Era l’inverno del 2017 e una domenica piena di sole me ne andai a Brescia, dove era stata inaugurata una grande mostra dedicata al poeta Lawrence Ferlinghetti: A Life. Lawrence Ferlinghetti. Beat generation, ribellione, poesia. Di Ferlinghetti non sapevo granchè, ma quella mostra, di cui avevo sentito parlare in un servizio al TGR, mi attirava, così presi un treno e andai.
Lungo il tragitto dalla stazione al Museo di Santa Giulia vidi qua e là le affissioni della mostra, con quel buffo ritratto di Ferlinghetti, colto nel gesto di aggiustarsi il cappello, affacciato su viuzze e piazzette di una città opulenta, godereccia, dove ragazzini e ragazzine, emuli di rich kids alla Tommaso Zorzi ed Elettra Lamborghini, sedevano nei dehor di sontuosi wine bar presidiati da una certa quantità di auto di lusso, il che mi sembrò quanto di più radicalmente estraneo alla storia folle e deragliata della beat generation. Ma non ha importanza.
Oggi Brescia è in preda alla terza ondata di contagi da Covid-19 (4.653 casi nell’ultima settimana) e ripensare alle strade placide di quella giornata, al sole tiepido sulle pietre del Tempio Capitolino, provoca in me una incrinatura, uno di quei soprassalti difficilmente classificabili, che caratterizzano le oscillazioni della psiche durante la pandemia. Non è un semplice rimpianto, ma una forma acuta e mai prima sperimentata di nostalgia per l’infraordinario e la normalità perduta. Non si dovrebbe provare troppo affetto per la quotidianità di un tempo, anche perchè, come recita uno slogan di qualche mese fa, “la normalità era il problema” e perciò “non vogliamo tornare alla normalità”. Ferlinghetti, probabilmente, sarebbe d’accordo. Eppure, non c’è dubbio che oggi è facile appannarsi e venire risucchiati in un abisso, anche di fronte al banale ricordo di una domenica invernale.
Camminando per le sale del museo, dove era stata ricostruita la storia della cultura beat e la parabola lunghissima di Ferlinghetti, piano piano mi ero convinto che la vita di Ferlinghetti, che all’epoca aveva 98 anni, era stata felice, ben spesa o era stata, quantomeno, dedicata alla ricerca della felicità. Questa impressione era in me assolutamente netta, forse perché, essendo io non così felice e vedendo intorno a me una marea montante di frustrazione e scontentezza, ero pronto a ricevere e fare mia la vitalità disperata e frenetica dei beat, testimoniata nei tanti documenti e feticci esposti in mostra.
La felicità è un sentimento tra i più diffamati, sputtanati, secolarizzati; di solito viene rappresentato con un sorriso fotografato in primo piano, e a tutti preme dichiarare la propria felicità con una foto, come una forma di autopromozione, in obbedienza a quell’imperativo sociale che ci chiama alla positività, e non è che a Ferlinghetti mancasse il sorriso, tutt’altro, ma dietro al sorriso di Ferlinghetti io quel giorno a Brescia avvertivo la precisa volontà di contagiare e un compito autoassegnato che consisteva nel testimoniare un’idea, l’idea beat, l’idea della libertà, dell’avventura, del contatto e della comunione, e infine quel sorriso, osservato in tante foto affisse in mostra, mi appariva come il radicamento di una condizione esistenziale, non semplice e riproducibile, ma faticosamente conquistata attraverso l’esperienza della guerra, il caos, il viaggio, il mutamento.
Con il catalogo della mostra sulla scrivania e sul computer il file word di un articolo che avevo scritto all’epoca per linus, vorrei provare a ricostruire una cronologia arbitraria della vita di Ferlinghetti, cercando di isolare alcuni momenti e indovinare per quali tappe quella felicità e quel sorriso si sono formati.
Coney Island, al volgere del secolo
Un uomo siede all’interno di una piccola automobile biposto sulla pista di un autoscontro. In un’altra vettura siede una donna. È la prima volta che si vedono e questo primo incontro accade nel contesto di un’attrazione per parchi divertimento. Ancora non lo sanno, ma diventeranno il padre e la madre di Lawrence Ferlinghetti. Ai due genitori il figlio dedica una poesia, dichiarando, implicitamente, come la sua vita, la sua evoluzione biologica ed esistenziale, trovino i loro albori non in una circostanza qualunque, ma in un episodio romantico e inscritto nella fantasmagoria di un rito di massa e popolare: «Guidando un auto di cartone senza patente\al volgere del secolo\mio padre si scontrò con mia madre\su un autoscontro a Coney Island\dopo che si erano spiati mentre mangiavano\in una pensione francese lì vicino\E dopo aver deciso su due piedi\che lei era tutta per lui […]».
Settembre 1945, Giappone
Ferlinghetti, ventisei anni, è un ufficiale della marina americana e partecipa alla seconda guerra mondiale come capitano in un cacciasommergibile. Nel 1944 è in Normandia e nel settembre 1945, sei settimane dopo l’esplosione della bomba nucleare su Hiroshima e Nagasaki, giunge in nave nel porto di Sasebo, e poi, in treno, arriva a Nagasaki. Qui osserva, al posto della città di Nagasaki, una distesa piatta e fumante, grande circa tre miglia quadrate. Ferlinghetti diventa un militante pacifista. Ed è forse sempre in quell’occasione che, come in una reazione brusca e contraria alla fissione nucleare, comincia a scorrere dentro di lui l’aspirazione alla felicità -personale e pubblica, universale- di cui una volta mi parlò per telefono Giada Diano, amica e studiosa di Ferlinghetti.
1953, San Francisco
«Mentre guidavo la mia vecchia Austen, di ritorno dal mio studio in Mission Street», raccontò Ferlinghetti, «vidi un uomo su una scala, subito dopo l’angolo tra la Columbus e Broadway. Stava montando una piccola insegna con scritto City Lights Pocket Bookshop. L’uomo sulla scala era Peter D. Martin. Mi raccontò di aver avuto questa idea di aprire una libreria di tascabili […] Mi disse che stava cominciando con 500 dollari. Mi lasciai sfuggire di bocca che ne avevo altri cinquecento e se voleva un partner».
Peter D. Martin era figlio di un anarchico abruzzese, Carlo Tresca, e nipote di Elizabeth Gurley Flynn, suffragetta e militante comunista, scomparsa in Russia nel 1961. Grazie a un incontro casuale, come può esserlo quello tra due paraurti in un autoscontro, Ferlinghetti e Martin aprirono il bookshop City Lights e la casa editrice omonima che nel 1956 pubblicò Howl di Allen Ginsberg. La favola di City Lights ricorda certi storytelling usati dalle startup della Silicon Valley per narrare l’origine leggendaria di una grande fortuna. In questa somiglianza tra le due narrazioni sembra di ritrovare uno dei tanti legami filogenetici tra il capitalismo californiano di oggi e la cultura libertaria degli anni Sessanta, figlia della beat generation. Ma se il movimento beat ama il caso, il tiro dei dadi e l’I-Ching, la Silicon Valley preferisce il calcolo dei dati e l’algoritmo.
1967, Khabarovsk
Come quei disoccupati e girovaghi che nei film sulla grande depressione vediamo saltare sui treni merci, Ferlinghetti si sposta da un punto all’altro del mondo, spesso dov’è in corso una sollevazione o una protesta. Nel 1967 attraversa la Russia in Transiberiana. Un bel giorno arriva a Khabarovsk, città al confine con la Cina. Di quel pomeriggio esiste una foto di lui in cappotto e colbacco, davanti a una parete scrostata. Prima o dopo lo scatto scrive i versi dritti e semplici di Ricetta per la felicità a Khabarovsk o in qualsiasi altro luogo: «Un bel viale alberato\con un bel bar al sole\con caffè nero forte in tazzine molto piccole\Un uomo o una donna, non necessariamente bellissimi\che ti amino\Una bella giornata».
Maggio 1968, Parigi
Nel maggio della rivolta operaia e studentesca, Ferlinghetti è a Parigi. Venti anni più tardi, nel 1988, pubblica un romanzo: L’amore nei giorni della rabbia. Nel libro è raccontata una storia d’amore ambientata a Parigi, nata nel maggio 1968 e finita a settembre. Uno dei due amanti dice all’altro: «The more I make love, the more I want revolution; the more I make revolution, the more I want to make love». Tipico patetismo sessantottino, se ascoltato con le orecchie di oggi, ma forse è solo perché dal ‘68 è passato troppo tempo e la posterità non è più nella condizione di comprendere lo stato mentale di chi ha vissuto il maggio parigino.
Brescia, 13 ottobre 2005
Antefatto: il padre di Ferlinghetti muore sulle scale di casa sei mesi prima della nascita del figlio. La madre, Albertine Mendes-Monsanto, entra poco dopo in manicomio. Per buona parte della sua vita Lawrence pensa di chiamarsi «Ferling», fino a quando non scopre che il suo cognome è solo una versione anglicizzata di «Ferlinghetti» e che quindi suo padre fu un italiano emigrato in America. Passa molto tempo, Lawrence diventa un poeta, anche in ragione della sua condizione di orfano, così come la ricerca delle origini del padre diventa una ragione di vita. A 86 anni, dopo molte indagini, scopre che suo padre Carlo Leopoldo era nato a Brescia, in contrada del Carmine, dove un giorno dell’ottobre 2005 Ferlinghetti arriva, ritrovando in via Cossere 20 il portone della casa natale. A quel punto succede qualcosa che non sorprende più di tanto, specie chi ha familiarità con il carattere sospettoso dei lombardi: «Trovato l’indirizzo in un quartiere malandato, ho bussato e bussato alle porte del condominio, ma non ho ricevuto nessuna risposta. Alla fine, un uomo basso con i pantaloni calanti, che trasportava un radiatore di qualche tipo, ha aperto una porta e ha cominciato a urlarci contro nel dialetto locale “Artisti parassiti! Artisti parassiti!”, e ci ha detto di portare il culo lontano da lì. Lo abbiamo assecondato, ma sulla strada di ritorno verso il nostro furgoncino, ci si è avvicinata una macchina della polizia e ci ha chiesto di metterci contro il muro mentre ci controllavano i documenti. Era chiaro che quei poliziotti non sapessero cosa fare di noi, così hanno telefonato a qualcuno per scoprirlo». Ferlinghetti viene quindi portato in questura, dove l’equivoco è risolto. Come non può darsi un momento di allegria, di grande felicità, da questo intreccio in cui a un bussare e bussare e bussare, segue finalmente il momento supremo del ritrovamento della casa paterna e infine un extra di avventura e di vecchia commedia all’italiana, con tanto di intermezzo in questura?
24 marzo 2019
Ferlinghetti compie 100 anni. Qualche giorno prima lo raggiunge per telefono un giornalista. Ferlinghetti non ci sente più bene, ma alla fine, senza sottoporsi al rito giornalistico della domanda e della risposta, sbotta al telefono: «It would take a whole new generation not devoted to the glorification of the capitalist system. A generation not trapped in the me, me, me. I have an engine that doesn’t run on petroleum! It runs on pure energy».