Le postromantiche: Love me Tinder

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    Pubblichiamo un estratto da Le postromantiche. Sui nuovi modi di amare, libro di Carolina Bandinelli edito da Laterza editore. Collana I Robinson/Letture. Ringraziamo l’autrice e l’editore per la disponibilità.

    Una donna era seduta nel bar di un albergo, con gli occhi alla porta. Il suo aspetto era lindo e curato: camicetta bianca, capelli biondi ravviati dietro le orecchie. Diede un’occhiata allo schermo del telefono, su cui era aperta un’interfaccia di messaggistica, poi tornò a guardare la porta. Era marzo inoltrato, il bar era tranquillo e oltre la vetrata alla sua destra il sole iniziava a tramontare sull’Atlantico. Erano le sette e quattro minuti, poi cinque, sei. Si ispezionò brevemente le unghie senza percettibile interesse. Alle sette e otto minuti un uomo entrò dalla porta. Fisico snello e capelli scuri, la faccia stretta. Si guardò intorno, passando in rassegna gli altri avventori, dopodiché tirò fuori il telefono e controllò lo schermo. La donna accanto alla vetrata lo notò ma, a parte osservarlo, non tentò di catturarne l’attenzione. Sembravano avere più o meno la stessa età, intorno ai trent’anni. Lei lo lasciò dov’era finché lui la vide e si avvicinò.

    Alice? disse.

    Sono io, disse lei.

    Ottimo, io sono Felix. Scusa il ritardo.

    Inizia così il romanzo di Sally Rooney Dove sei, mondo bello. Anche solo dieci anni fa avremmo avuto qualche difficoltà a decifrare il senso della scena. Ci saremmo chiesti perché i personaggi guardano a più riprese il telefono, e perché si stanno incontrando al bar se non si conoscono. Oggi è evidente, nessuna promessa di thriller o spionaggio internazionale, semplicemente i due si sono conosciuti su una app. Non c’è bisogno che la scrittrice renda esplicito l’antefatto, lo intuiamo dalla coreografia dell’attesa, dal modo in cui l’uomo e la donna ricorrono allo schermo del telefono in cerca di indizi per riconoscersi, dal fatto che si osservano senza salutarsi, dal nome di lei che lui pronuncia in tono interrogativo. Nel corso del romanzo i due si innamoreranno, ma il loro primo incontro non ha niente di romantico, non solo in sé e per sé, ma anche nel modo in cui la narrazione lo incornicia: non vi è traccia di quella ‘vocazione al ricordo’ che caratterizza la scena iniziale dell’amore-evento, nessun ‘rapimento dell’immagine’, con buona pace di Barthes. L’atmosfera è fredda, descritta con uno stile asciutto e oggettivante, Alice e Felix non sono altro che una donna e un uomo che si incontrano in un posto qualsiasi per il calcolo randomico di un algoritmo e una svogliata scelta personale.

    Fino a poco tempo fa, conoscersi online era roba da ‘sfigati’ o ‘cuori infranti’, da chi non poteva permettersi altri modi, considerati migliori. Da quando sono arrivate le applicazioni, però, tutto è cambiato. Questo processo di mediazione digitale dell’intimità fa ora parte di un fenomeno più ampio che viene chiamato ‘piattaformizzazione’ della vita: abbiamo una app per capire cosa dobbiamo mangiare, una per muoverci in città, un’altra per monitorare il sonno, il peso e il ciclo, abbiamo persino quella che ci racconta le storie della buonanotte per lenire ansia e insonnia. In pochi anni, le tecnologie digitali hanno riorganizzato ogni dimensione della nostra esperienza. Compresa quella dell’amore.

    Si calcola che le dating app abbiano più di 300 milioni di utenti in tutto il mondo, soprattutto (sebbene non esclusivamente) persone dai 18 ai 44 anni circa, che vivono in contesti urbani. Al momento in cui scrivo, il settore vale circa 3,06 miliardi di dollari, con una crescita prevista di 10,87 miliardi di dollari nel 2026. Negli Stati Uniti, una persona su cinque afferma di aver incontrato il proprio compagno o compagna su una app. Non ho trovato statistiche analoghe per l’Italia, ma quando ho cominciato a occuparmene pochi le usavano (o ammettevano di usarle), mentre adesso sono (quasi) completamente sdoganate. Anche le mie amiche più restie, quelle che giuravano ‘mai e poi mai’, adesso hanno il profilo Bumble perché è il modo più ovvio, facile e veloce per incontrare qualcuno.

    Le app sono la nuova tecnologia dell’amore nuovo. Molte delle persone con cui ho parlato mi hanno detto che ormai le considerano l’opzione di default, perché ‘nessuno imbrocca più al pub’. Le app hanno creato una digital enclosure of dating – mi ha fatto notare Alberto, il mio compagno e sociologo dei media –, ossia un ‘recinto digitale’ che ri-organizza la socialità degli appuntamenti in un processo che rielabora culture romantiche esistenti e al contempo ne crea di nuove. Insomma, se ora approcciare qualcuno al bar o in palestra, al supermercato o in biblioteca inizia a sembrare ‘strano’, è perché l’esistenza stessa di ambienti pensati apposta per rimorchiare – le dating app – rendono ‘fuori luogo’ farlo altrove. Ma che di che ambienti si tratta?

    A un primo sguardo le dating app sembrano l’apparato perfetto per la sistematizzazione e il coordinamento della hookup culture: partner a non finire da scegliere in base a parametri fissi, oggettivati come merci in un megastore. Uno degli inventori di Tinder, la prima app del genere a essere messa sul mercato e tuttora la più scaricata in tutto il mondo, racconta di aver avuto l’idea mentre si trovava suo malgrado protagonista di una hookup scene. Stati Uniti, Bay Area, interno giorno. Un ragazzo bianco di classe medio-alta, vestito con la felpa della confraternita elitaria di un prestigioso college, siede al bancone di un bar. Nota dall’altra parte del banco una ragazza carina. Si volta verso di lei, che alza gli occhi proprio in quell’istante e si accorge che lui la sta guardando. Il ragazzo, colto in flagrante, s’imbarazza. Poi pensa che il sorriso di lei potrebbe essere il segno di un interesse reciproco. La timidezza allora si attenua, ed ecco l’intuizione: quanti rifiuti e occasioni perse eviteremmo se solo potessimo eliminare il dubbio di non piacere a qualcuno!

    Questa è proprio la funzione che ha (o dovrebbe avere) Tinder: permette di visionare (swipe) molteplici profili e di segnalare l’interesse con un semplice gesto del pollice (swipe right). Se l’interesse è reciproco, l’app ti informa e… it’s a match! A quel punto sarà possibile comunicare tramite la funzione di messaggistica istantanea e poi fissare un appuntamento. Tutto molto facile.

    Il caos dell’amore (o almeno della sua ricerca) si riduce così a tre semplici passi: match, chat, date. Le dating app promettono una soluzione algoritmica al problema dell’incontro in quanto si prendono una parte di responsabilità della scelta, venendo così in soccorso di chi sente il peso di dover identificare la migliore opzione tra infinite altre: grazie a Tinder e simili, possiamo vagliare innumerevoli partner e farlo in modo ‘oggettivo’, valutando le alternative sulla base di foto, bio e qualche frase ad effetto. Le app sono anche uno schermo rassicurante che assiste coloro che sono stati feriti da troppi rifiuti: possiamo sapere in anticipo se siamo o meno ricambiati, così da eliminare la fastidiosa opacità di una comunicazione indecisa o ambivalente. Pensate a quante telefonate risparmiate: ‘Adele, secondo te gli piaccio? Ieri sera mi ha guardato ma poi è andato a parlare con un’altra, che devo fare? E se gli chiedo di uscire e lui mi dice di no?’.

    L’ideologia delle dating app, l’etica (ri)prodotta dalle loro affordances (cioè le azioni che esse invitano a fare), è la comunicazione esplicita. Possiamo sbarazzarci dell’innamorato di Barthes, un ‘semiologo selvaggio’ che altro non fa che interpretare i segni dell’amato cercando risposte, il più delle volte sbagliate. Le tecnologie digitali ci consentono di fare incontri privi di ambiguità: non ci interessa la danza, qui si marcia, si va dritti al punto. Dal tormentoso enigma della reciprocità, dall’angoscia del fraintendimento e dal timore del rifiuto, ci salva l’algoritmo: lui è in grado di risolvere tutto nella diade ‘ti piaccio sì/no’. Se è sì, allora ci vediamo, e forse finiamo a letto; se è no, non si comincia nemmeno, e siccome non ti conosco, non posso rimanerci male, sei solo un quadratino colorato sullo schermo, mi basta swipparti dalla parte giusta e sarai per sempre cancellato. Al posto tuo innumerevoli altri, uno dopo l’altro, uno dopo l’altro, per sempre – l’orizzonte di possibilità dell’incontro nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.

    Confesso che, quando ho cominciato la mia ricerca sulle dating app, mi aspettavo che sarei stata sommersa da racconti audaci di notti brave. Un po’ ci speravo. E invece nulla. Sono bastate le prime interviste esplorative per capire qualcosa di molto controintuitivo: e cioè che non tutti quelli che usano le app di incontri hanno veramente voglia di incontrare qualcuno nella realtà, e ancor meno farci sesso o aprirsi alla possibilità di una storia. Le si scarica sul telefono e le si usa, si accumulano match e magari si manda qualche messaggio, ma dal chattare all’uscire insieme, e poi spogliarsi e toccarsi, ce ne corre.

    È stato Sam, un ragazzo inglese di venticinque anni e key participant della ricerca etnografica che stavo svolgendo, a demolire le mie aspettative da posta del cuore porno. Davanti a un flat white in un bar di East London, Sam – che veste sempre uguale: felpa nera, jeans neri, calzini bianchi, scarpe stringate nere – mi ha spiegato che lui, i suoi amici e le sue amiche swippano e matchano, ma raramente organizzano appuntamenti.

    «Prendi me, in circa un anno che uso sia Tinder che Bumble sarò uscito con due ragazze al massimo… Con una ci siamo visti per un paio d’ore, il tempo di una birra, poi ci siamo salutati e tutto è finito là. Mai più sentita. Con un’altra ci stavo per uscire, ma un’ora prima dell’appuntamento mi ha scritto ‘quanto sei alto?’, e io ho risposto la verità, cioè ‘non tantissimo’, e lei: ‘scusa ma non può funzionare, mi dispiace’. E poi» ha aggiunto «Tinder può essere usato anche solo per sincerarsi di essere ancora attraenti, senza bisogno di incontrare nessuno».

    In effetti sono molti a usarla così. C’è persino chi scongiura a priori la possibilità di un incontro. Julia, una mia studentessa, imposta il GPS in modo da matchare solo con persone lontane miglia e miglia, perché – dice – «t’immagini che imbarazzo incontrare per strada uno con cui ha matchato!?». Un’amica che si sta separando dopo una storia di molti anni e ha un figlio piccolo, mi ha inviato proprio stamattina una foto della schermata del suo telefono raffigurante il profilo Bumble nuovo di pacca del suo (ex?) compagno. «Me l’ha mandato lui», mi ha detto in una nota vocale, «vuole farmi capire che è di nuovo sulla piazza». Allora si è fatta anche lei un profilo, ma «solo per vedere che gente c’è in giro».

    Ha ragione Sam, queste app non servono solo per incontrare persone, ma fanno da campo di prova della propria desiderabilità, cioè ci permettono di misurare il nostro potenziale seduttivo, di valutarci e lasciarci valutare. Tutto, ovviamente, nello spazio protetto del recinto digitale, dove un rifiuto fa meno male, dove non esiste abbandono e le azioni non hanno conseguenze ‘reali’. Anche se non è raro che gli appuntamenti organizzati tramite app vengano repentinamente interrotti, e questo può ferire o lasciare quantomeno spiazzati.

    Per esempio Jason, vent’anni e qualche insicurezza, mi ha raccontato di essere riuscito a fissare un incontro con una ragazza carina. Sono andati a fare shopping nella high street del suo paese e stava andando tutto bene quando lei, dal nulla, gli ha chiesto: «Ti piacciono i cani?». Il povero Jason, come Sam, è stato onesto: «Sono allergico», ha confessato. «Scusa ma non può funzionare», ha risposto lei andandosene via e lasciando Jason solo nel pomeriggio grigio di Peterborough, tra le luci di Primark e il richiamo del pub.

    «Capisco!», ha commentato Sam quando gli ho raccontato queste storie, inzuppando nel flat white un pain aux raisins e guardando fuori dalla finestra i semafori di Kingsland Road e gli hipster con le bici a scatto fisso pronti a partire alla volta di Hackney. «In ogni caso, per quanto un appuntamento possa andare tutto sommato bene, è difficile che ne segua un secondo. Spesso si tratta di un caffè o una birra incastrati in giornate con altre priorità, in cui si cerca in poco tempo (un’ora, due?) di valutare se la persona che abbiamo davanti possa piacerci abbastanza per una relazione, una frequentazione, o una notte». Io, nel mentre, prendevo appunti e pensavo alla mia bici con le marce, ferma nel corridoio di casa come una scultura. «C’è parecchia ansia da prestazione, praticamente un Tinder-date è un colloquio di lavoro, in poco tempo devi capire se chi ti sta di fronte è fit for the role. Mentre quando conosci qualcuno all’università o al pub o al corso di tango non è così, non è che stai lì solo per valutare se quello che hai appena conosciuto può essere un buon partner».

    Anche Eva Illouz sostiene che gli appuntamenti nell’era di Tinder assomigliano sempre di più a un colloquio di lavoro: quarantacinque minuti di tempo, domande dirette, risposte falsate, ‘le faremo sapere’. Estrapolato dall’organicità della vita sociale, il date con uno sconosciuto o sconosciuta è vincolato al carattere esplicito del suo obiettivo. L’incontro romantico al tempo della sua recinzione digitale è limitato dalle affordances di disambiguazione: siccome l’obiettivo è chiaro, non c’è da perdere tempo. Se ripenso alla mia vita finora, io ho ‘perso’ sette anni di tempo prima di innamorarmi di Alberto: quando lo conobbi non mi sembrò per nulla il mio tipo, la mia amica Giulia commentò che era ‘fico’ e io risposi: «Ma no, non ci andrei mai a letto!». Ebbene, se l’avessi incontrato nello spazio ristretto di un Tinder-date, forse mi sarei persa il miglior sesso della mia vita e non avrei mischiato i miei libri con quelli di un altro negli scaffali Billy dell’IKEA.

    All’inizio della mia ricerca, prima che iniziasse la storia con Alberto, ho installato Tinder anch’io. Ero in una relazione aperta e non escludevo la possibilità di uscire con qualcuno, ma soprattutto volevo capire che effetto faceva stare sulla app. Mi andava di sentirmi ammirata, desiderata, indotta in tentazione. Con spiacevole sorpresa, notai che nonostante accumulassi un discreto numero di match ben pochi ragazzi mi contattavano via messaggio. E quando avveniva le conversazioni galleggiavano per un po’ nell’assenza di senso per poi interrompersi senza convenevoli. Ne condivido una, prodigiosa:

    lui Ciao [emoticon ombrello, slitta, pretzel]

    io Ciao

    lui Cosa fai a Londra?

    io Io sono una docente di Media, tu?

    lui Digital Project Manager

    fine

    Ho chiesto delucidazioni a Sam, questa volta davanti a una pizza a base di cavolfiore, seduti a un tavolo costruito con legno di scarto in una pizzeria di Covent Garden. Non capivo perché le persone con le quali matchavo non mi contattassero: «Se incontro uno in discoteca e lui mi dà un segnale di apprezzamento, non ti dico che è scontato uscirci, ma magari un flirt, un bacio, lo scambio dei numeri… qualcosa! E invece qui niente… gli piaci ma non succede niente, e allora che gli piaci a fare!?». «Non capisci», mi ha risposto Sam scuotendo la testa divertito e incuriosito da quella che dovette sembrargli una forma di ottusità da Millennial della prima ora, «un match non esprime l’intenzione di un incontro, un match è un match». «Quindi mi stai dicendo che non significa che qualcuno vuole uscire con me per davvero?». «Ma certo che no! Tu non capisci perché pensi come se fossi offline, ma nelle dating app è diverso, è tutto un altro mondo!».

     

     

    La logica di questo mondo però continuava a sfuggirmi. Perché la gente sta sulle dating app se non vuole incontrare nessuno? Tornata a casa ne parlai con mio fratello mentre cucinavamo una pasta con la pommarola che ci aveva spedito la nonna (Brexit non era ancora successa, erano i tempi del ‘pacco da giù’). «Se ci pensi è assurdo», commentò lui, «sarebbe come scegliersi un pasto su Deliveroo e poi non finalizzare l’ordine, o chiamare un Uber senza dover andare da nessuna parte. La domanda che dobbiamo farci è: come funziona la app quando non funziona?». Questa apparente contraddizione aveva agganciato il suo spirito lacaniano, per cui le cose non sono mai quello che sembrano.

    Ho a lungo ripensato alle parole di Sam – «un match è un match» – e ho capito cosa intendeva: un match è capace di produrre un senso di benessere momentaneo, così come subito dopo genera il vuoto della perdita, a cui a sua volta immediatamente ripara un altro match, in una circolarità di cui la app è il fulcro. La app non vuole essere lasciata, non vuole che ci innamoriamo di qualcuno al di fuori di lei, vuole tenerci là, appiccicati e avvinti, appesi alle sue promesse, ai futuri possibili che ci segnala sotto forma di profili di gente a caso. Così ci seduce: sollecita, incoraggia, vibra. Quello che dapprima mi sembrava paradossale d’un tratto mi è parso cristallino: una dating app per essere profittevole necessita che gli utenti continuino ad usarla, cioè che non trovino la ‘persona giusta’. In una concatenazione solo all’apparenza illogica, le dating app per funzionare devono non funzionare. In questa prospettiva, non dobbiamo guardare alle app come a mezzi digitali che connettono le persone, ma come a oggetti ai quali ci connettiamo, e a cui ci affezioniamo. Così ho cominciato a chiedermi non solo cosa gli utenti fanno con la app, ma anche cosa la app fa agli utenti. Ispirata da Donna Haraway, che in Manifesto cyborg scrive «Le nostre macchine sono fastidiosamente vivaci, e noi spaventosamente inerti», mi sono messa a indagare cosa vogliono le persone dalla app, ma anche cosa vuole la app dalle persone.

    Qualche tempo dopo ho invitato Sam a cena da me. Volevo che vedesse dove abitavo, e volevo cucinargli le polpette, che le mangiasse e dicesse quanto erano buone. Quando è arrivato, ho versato il vino rosso di qualità media in due calici. Ci siamo seduti sul divano. Gli ho detto che avevo riflettuto su questa storia dei match e che adesso mi era tutto chiaro: un match non è un mezzo per ottenere qualcosa al di fuori dei confini della app, ma è un fine in sé stesso. Un match è un oggetto che l’algoritmo produce e che rappresenta la virtualità di tutti gli incontri possibili tradotta in unità discrete, accumulabili e quantificabili. È un gettone di desiderabilità potenziale e infinitamente replicabile, un segno che dice ‘tu piaci’, e che si riproduce a partire da automatismi tecnici che richiedono dal soggetto un input minimo, swipe right: niente più di un movimento orizzontale del pollice. «Praticamente la app fa tutto da sola», mi ha risposto, mentre in padella l’aglio sfrigolava.

    «Esatto! E le app non ci vogliono lasciare andare, per questo ci danno i match, e matchando e swippando, seduti in poltrona o in treno, ci rincuorano che siamo piacenti abbastanza, che un tizio X ci considera attraenti e che potrebbe, in linea teorica, voler uscire con noi. Così facendo la app ci permette di accedere all’immaginario dell’incontro, dilettarci con la sua possibilità teorica, senza doverci mettere il corpo». Mentre dicevo tutte queste cose, pensavo che forse stavo cercando di sedurlo. Cosa succederebbe se stasera, invece di parlare di sesso e amore, li facessimo? Quella mia fantasia si componeva delle parole e delle cose che stavano succedendo in quel momento – la maglietta bianca, l’accento british, la sua figura sul mio divano –, le stavo usando come un trampolino per fare un salto carpiato nella sensualità. Per fantasticare così, pensavo, bisogna invitare qualcuno a cena, averlo là con tutto l’ingombro della sua persona, essere esposte alle sue reazioni imprevedibili. Invece con le dating app si può solo immaginare, rigirare nella propria mente match, messaggi e fotografie sapendo che sì, ci sono persone dall’altra parte dello schermo, ma sono vere fino a un certo punto e, se tutto non va come sperato, non dobbiamo prendercela con noi stesse – ‘Forse non gli sono piaciute le polpette? Forse sono troppo più grande di lui?’ – ma con l’algoritmo.

    L’arcano è l’algoritmo. Su quali leggi si basa il calcolo della ‘compatibilità’? Non si sa. Possiamo solo indovinare, ipotizzare, sperare che interpreti bene i nostri dati, che ci apprezzi, che ci capisca. Entriamo in partita più con l’algoritmo che con gli altri umani. La mia amica Sara, per esempio, è furiosa con Hinge che continua a suggerirle uomini «zero interessanti, cioè proprio non idonei! Oh, ma hai visto questo che foto ha messo? Dai! Ma ti pare!? Scusa ma per chi mi ha preso?». Olivia, una ragazza francese che studia matematica, ha raggiunto le sue conclusioni: l’algoritmo – mi dice – «it’s dog shit». Ma tutto sommato è meglio arrovellarsi per capire come funziona e dove sbaglia la app, che sentirci le uniche responsabili di un amore non riuscito.

    Note