiamo chiamare umanità storica (esseri umani che hanno lasciato testimonianze scritte), in opposizione all’umanità archeologica (esseri umani che hanno lasciato esclusivamente manufatti), esiste solo da un periodo di tempo simile a quello della cronologia biblica, circa trecento generazioni. Aggiungete il presso «bis» a nonni per trecento volte: riempirà poco più di mezza pagina a stampa.

    Questa è la vera lunghezza della storia umana; prima, ci furono due milioni di anni di preistoria.

    Gertrude Stein (1874-1946) disse di Oakland, in California, che «lì non c’è lì»: tutto è nuovo, un posto senza storia. Preferiva Parigi. Su Oakland si sbagliava: gli esseri umani ci vivono da circa 20000 anni. Ma aveva anche ragione: la vita là era così facile che non ci fu bisogno di sviluppare l’agricoltura, tanto meno la scrittura. La domesticazione delle piante, dei cavalli, gli utensili di metallo (comprese le armi da fuoco) e la scrittura arrivarono solo con gli spagnoli, dopo il 1535 (la California è un’eccezione: nel resto delle Americhe la domesticazione del mais risale a 10000 anni fa, così come quella di ogni altra pianta nel mondo, e la scrittura risale a 3000 anni fa).

    Quindi il mondo in cui viviamo è quasi nuovo di zecca; in alcuni luoghi più vecchio che in altri, ma in confronto ai due milioni di anni di storia della fabbricazione di utensili sembra appena uscito dalla scatola. Dopo la Rivoluzione neolitica il ritmo del cambiamento rallentò considerevolmente.

    Durante i successivi 6000 anni ci furono notevoli progressi tecnologici – l’invenzione del mulino ad acqua e di quello a vento, per esempio – ma fino a 400 anni fa i cambiamenti tecnologici furono lenti, e spesso fecero marcia indietro. I romani rimanevano sbalorditi dai racconti su ciò che Archimede (287-212 a.C.) era riuscito a fare; e gli architetti italiani del xv secolo esploravano gli edifici in rovina dell’antica Roma convinti di studiare una civiltà molto più avanzata della loro. Nessuno immaginava un giorno in cui si potesse concepire la storia dell’umanità come una storia di progresso, eppure solo tre secoli dopo, a metà del Settecento, il progresso sembrava ormai così inevitabile che lo si leggeva a ritroso in tutta la storia precedente.

    Nel frattempo era successo qualcosa di straordinario. Che cosa permise alla scienza del Seicento e del Settecento di progredire in un modo che era stato impossibile nei precedenti sistemi di conoscenza? Che cosa abbiamo noi oggi che mancava ai romani e ai loro ammiratori rinascimentali?

    Quando William Shakespeare (1564-1616) scrisse Giulio Cesare (1599) fece il piccolo errore di menzionare un orologio che batte: nell’antica Roma non esistevano orologi meccanici. Nel Coriolano (1608) si fa riferimento ai punti cardinali della bussola, ma i romani non avevano la bussola nautica. Questi errori riflettono il fatto che quando Shakespeare e i suoi contemporanei leggevano gli autori romani si imbattevano in continue attestazioni del loro essere pagani e non cristiani, ma in poche attestazioni dell’esistenza di un divario tecnologico tra l’antica Roma e il Rinascimento. I romani non avevano il torchio tipografico, avevano però numerosi libri, e schiavi per copiarli. Non avevano polvere da sparo, ma artiglieria sotto forma di baliste. Non avevano orologi meccanici, ma meridiane e clessidre ad acqua. Non avevano grandi velieri in grado di navigare controvento, ma all’epoca di Shakespeare la guerra nel Mediterraneo si combatteva ancora con le galere (navi a remi).

    Naturalmente, per tanti versi i romani erano molto più progrediti degli elisabettiani: avevano strade migliori, riscaldamento, bagni adeguati.

    Shakespeare, in modo del tutto comprensibile, immaginava l’antica Roma proprio come la Londra contemporanea, ma con il Sole e le toghe. Lui e i suoi contemporanei non avevano motivo di credere nel progresso. «Per Shakespeare» dice Jorge Luis Borges (1899-1986) «tutti i personaggi, che fossero danesi, come Amleto, scozzesi, come MacBeth, greci, romani o italiani, tutti i personaggi in tutte le numerose opere vengono trattati come se fossero suoi contemporanei. Shakespeare percepiva la varietà degli uomini, ma non la varietà delle epoche storiche. La storia per lui non esisteva.» La concezione borgesiana della storia è moderna; Shakespeare conosceva molto bene la storia, ma (a differenza del suo contemporaneo Francis Bacon, che aveva compreso ciò che la Rivoluzione scientifica poteva realizzare) non possedeva la nozione di cambiamento storico irreversibile.

    Potremmo pensare che la polvere da sparo, il torchio tipografico e la scoperta dell’America nel 1492 avrebbero dovuto obbligare il Rinascimento ad acquisire un senso del passato come qualcosa perduto per sempre, ma solo con estrema lentezza le persone colte divennero consapevoli delle conseguenze irreversibili che derivarono da queste innovazioni decisive. È soltanto a posteriori che giunsero a interpretare simbolicamente una nuova era: fu la stessa Rivoluzione scientifica la principale responsabile della convinzione illuministica che il progresso fosse diventato inarrestabile. Verso la metà del xviii secolo il senso del tempo di Shakespeare era stato ormai sostituito dal nostro. […] Il trionfo del newtonianesimo segna la fine dell’inizio.

    Per capire le dimensioni di questa Rivoluzione, prendiamo per un momento un tipico erudito europeo del 1600: prenderemo un inglese, ma se anche provenisse da un qualsiasi altro paese europeo non ci sarebbe nessuna differenza significativa, poiché nel 1600 tutti condividono la stessa cultura intellettuale. Quest’uomo crede nella stregoneria. […] Crede che il cadavere della vittima di un omicidio sanguini in presenza dell’assassino. Crede nell’esistenza di un unguento che, se spalmato su un pugnale che ha procurato una ferita, cura tale ferita. Che la forma, il colore e l’aspetto di una pianta siano un indizio delle sue proprietà medicinali perché Dio ha progettato la natura affnché sia interpretata dagli uomini. Crede che sia possibile trasformare del vile metallo in oro anche se dubita che qualcuno sappia come farlo. Crede che la natura aborra il vuoto. Crede che l’arcobaleno sia un segnale da parte di Dio e che le comete preannuncino il male. Crede che i sogni predicano il futuro, se si sa come interpretarli. Crede, naturalmente, che la terra sia immobile e che il Sole e le stelle compiano un giro intorno alla terra ogni ventiquattro ore; ha sentito menzionare Copernico, ma non ritiene che il suo modello eliocentrico del cosmo vada preso alla lettera. […]

    Nel giro di pochi anni ci fu aria di cambiamento. Nel 1611 John Donne, riferendosi alle scoperte fatte da Galileo con il suo telescopio l’anno precedente, dichiarò che «la nuova filosofia mette tutto in dubbio». «Nuova filosofia» era uno slogan di William Gilbert, che nel 1600 aveva pubblicato la prima grande opera di scienza sperimentale da seicento anni a quella parte; per Donne, la «nuova filosofia» era la nuova scienza di Gilbert e Galileo. I suoi versi raccolgono molti degli elementi chiave che costituivano la nuova scienza dell’epoca: la ricerca di nuovi mondi nel firmamento, la soppressione della distinzione aristotelica tra cieli e terra, l’atomismo di Lucrezio:

    Come faceva Donne a conoscere la nuova filosofia? Come faceva a sapere che riguardava l’atomismo lucreziano? […] Come faceva Donne a sapere che i nuovi filosofi erano alla ricerca di nuovi mondi, non limitandosi a considerare i pianeti dei mondi ma cercando mondi anche altrove nel firmamento?

    Con ogni probabilità Donne aveva incontrato Galileo a Venezia o a Padova nel 1605 o nel 1606. A Venezia aveva abitato presso l’ambasciatore Sir Henry Wotton, che era intento a cercare di ottenere la liberazione di uno scozzese, amico di Galileo, arrestato per aver fatto sesso con una suora (un crimine che avrebbe comportato una sentenza di morte). Forse Donne incontrò Galileo e parlò con lui, o con i suoi studenti di lingua inglese; di sicuro sembra che abbia conosciuto Paolo Sarpi, l’amico fraterno di Galileo. In Inghilterra, invece, può benissimo aver conosciuto Thomas Harriot, un grande matematico che era evidentemente attratto dall’atomismo, e anche Gilbert. Così come può aver letto il Sidereus nuncius di Galileo (1610) o, in alternativa, la Dissertatio cum Nuncio Sidereo (1610) di Keplero, che conteneva numerose idee radicali su altri mondi che Galileo aveva attentamente evitato di discutere. […]

    Ma ora facciamo un balzo in avanti. Prendiamo un inglese colto di un secolo e un quarto più tardi, del 1733, l’anno della pubblicazione delle Lettere inglesi di Voltaire (meglio conosciute con il titolo che ricevettero un anno dopo, quando furono pubblicate in francese, Lettres philosophiques), il libro che annunciò al pubblico europeo alcuni risultati della nuova scienza, in quel momento prerogativa inglese. Il messaggio del libro di Voltaire era che l’Inghilterra aveva una peculiare cultura scientifica: ciò che era vero per un inglese istruito nel 1733 non sarebbe stato vero per un francese, un italiano, un tedesco o perfino un olandese. I

    l nostro inglese ha guardato in un telescopio e in un microscopio; possiede una pendola e un barometro a mercurio; e sa che a un’estremità del tubo c’è il vuoto. Non conosce nessuno (o, perlomeno, nessuno di colto e ragionevolmente raffinato) che creda nelle streghe, nei lupi mannari, nella magia, nell’alchimia o nell’astrologia; pensa che l’Odissea sia un’opera di fantasia, non reale. È sicuro che l’unicorno sia un animale mitologico. Non crede che la forma o il colore di una pianta abbiano alcuna importanza per la comprensione del suo utilizzo in medicina. Crede che nessuna creatura abbastanza grande da poter essere vista a occhio nudo si generi spontaneamente, nemmeno una mosca. Non crede nell’unguento armario o che i cadaveri delle persone assassinate sanguinino in presenza dell’assassino.

    Come tutte le persone colte dei paesi protestanti, crede che la Terra orbiti intorno al Sole. Sa che l’arcobaleno è prodotto dalla luce rifratta e che le comete non hanno alcuna influenza sulle nostre vite, qui sulla Terra. Crede che il futuro non si possa predire. Sa che il cuore è una pompa. Ha visto una macchina a vapore in funzione. Crede che la scienza trasformerà il mondo e che i moderni abbiano superato gli antichi sotto ogni possibile aspetto. Fatica a credere nei miracoli, anche quelli della Bibbia. Pensa che Locke sia il più grande filosofo mai esistito e Newton il più grande scienziato (è incoraggiato a pensarlo dalle Lettere inglesi). Possiede circa duecento libri, forse perfino duemila. […]

    Tra il 1600 e il 1733 (più o meno: il processo fu più avanzato in Inghilterra che altrove) il mondo intellettuale dell’élite colta cambiò più rapidamente che in ogni epoca storica precedente, e forse più che in ogni epoca precedente al xx secolo. La magia fu rimpiazzata dalla scienza, il mito dai fatti, la filosofia e la scienza dell’antica Grecia furono sostituite da qualcosa che si può riconoscere come la nostra filosofia e la nostra scienza, con il risultato che il mio racconto di una persona immaginaria del 1600 è automaticamente espresso in termini di «credenza», mentre a proposito di una persona del 1733 parlo in termini di «conoscenza».

    Naturalmente la transizione era ancora incompleta. La chimica esisteva a malapena. Per curare le malattie si usavano ancora salassi, purghe ed emetici. Si pensava ancora che le rondini ibernassero sul fondo degli stagni. Ma i cambiamenti dei cent’anni successivi sarebbero stati molto meno notevoli di quelli dei cento precedenti. L’unico nome che abbiamo per questa grande trasformazione è «Rivoluzione scientifica».

    La sera dell’11 novembre 1572, appena dopo il tramonto, un giovane nobile danese di nome Tycho Brahe guardava il cielo notturno. Quasi direttamente sopra la sua testa notò una stella più luminosa delle altre, una stella che non avrebbe dovuto esserci. Preoccupato che i suoi occhi gli stessero giocando uno scherzo, indicò la stella ad altre persone assicurandosi che anche loro la vedessero.

    Eppure un oggetto del genere non poteva esistere: Brahe sapeva orientarsi nei cieli, e il fatto che fossero immutabili costituiva un principio fondamentale della filosofia aristotelica. Quindi, se si trattava davvero di un nuovo oggetto, doveva trovarsi non nei cieli ma nell’atmosfera superiore: non poteva assolutamente essere una stella. Se invece era proprio una stella, allora doveva trattarsi di un miracolo, una specie di segno divino misterioso di cui bisognava con urgenza decifrare il significato (Brahe era protestante, e i protestanti ritenevano che i miracoli fossero cessati da tempo, quindi era improbabile che si lasciasse convincere da questo tipo di argomentazione).

    Lungo il corso di tutta la storia, per quanto ne sapesse Brahe, solo una persona, Ipparco di Nicea (190-120 a.C.), aveva asserito di aver osservato una nuova stella; quantomeno, Plinio (23-79 d.C.) aveva attribuito questa asserzione a Ipparco, ma Plinio era notoriamente inaffidabile, quindi era facile presumere che o Ipparco o Plinio avessero commesso qualche errore di fondo.

    Allora Brahe si impegnò a provare che l’impossibile era in realtà accaduto dimostrando, con una trigonometria elementare, che la nuova stella non poteva trovarsi nell’atmosfera superiore, ma doveva essere per forza nei cieli. Ben presto la stella divenne più luminosa di Venere, e per un breve periodo fu visibile perfino in pieno giorno, ma poi si affievolì lentamente nel corso di sedici mesi. Lasciò dietro di sé una pioggia di libri in cui Brahe e i suoi colleghi dibattevano sulla sua posizione e importanza.

    Un’altra cosa che lasciò dietro di sé fu un programma di ricerca: le affermazioni di Brahe avevano catturato l’attenzione del re di Danimarca, che gli fornì un’isola, Hven, e ciò che Brahe in seguito descrisse come una tonnellata d’oro, per finanziare la costruzione di un osservatorio per la ricerca astronomica. In seguito alla scoperta della nuova stella, Brahe si convinse che, per capire la struttura dell’universo, si dovessero fare misurazioni molto più accurate. Progettò così nuovi strumenti, di mirabile precisione.

    Quando si rese conto che con il vento il suo osservatorio ondeggiava leggermente, rendendo le sue misurazioni imperfette, spostò la strumentazione in bunker sotterranei. Nel corso dei successivi quindici anni (1576-1591), le ricerche di Brahe a Hven trasformarono l’astronomia nella prima scienza moderna. La supernova del 1572 non fu la causa della Rivoluzione scientifica, come il proiettile che uccise l’arciduca Francesco Ferdinando il 28 giugno 1914 non fu la causa della Prima guerra mondiale. Nondimeno, essa segna in modo piuttosto preciso l’inizio della Rivoluzione, così come la morte dell’arciduca segna l’inizio della guerra.

    La filosofia aristotelica della natura, infatti, non si poteva adattare a incorporare questa particolare anomalia; se davvero esisteva qualcosa come una nuova stella, allora l’intero sistema era fondato su premesse errate. […]

    A partire dal 1572 il mondo si ritrova immerso in una Rivoluzione scientifica che ha trasformato la natura della conoscenza e delle capacità del genere umano. Senza di essa, il mondo non avrebbe avuto una Rivoluzione industriale, e nessuna delle moderne tecnologie da cui dipendiamo; la vita umana sarebbe considerevolmente più povera e breve e la maggior parte di noi vivrebbe vite di fatiche incessanti.

    Quanto durerà, e quali saranno le conseguenze, è troppo presto per dirlo; potrebbe finire con una guerra nucleare, o una catastrofe ecologica, o (benché sembri meno probabile) con felicità, pace e prosperità.


    Pubblichiamo un estratto da La scintilla della creazione. Come le invenzioni dell’uomo hanno trasformato il mondo (Il Saggiatore)

    Note