La teoria critica della razza è in realtà una storia della bianchezza, che è diversa dalle altre identità razziali e dalle relative storie. Come ha sottolineato Robert P. Baird qualche anno fa sul Guardian, “per tre secoli e mezzo la bianchezza è stata brandita come un’arma su scala globale; la nerezza, al contrario, è stata spesso usata come uno scudo”. (Come disse W.E.B. DuBois, ciò che rendeva la bianchezza nuova e diversa era “la vastità imperiale della faccenda – la sua audacia smisurata”).
Come ha sottolineato Baird, è abbastanza facile concordare in teoria sul fatto che l’unica risposta morale ragionevole alla storia della supremazia bianca sia la posizione abolizionista, ossia rendere la bianchezza priva di significato come identità di gruppo, gettarla nell’obsolescenza come l’identità “prussiana” o “etrusca”. James Baldwin ha definito la bianchezza una scelta morale, per sottolineare che non è un fatto naturale. Ma la bianchezza è molto più di questo: è una fitta rete di scelte morali, la maggior parte delle quali è stata fatta per noi, spesso in tempi e luoghi molto lontani. In effetti, la bianchezza è un problema come il sessismo, il cambiamento climatico o le disuguaglianze economiche: è così profondamente radicata nella struttura della nostra vita quotidiana da far sembrare bizzarra l’idea delle scelte morali.