Una sorta di tabù culturale si è solidificato intorno ad Alessandro Baricco, che rischia di trasformare mio malgrado questo testo in una provocazione. Al solo comparire del nome – Baricco – il volto dei più tra coloro che si occupano professionalmente di cultura, e di letteratura in particolare, si deforma in una smorfia tra lo schifato e il compassionevole, che Baricco stesso ha descritto per primo molti anni fa: esatto, la stessa faccia che state facendo da quando avete letto il titolo.
La deformazione è il frutto soprattutto di un automatismo, e di una delle più spettacolari forme di conformismo elaborate negli anni recenti dal piccolo mondo antico della cultura, nel quale si può prendere sul serio qualsiasi panzana ma basta mostrare di disprezzare Baricco per essere arruolati nel non proprio temerario esercito degli intellettuali veri, quelli che non ci cascano. Lo stesso esercito che poi si lascia soggiogare dalle più astruse supercazzole accademiche, solo perché garantite dall’ideologia; sedurre da premi Strega sgrammaticati o da ben levigati tributi al politicamente corretto; abbindolare da strampalati autori sperimentali, ché meno si capisce e più si è intelligenti; mentre acclama casi letterari internazionali che spesso sono solo dei Baricco nati dalla parte giusta dell’Atlantico. Ma a Baricco no, non si perdona nulla: lui è l’emblema inscalfibile del midcult, del kitsch, della pseudo-letteratura.
La qualità media dei romanzi, il narcisismo affabulatorio, una certa strafottenza – tutti tratti che condivide con la maggioranza degli scriventi in attività – non possono bastare a spiegare questa invincibile insofferenza. Che va al di là anche del tradizionale sospetto per il successo commerciale, come dimostra la riuscitissima metabolizzazione accademica dello strano caso di Elena Ferrante.
L’origine di quella faccia un po’ così, e del disprezzo quasi unanime dell’élite intellettuale, è inscritto in un’idea che Baricco da anni allo stesso tempo descrive e incarna, e che ora sistematizza in una sorta di teoria narrativa nel libro appena pubblicato da Einaudi, The Game, sviluppo, estensione e messa a fuoco del suo “saggio sulla mutazione” del 2006, I barbari.
Quello che ai professionisti del sapere non piace è il mondo in cui Baricco li costringe a specchiarsi: un mondo in cui la loro (nostra) mediazione non è più richiesta, e in cui non è più comprensibile il valore degli oggetti che crediamo di custodire, e che dovremmo tramandare. Non solo: ancora prima di spiegare questa verità, Baricco l’ha mostrata in atto, attraverso quella che è probabilmente la sua ‘opera’ più riuscita. Con il format televisivo Pickwick (significativo il sottotitolo: del leggere e dello scrivere), poi ripreso in Totem, portato a teatro e adattato in molte performance live, Baricco ha inventato una modalità di trasmissione della cultura in cui è possibile isolare dei frammenti di senso provenienti dal patrimonio della tradizione e declinarli in un linguaggio compatibile con la grammatica mentale dell’umanità presente.
Del pubblico vero, e non di quello supposto. Qualcosa di simile facevano i suoi romanzi, elaborando forme semplici capaci di veicolare il piacere essenziale della lettura, e di riscoprire l’affabulazione originaria della narrazione, la volontà quasi “pura” di trasmettere e rendere memorabile un evento. Con questo gesto, come direbbe lui, Baricco ha mostrato all’élite intellettuale l’esaurimento di una funzione di orientamento e tutela del sapere fondata sull’aumento esponenziale della complessità, attirandosi così il suo disprezzo in modo speciale.
Perfino il più commerciale e stereotipato dei romanzetti manteneva viva l’illusione di vivere nel mondo di prima. Baricco invece rompeva l’illusione e metteva tutti di fronte a un problema ineludibile: la necessità di modificare integralmente i paradigmi valutativi, i metodi di comunicazione della cultura, e alla lunga le strategie stesse della creatività. Non era facile: chi da anni cerca di comprendere le forme di vita dell’umanità “barbarica” al di là dell’umanesimo, si è quasi auto-sbalzato fuori dalla comunità intellettuale. Ed è recentissimo il primo credibile tentativo di analizzare la letteratura del presente come una forma culturale mutante, da interpretare con categorie diverse da quelle tradizionali.
Se i barbari nel 2006 erano ancora popolazioni nomadi che cominciavano a costruire accampamenti nei paraggi delle cittadelle umanistiche, ignorandone la tradizione e forgiando pratiche culturali sempre più divergenti, la cartografia che emerge da The Game sembra destinata a cancellare interamente dalle proprie mappe le fortezze della cultura.
Baricco descrive il mondo in cui viviamo come il risultato di una rivoluzione, quella digitale, che non ha conquistato i luoghi tradizionali del potere e del sapere, li ha aggirati e oltrepassati scavandogli sotto dei tunnel, per andare a costruire al di là una nuova dimensione dell’esistenza, in cui molti di quei poteri e di quei saperi sono disattivati. Contrariamente a quanto vorrebbe il senso comune, questo mondo non è il prodotto di strumenti che ci si sono inspiegabilmente attaccati addosso.
Un’umanità nuova, modellata da una rivoluzione mentale, da uno scatto cognitivo, ha creato gli strumenti che le servivano per modificare il mondo secondo le proprie esigenze. Un’esigenza soprattutto: smaterializzare la realtà, comprimerla e compattarla per renderla disponibile a una migrazione epocale nata come una fuga e figlia della paura. Fuga da dove, paura di cosa? Fuga dal Novecento, e paura della teoria di catastrofi che l’organizzazione mentale della civiltà novecentesca aveva prodotto. L’idea degli insorti digitali era agire il movimento, la velocità, la mescolanza, l’instabilità, contro il Novecento delle gerarchie, delle identità, dei confini, delle macchine pesanti, degli eserciti.
Scappare dall’umanità che ha programmato i massacri ideologici, le trincee, Auschwitz e la bomba atomica, e vanificare tutte le sue istituzioni. Soprattutto, fuggire dal Novecento delle élite, disarcionare i mediatori, i custodi, i sacerdoti dei sistemi di idee che hanno autorizzato la catastrofe del Novecento. Assumendo questa mossa concettuale, tutto viene di conseguenza: dal web all’iPhone, da Facebook a Tinder, da YouPorn al Movimento 5 Stelle.
Nei termini della metafora che percorre il libro: il mondo digitale e i suoi strumenti emergono come una catena montuosa spinta in superficie dalla pressione sotterranea dei movimenti mentali. Un terra colonizzata dagli umani attraverso un’adesione volontaria e spesso entusiastica: nessuno ci ha deportato nel mondo digitale; ci siamo trasferiti qui consapevolmente e abbiamo contribuito coi nostri comportamenti a modellare questo spazio. Farebbero bene a ricordarlo gli apocalittici, che anziché provare a difendere gli umani da qualcosa che gli umani quotidianamente scelgono, dovrebbero interrogarsi su cosa abbiamo creduto di guadagnare da questa migrazione, e sul perché in cambio degli strumenti nuovi ci siamo resi disponibili ad abbandonare alcune delle cose migliori fatte dall’umanità. Dovrebbe essere la domanda quotidiana per chi si occupa di cultura, adesso. Se solo riuscissimo a smettere di fare quella faccia.
Che nella fuga dal Novecento la cultura sia tra le prime cose a restare schiacciata dalla calca, lo conferma il titolo che Baricco ha dato al suo libro, The Game: la modalità di esistenza decisiva del nuovo mondo è il contrario della conoscenza, ovvero il divertimento. In un videogioco, Space Invaders, Baricco individua il primo sintomo della mutazione, la prima assunzione della postura fondamentale della civiltà digitale: la concatenazione uomo-tastiera-schermo.
All’idea del gioco si connette il rovesciamento delle relazioni tra profondità e superficie. La civiltà culminata nel Novecento collocava l’esperienza autentica in profondità, dove andava raggiunta con fatica, lentezza, pazienza, studio, e con la mediazione dei saperi custoditi dalle élite. La civiltà digitale colloca l’esperienza sulla superficie del mondo, la spoglia delle difficoltà, diminuisce l’attrito, semplifica le modalità d’accesso. La complessità resta sottotraccia come il corpo dell’iceberg, non si vede e non è necessario attraversarla per raggiungere la realtà.
In questa metafora la mente novecentesca legge immediatamente la possibilità di una rimozione. Sotto il pelo dell’acqua non saranno stati occultati anche i conflitti, la violenza, la durezza residua, la sofferenza che il mondo digitale continua a generare?
È una domanda legittima, e Baricco accenna a questo “rovescio” del Game rispondendo che per quante contraddizioni si possano rilevare, per quanto alcune cose siano andate storte durante la migrazione, niente può negare che la fuga sia stata efficace: ha portato l’umanità in un luogo molto lontano dall’inferno del Novecento. E quindi, per quanto possano essere allarmanti i meme condivisi dai nostri genitori, no: non si stava meglio quando si stava peggio.
Certo con questa risposta Baricco commette un altro peccato mortale contro l’ortodossia novecentista: è ottimista. Vede più vantaggi che svantaggi, più opportunità che rischi. Il solco lungo il viso dell’intellettuale si approfondisce. Per la mente novecentesca un ottimista può essere solo un ingenuo, o un venduto: l’élite si è educata sul pensiero negativo e sulla sistematica applicazione delle ideologie del sospetto. Ogni discorso andava decostruito per mostrarne il contenuto nascosto, di ogni verità ufficiale andava scoperto il rovescio, l’aspetto occultato dal potere. Spesso funzionava, perché quella era davvero la logica del sistema. Leggendo le obiezioni al presente ispirate dal sospetto permanente, si è portati a pensare che quella logica non funzioni più. Forse bisogna prendere in considerazione l’ipotesi che questa fase del presente si capisce meglio se si leggono laicamente le energie che sta sprigionando, invece di cercare ciò che queste energie nascondono.
La mia impressione è che il pensiero negativo implichi una specie di cecità, degli automatismi che invece di aumentare la comprensione la diminuiscono, perché negano, appunto, delle possibilità di esistenza. Un cono d’ombra dal quale sarebbe il momento di uscire escogitando una nuova modalità di pensiero. È bellissima la parola inventata da un critico acerrimo e a tratti disperato del presente globalizzato, Franco Berardi Bifo: Futurabilità.
Per pensare di incidere sul futuro, è necessario accogliere una dose di possibilismo; pensare, come fa Baricco, che l’esperienza autentica sia ancora possibile, così come sono ancora possibili la creatività e la conoscenza. Però bisogna anche prendere atto che esperienza, creatività, conoscenza hanno completamente modificato i loro protocolli, sono diventate sistemi di trasferimenti orizzontali, reti di collegamenti, esplorazioni di connessioni multiple; hanno perso la stabilità, l’assolutezza, la definizione, il radicamento in profondità cui le associamo tradizionalmente.
Per spiegare come il sistema delle connessioni possa ancora produrre senso e non solo fake-news, Baricco elabora il concetto di verità-veloce: un’informazione che accetta e anzi cerca l’imprecisione, che si consegna alla bassa risoluzione per guadagnare in velocità e in capacità di attraversamento della semiosfera. Una semplificazione, una mezza verità, per intenderci, che è progettata in modo da riuscire a catturare altri frammenti di verità e comporre così un disegno significativo, una verità di secondo livello la cui attendibilità non sta nella sua essenza ma nel movimento che riesce a generare, nella traiettoria che indica.
Si può continuare a parlare di post-verità, che è il modo in cui le élite definiscono le informazioni non gestite da loro: oppure si può provare a comprendere la potenzialità implicita nel sistema di creazione dei significati delle verità-veloci. La differenza sta ancora nella faccia che si decide di fare, nel gioco che si decide di giocare. Anche perché, e questo è forse il limite, del resto dichiarato, del libro di Baricco, la sua cartografia si ferma sulla soglia di un’ulteriore, enorme rivoluzione che è già in atto, quella legata all’intelligenza artificiale, che promette di sconvolgere da capo ogni cartografia.
E allora anche l’ironia di chi dice che The Game è già vecchio, che tutto quanto sostiene è risaputo, è una forma di ipermetropia: se il mutamento descritto da Baricco è arcinoto, perché non si vedono in giro pratiche all’altezza di questa consapevolezza? Se The Game è un libro attardato, lo è perché è attardata la nostra comprensione del presente: una rivoluzione immane si presenta all’orizzonte, e noi dobbiamo ancora capire la penultima.
Del resto, la creazione di connessioni, la costruzione di “sistemi passanti” che collegassero spazi culturali diversi, e in cui potessero transitare verità veloci ma incisive e memorabili, è ciò che Baricco ha sempre fatto, e continua a fare con questo strano libro in cui il formato tradizionale viene forzato dall’interno dalla presenza di mappe, elenchi, intermezzi e riprese; una struttura che suggerisce un’estensione in senso ipermediale del libro. Leggendo si vorrebbe poter cliccare, aprire un video, vedere immagini, ascoltare voci. In questa incertezza mediale, sommata ai passaggi in cui Baricco dichiara sostanzialmente di essere estraneo al Game, in quanto non ci vive e non lo pratica, qualcuno ha letto una possibile ambiguità: dov’è davvero Baricco? A che gioco gioca? Ha scelto di restare strategicamente “a metà strada”, abbracciare il nuovo solo per avere un vantaggio competitivo nell’ambiente vecchio?
L’impressione è che con la scelta del formato tradizionale, cartaceo e analogico, Baricco abbia voluto programmaticamente parlare a quelli con la faccia un po’ così, a coloro che, nonostante la simpatia non sia reciproca, lui continua a considerare suoi simili. Ha voluto parlare alla comunità dei lettori e delle lettrici di libri, per portare loro una notizia dal mondo che potrebbero contribuire a costruire. Allo stesso tempo quasi spingendoli verso l’uscita, come del resto fa da sempre: creando il desiderio di non essere più dentro al libro, la nostalgia di essere già altrove, di collegare il libro a tanti altri possibili oggetti, a qualcos’altro che si può andare a prendere e portare con sé nella migrazione.
È un’operazione midcult? Le vostre facce dicono di sì, ma un momento: che cos’è il midcult se non l’ancoraggio a un’idea posticcia di cultura alta e di sapere elevato, di raffinatezza ed esclusività? Che cosa se non l’idea di un elitismo di massa? Il consumatore culturale tipo vuole sentirsi eletto e illuminato, si compiace della falsa difficoltà dell’ultimo Strega, attraverso la quale crede di salvare la civiltà e la tradizione. Salvarla, spesso, proprio dalla minaccia della civiltà digitale emergente. Baricco invece attacca questa idea della cultura, dice che quella civiltà non esiste più, che non c’è niente da salvare: c’è tutto un altro mondo dall’altra parte, che abbiamo immaginato e nonostante questo non capiamo. Andiamo a vedere che succede lì. Portiamo con noi le nostre storie, le cose belle che abbiamo fatto, ma portiamole lì. Non credo sia qualcosa che il pubblico ammaestrato dal midcult, spesso il più resistente alle fascinazioni del nuovo, ama sentirsi dire.
Con The Game, quindi, Baricco evade dal centro esatto del midcult con un salto mortale. Un salto che forse si può spiegare prendendo in prestito proprio la potente metafora della migrazione e della fuga. Baricco è il bardo che i fuggiaschi dal Novecento, gli insorti digitali, caricano sull’ultimo carro della carovana in partenza: dopo avergli lanciato uno sguardo interrogativo ed essersi consultati silenziosamente, i guerriglieri nerd decidono che sì, potrebbe ancora servirgli un raccontatore di storie. E lo lasciano salire.
Lui ha seguito la migrazione e l’ha raccontata con un linguaggio che è un ricordo della vecchia civiltà. Gli è costato il disprezzo dei vecchi sacerdoti, che l’hanno percepito come un traditore perché, invece di combatterli, invece di agire la critica e il pensiero negativo, ha seguito i ribelli e ha deciso di raccontare la loro rivoluzione, dal loro punto di vista.
Quello che però Baricco implicitamente suggerisce è che anche nel mondo creato dai ribelli c’è bisogno di raccontatori di storie, e che da come decideremo di raccontarle dipenderà anche il modo in cui le singole storie, e l’intera storia, andranno a finire.