Spazio chiama Terra: perché un editore diventa audiovisivo?

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    Da alcuni mesi, il Saggiatore ha ampliato lo spettro del suo sguardo dedicato al racconto dell’immaginario contemporaneo al settore audiovisivo. Giancarlo Liviano D’arcangelo intervista il direttore editoriale Andrea Gentile.

    Il mondo in divenire continuo, estatico e amplificato dal tecnologico, offre stadi di cambiamento vertiginosi. Può ancora un editore sfidare questa estasi? Può resistervi senza lasciarsi travolgere nel vortice? Come si racconta il contemporaneo elefantiaco da un luogo affascinante e simbolico come una casa editrice, così simile a un faro boa in mezzo all’oceano governato dalla tempesta?

    Da alcuni mesi, Il Saggiatore ha ampliato lo spettro del suo sguardo dedicato al racconto dell’immaginario contemporaneo al settore audiovisivo. Il primo passo è stato partecipare come media partner a Bajkonur, Terra, film di Andrea Sorini, un regista di grande talento che ha riscosso molto successo nella premiere mondiale al VIFF (Vancouver International Film Festival), e che ha da pochissimo ottenuto il primo premio nella sezione “Prospettive” al Film Maker Festival Internazionale di Milano.

    Molto presto, il film documentario diventerà un libro a firma di Eliseo Acanfora, lo sceneggiatore, un’operazione che farà da apripista a molte altre idee simili che seguiranno.

    Come si sceglieranno i prossimi viaggi? Paul Celan chiude la sua poesia Mine in Luce Coatta con il verso “Deve essere ora il momento/per una giusta/nascita”: ecco, questo è il criterio di fondo. Cogliere narrazioni in grado di rompere il flusso del continuum narrativo spettacolare, superficiale e simulato, creando cortocircuiti, sguardi nuovi, luci coatte nel continuum del tempo assoluto. Non soltanto il nuovo nell’attuale, ma l’attuale che è nel nuovo, nell’antico, nel sincronico.

    Non c’è una filiera “produttiva” predefinita. C’è una visione d’insieme e d’intenti. Documentari che si mutano in libri e viceversa, libri che nascono già in prospettiva di farsi serie televisive, così come graphic novel, opere di non-fiction e saggi. La materia diventa liquido nel solido del contenuto. In base a visioni interne e proposte esterne che incarnano il momento della giusta nascita. Ne ho parlato con Andrea Gentile, direttore editoriale de Il Saggiatore.

    Andrea Gentile

    Produzioni e riproduzioni. Creazioni e ricreazioni. Se guardo fuori, mi pare di notare due momenti distinti che insieme formano, e governano, il nostro tempo con i suoi strascichi. Uno stato d’estasi invisibile che investe una sorta di secondo mondo governato dai segni, particelle di energia che fluttuano a una velocità infinitamente più frenetica di qualche anno fa, e un mondo materico più statico, acciaccato, impantanato.

    Cosa ci insegna questa dicotomia? Che siamo alla fine, al completamento di una transizione epocale che si concretizza con l’interazione tra umano e tecnologico laddove l’umano, in questa fase, sembra lasciarsi guidare. È come se le cose avessero finalmente trovato il modo di sottrarsi alla dialettica del senso, troppo lenta e noiosa, e avessero trovato il modo di proliferare all’infinito. Il libro invece è il medium della conoscenza per eccellenza di un mondo lineare e governato dalla dialettica e dalla ricerca di senso? Come si comporta un editore di conseguenza?

    AG: L’ho spiegato qualche tempo fa con un intervento sul sito del Saggiatore. Un editore è anche un agricoltore, e dentro un piccolo seme deve riuscire a leggere il futuro. Per questa ragione, l’editore lavora in perenne oscillazione tra la materia (innanzitutto un testo, nel senso più ampio del termine) e l’immateriale.

    L’editore, dunque può essere tale anche quando non si occupa esclusivamente di libri. Principalmente, lavora sull’immaginario. Da qualche tempo su alcuni materiali di management è iniziata a comparire la parola “Vuja De”. Il contrario del dejà vu. Se si può discutere dell’efficacia di questa parola, non si può invece prescindere dal suo significato. Un editore deve riuscire a spostare l’asse; non può più accontentarsi di vedere qualcosa di familiare in qualcosa di nuovo. Deve riuscire a vedere qualcosa di nuovo in qualcosa di familiare. Crearsi dunque delle nuove prospettive. Ipotizzare dunque nuove vie che possano anche andare oltre il libro.

    Si procede allora, mi pare di comprendere, verso una fase “libera”, in cui l’oggetto finale portatore di contenuti, che sia un libro, una rivista digitale, una mappa, un film di fiction, un documentario, un’opera multimediale, debba essere considerato quasi come un semplice supporto, il miglior supporto possibile in correlazione a ciò che si vuole raccontare. Ogni storia, intesa come porzione del reale, si piega alle infinite possibilità di linguaggio, e trova la sua forma più adatta. Affiancandosi così a tutto il sapere che si tramanda nelle sue forme tradizionali entrando nel flusso con i crismi in voga nel passato, per riapparire di continuo nel turbinio dello scambio e diventare qualcos’altro.

    AG: Questa è la ragione per cui Il Saggiatore ha deciso di contribuire a Bajkonur, Terra, film diretto da Andrea Sorini, prodotto da Piranesi Experience, Lumen Films e Rai cinema, in partnership, appunto, con il Saggiatore.

    Che cosa fa dunque l’editore in questa situazione? Cerca, nota una narrazione visiva ai suoi prodromi, una narrazione che abbia alcune caratteristiche genetiche in condivisione con l’editore, e decide di contribuire affinché il film si completi sul piano produttivo; coglie poi l’occasione di trarre da quello stesso orizzonte di senso un testo scritto, un reportage narrativo (sarà a firma di Eliseo Acanfora, uno degli sceneggiatori del film) che sia arricchimento e completamento del racconto visivo, a esso ispirato ma non necessariamente simmetrico, in modo che il punto di vista multimediale diventi sempre più ricco.

    Dalla genesi dell’opera cinematografica, dunque, nasce l’opera linguistica.

    Lo spazio è dunque un luogo in cui le energie si muovono a un ritmo più veloce. Una dimensione accelerata in cui per la prima volta, forse, grazie anche alla commistione sempre crescente – pensiamo ai campi fino a poco tempo considerati quelli pratici della vita come l’economia ­– l’interazione tra materico e virtuale volge all’osmosi. Si vedono le cose e si vede la trama delle cose, si vede persino troppo.

    La figura e lo sfondo (che come diceva McLuhan compongono sempre tutte le situazione culturali), ovvero un’area circoscritta di attenzione e una di disattenzione, sono sempre più vicine a essere fuse, un’immagine perfetta in cui tutto è a fuoco. Ma poiché, come sappiamo, la presenza non svanisce nel vuoto ma nella pletora e nella saturazione, come potrà riuscire un editore, in futuro, a far sedimentare il sapere? Gli immaginari non smetteranno comunque di essere condivisi per diventare via via sempre più targettizzati (un numero di immaginari corrispondente al numero degli individui) e incomunicabili?

    AG: Proprio McLuhan racconta che nel 1968, gli astronauti a bordo dell’Apollo, dopo aver completato l’orbita intorno alla luna puntarono una telecamera verso la terra, creando un nuovo evento per gli spettatori, che per la prima volta si trovavano sospesi tra il fuori e il dentro della propria realtà fisica.

    Quello spazio, quel vuoto apparentemente asettico, era uno spazio di risonanza, un intervallo dove di colpo era possibile vedere insieme la Luna e la Terra. La Luna e la Terra, la figura e lo sfondo, la parola e la rappresentazione visiva, il testo scritto e il testo d’immagini.


    Immagine di copertina di Bill Jelen su Unsplash

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