Tra il mondo culturale e no-profit e il mondo dell’impresa. Un dialogo con Patrizia Asproni

Scarica come pdf

Scarica l'articolo in PDF.

Per scaricare l’articolo in PDF bisogna essere iscritti alla newsletter di cheFare, completando il campo qui sotto l’iscrizione è automatica.

Inserisci i dati richiesti anche se sei già iscritto e usa un indirizzo email corretto e funzionante: ti manderemo una mail con il link per scaricare il PDF.


    Se inserisci il tuo indirizzo mail riceverai la nostra newsletter.

    image_pdfimage_print

    «Mi chiedono: ma tu che lavoro fai? Io rispondo: non lo so. Ricordo sempre la frase di Jacques Séguéla, il maestro della pubblicità ai tempi di Mitterand, di cui aveva curato la campagna elettorale: ‘non dite a mia madre che faccio il pubblicitario, ma che sono un pianista in un bordello’. Almeno così, risultava una professione comprensibile». Patrizia Asproni da più di vent’anni si occupa di management culturale, è presidente della Fondazione Industria e Cultura ed expert nel Comitato di Programma Horizon Europe, oltre a sedere in diversi CdA e consigli scientifici di Fondazioni ed enti. Alla fine del 2022 ha rinunciato a un secondo mandato alla presidenza del Museo Marino Marini di Firenze, dove ha introdotto pratiche come la figura del ‘visiting director’ o i bandi per cercare le formule più originali di fruizione e interazione.
    «Mi sento un mix considerato abbastanza strano, in bilico tra mondo culturale e no-profit e il mondo dell’impresa. Eppure, non dovrebbe essere così strano, perché in una società complessa abbiamo bisogno di professionalità complesse. La formazione mi sembra fondamentale: ci provo alla Luiss Business School dove insegno ‘speculative design’ e all’inizio del corso vedo tutti disorientati. Poi capiscono, e se ne innamorano».

    Patrizia Asproni

     

    Parliamo allora di una parola magica e ambigua: innovazione. Perché è così difficile capire cosa intendiamo quando viene ripetuta in modo così ossessivo?

    «Si riferisce a tante cose assieme. A me sembra che la parola innovazione venga confusa con tecnologia. Ma la tecnologia oggi è scontata e persino indipendente da noi, lo dimostra l’intelligenza artificiale che è addirittura auto-generativa. Io preferisco pensare all’innovazione legata a una creazione ex nihilo. Dunque dovremmo chiederci perché ci sia poca creazione e perché invece ci siano tanti riadattamenti dell’esistente, sia come aggiustamenti sia come rigenerazioni. Di fronte a questa stasi creativa, dovremmo fare uno sforzo per pensare ‘out of the box’, uscire dalla scatola in cui siamo, una delle tante scatole in cui viviamo, e spostare letteralmente il nostro punto di vista. C’è un detto indiano: ‘Quando vedi tutto grigio, sposta l’elefante’. È una semplice verità, ma se non abbiamo gli strumenti o le possibilità per spostare questo elefante, ci dobbiamo spostare noi per non rimanere condannati al grigio. Innovare significa dunque spostare l’elefante o spostare sé stessi. E ha a che fare molto con il processo, il metodo: oggi è impossibile non lavorare in squadra, non mescolare competenze assolutamente diverse e saper ascoltare».

    E da cosa dipende secondo lei questa fase di “stasi” creativa?

    «Ritorno alla questione della tecnologia: anche in questo caso ci facciamo troppo affidamento, penso in particolare al digitale, sapendo che la tecnologia è l’hardware e il digitale è il software ed è anche contenuto oltre che device. Dunque, ho l’impressione che stiamo delegando al digitale tutta la parte creativa.
    Certo, osserviamo anche alcune tendenze interessanti. Ci scopriamo ad esempio ‘prosumers’, allo stesso tempo consumatori e produttori di contenuti, anche semplicemente vivendo la quotidianità, contenuti che poi le società tech utilizzano e da cui la stessa intelligenza artificiale attinge sistematicamente.
    Ecco, lo sforzo creativo cui mi riferisco sfugge a quella frenesia tecnologica, ma resta legato alla dimensione di otium: mi fermo, mi prendo del tempo, creo perché sono fuori dal quotidiano, fuori dall’ordinario; oggi il tempo è divorato da un loop produttivo e alienante che oscura la dimensione creativa che è libertà di pensiero. Abbiamo bisogno di tempo. E intanto l’arte sta soffrendo e spesso replica stilemi già visti: non a caso si vede spesso un ritorno all’antico e il fatto di reinterpretarlo diventa una sorta di rifugio, quasi dovessimo volgere lo sguardo indietro per uscire dall’artificiale e ritrovare l’artificio».

    Accennava all’indipendenza della tecnologia. Oggi si discute molto dei rischi dell’intelligenza artificiale, ma irrisolta è anche la questione dell’estrazione e dell’uso di una montagna di nostri dati digitali da parte di un pugno di miliardari. Non c’è bisogno di un nuovo patto?

    «Credo dobbiamo discuterne, ma senza spaventarci, perché conviviamo da sempre con la storia della tecnologia. Di recente un ingegnere dell’ESA, l’ente spaziale europeo, mi raccontava della selezione e il training dei nuovi astronauti, la sfida che devono reggere psicologicamente per affrontare un viaggio così lungo dentro una nave spaziale. Ma non è identico a quello che hanno vissuto nel passato gli esploratori, quando si sono buttati in un mondo che non conoscevano? Prima c’è stato il mare e ora lo spazio, ma sempre di ignoto si tratta e sempre alla tecnologia ci si è affidati. Di fronte allo smarrimento che viviamo ci chiediamo: come lo guidiamo questo processo? Ma forse dovremmo chiederci: siamo in grado di farlo? Allora, per poter rispondere a queste domande l’unica leva che possiamo usare è fare uno sforzo culturale, non per contrapporre la cultura alla tecnologia, ma per dotarci di strumenti di comprensione e di consapevolezza.
    Ma qui deriva un altro aspetto: l’accesso alla cultura. Perché mi sembra una chiave di volta in senso democratico: l’accesso alla cultura è sostanza della democrazia. La cultura è un diritto come l’acqua e come l’acqua deve essere pulita e accessibile; è un dovere dei governi garantire che sia così e un diritto per tutti noi, proprio come ha sottolineato l’Unesco nel Programma 2050. Dunque, se noi sosteniamo la cultura come diritto universale rafforziamo la struttura democratica delle società. Dobbiamo riconoscere anche l’altro verso della questione, cioè che la povertà cognitiva è povertà democratica. Penso a una piccola cosa molto rivelatrice: oggi usiamo meno parole per comunicare più velocemente, ma meno parole condizionano la creatività e limitano la realtà, perché sappiamo come le parole creino realtà».

    Lei è impegnata all’interno del programma Horizon nel processo di definizione delle nuove linee guida delle politiche culturali europee. Su quali snodi state lavorando?

    «Ci lavoro come expert per il ‘Cluster 2’, cultura, creatività e inclusione sociale, su nomina del Ministero dell’università e della ricerca per il programma 2021-2027. Ci vengono sottoposti i programmi elaborati dalle varie commissioni rispetto a questi argomenti e ci confrontiamo. Mentre un tempo i piani avevano dei percorsi lineari, oggi sono sempre più spesso alterati da fatti gravi e improvvisi, penso alla guerra in Ucraina, alle emergenze sociali o ai cambiamenti tecnologici velocissimi. A me sembra che il nodo di qualunque politica culturale sia l’inclusione sociale. L’Europa vive una questione molto forte di tipo demografico. Ci leggiamo un risvolto di preoccupante digital divide, che non è solo un tema generazionale ma di democrazia in senso ampio, di accesso a dati, informazioni, servizi. E lo leghiamo ai grandi flussi migratori, alle grandi e complesse questioni culturali e sociali, al tema delle città e della capacità di promuovere reciproche comprensioni fra codici culturali diversi. Su tutto questo è proprio la cultura a fare la differenza. C’è poi un tema di mobilità e di libera circolazione, di cittadini e turisti e tutte le conseguenze economiche, sociali ed ecologiche che comporta. Insomma, mi trovo in un osservatorio con una visione estremamente vasta dove però si intravvede tutta la trama di connessioni».

    Da questo punto di vista nel nostro paese rimangono aperte sia la questione generazionale che di genere, che si traducono in gap, colli di bottiglia, tetti di cristallo e tutto ciò che sappiamo. Quale innovazione è possibile senza affrontare questi temi?

    «La situazione in Italia è davvero preoccupante. Dal mondo della politica a quello delle imprese c’è una profonda incomprensione su cosa significa riconoscere e coinvolgere quella che poi è la maggior parte della popolazione. Ci troviamo sempre allo stesso punto della stessa discussione e ogni volta si parla di ‘quote’, come se giovani e donne fossero delle disabilità o delle soggettività da proteggere.
    La discussione sulle quote rosa la trovo orribile. Ormai mi sono convinta che dovremmo usare il modello nordico per cui per legge si impone la presenza paritetica delle donne nelle imprese e nelle istituzioni. Io non partecipo più ai convegni riservati alle donne, che discutono tra loro, perché è un modo per il mondo maschile di sentirsi la coscienza pulita. E intanto gli uomini possono farsi i loro panel, per discutere delle cose importanti: una scena che ormai ha un sapore patetico. Sembra sempre che stiano discutendo di prostata, da cui io sarei naturalmente esclusa perché non mi riguarda, anche se – a dire il vero – qualche riflessione in merito potrei portarla anch’io… È una cosa su cui mi sono impegnata in prima persona, lanciando la campagna #Boycottmanels. Il problema è che gli uomini al vertice di qualunque impresa o istituzione sono abituati a cooptare altri uomini. E se fa capolino una donna, è sempre per lo stesso meccanismo di cooptazione».

    Questa sembra la parola-chiave, perché svela un paese di caste, famiglie, corporazioni, consorterie

    «La cultura del nostro paese è questa, sono circoli decisamente chiusi. La stessa resistenza scatta nei confronti dei giovani. Quando alle riunioni dei giovani di Confindustria vedo che in media hanno quarant’anni, mi chiedo sempre quando si considereranno mai vecchi. Di recente ho incontrato a Pechino un bravissimo tycoon di 23 anni e di fronte a lui ho riconosciuto il mio bias: anch’io per riflesso ho pensato che non avesse abbastanza strumenti o esperienza e che non potesse essersi fatto dal nulla e non potessimo parlarci alla pari. Continuiamo a frequentare i nostri simili. Certo, non andiamo alle feste dei quattordicenni, saremmo a disagio noi e loro, ma alla fine non sappiamo davvero cosa pensano: è un esempio estremo, ma dovremmo riconoscere che restiamo sempre dentro un contesto autoreferenziale che alimenta quel bias. Eppure, basterebbe pensare solo al fatto che le idee creative e le energie per portarle avanti le hai quando hai le cellule celebrali giovani. Lo dimentichiamo troppo spesso.
    In questo scenario vedo tuttavia due possibili vie d’uscita: da una parte le università, dove la presenza e il ruolo delle donne in tutti i settori sta avendo un grande protagonismo; e dall’altra la rivoluzione digitale: finita l’era del primato della forza fisica, si apre un mondo con possibilità inedite».

    Vuole dire che passeremo direttamente dal Neanderthal all’hi-tech?

    «Qualcosa di simile [ride]… Non ci resta che usare la sponda democratica che ci offre il mondo digitale per forzare quel passaggio culturale. A me piace come le ragazze stiano occupando le discipline STEM, scienza, tecnologia, ingegneria e matematica; mi piace osservare come si stiano affacciando tante Rettrici e che alla presidenza del CNR ci sia una donna, insomma cose mai viste. Persino in politica, mai si era visto due donne contemporaneamente a capo del governo e dell’opposizione. Un certo sconcerto del mondo politico e culturale forse passa anche da questa immagine».

     

    Immagine di copertina ph. Mark Higham @theartshot360 da Unsplash

    Note