Fare filosofia in Italia nel XXI secolo

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    Alcuni anni fa fu chiesto a diversi filosofi europei di presentare la situazione della filosofia nel proprio paese (Raymond Klibanski, David Pears (eds), La philosophie en Europe, Paris, Folio/ Gallimard, 1993). Il capitolo italiano fu scritto da Vittorio Mathieu. Il suo saggio sullo stato della filosofia in Italia si apriva con un’osservazione in merito alla fine dei patriarchi che, se già vera allora, mostra oggi tutte le sue conseguenze, nel bene e nel male. Mathieu riconosceva un cambiamento nel panorama della filosofia italiana che riassumeva nella formula: il n’y a plus de patriarches. Una filosofia liberata dal giogo dei padri, ma anche una filosofia orfana e in cerca di se stessa.

    La presentazione generale dello stato della filosofia italiana si chiudeva però con ottimismo poiché se prima della guerra non c’era che un solo filosofo noto fuori i patri confini—Croce—, nell’ultimo decennio del XX secolo sono molti i filosofi italiani apprezzati e conosciuti all’estero. Inoltre Mathieu rilevava allora il valore di un’iniziativa privata come l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli che dal 1975 ha aperto e fatto conoscere la filosofia italiana al mondo accademico internazionale grazie all’organizzazione di convegni, seminari e un numero notevole di pubblicazioni. Però, se è indubbio che diversi filosofi italiani oggi abbiano acquisito fama internazionale (ma nessuno è leader globale. Il Gottlieb Duttweiler Institute in Svizzera, ad esempio, che stila la classifica dei più influenti pensatori mondiali, riconosce solo a due italiani questo primato: Umberto Eco e Carlo Ginzburg), è altresì vero che l’Istituto di Napoli abbia a tutt’oggi un futuro incerto. E forse il suo destino è simbolicamente quello della filosofia italiana—o di un certo modo di pensare e fare la filosofia in questo Paese.

    Qual è dunque la situazione della filosofia in Italia nel XXI secolo?

    È difficile dare una risposta precisa e univoca a questa domanda poiché il nostro Paese non ha un sistema centralizzato e piramidale della cultura filosofica come altri paesi. Nel Regno Unito, in Francia o negli Stati Uniti, ad esempio, si può capire la direzione della filosofia semplicemente guardando chi insegna in certe università, seguendo alcune carriere e vedendo passare alcuni celebri nomi da un dipartimento a un altro, gettando un occhio al catalogo di poche case editrici accademiche le cui pubblicazioni dettano l’agenda filosofica dei rispettivi Paesi. In Italia è diverso.

    Quali sono i Dipartimenti leader? Quali le case editrici che hanno autorità? Come di consueto si deve rispondere “dipende”. Dipende perché abbiamo molti buoni dipartimenti di filosofia, ma nessuno detta legge sugli altri. Nessuno guida la formazione filosofica del Paese. Non si può guardare dunque dentro i dipartimenti per capire la direzione che sta prendendo la filosofia. Accade così che siano pubblicati molti libri di filosofia ma spesso poco pubblicizzati oppure conosciuti solo da un numero esiguo d’interessati.

    Se possedessimo una sola casa editrice specializzata in filosofia invece che decine di collane sparse, sarebbe più facile fotografare lo stato della disciplina. E sarebbe anche più facile per gli stranieri capire la direzione della filosofia in Italia. C’è da dire inoltre che di veri e propri Dipartimenti di Filosofia ne sono rimasti solo due (Sapienza di Roma e Statale di Milano) mentre gli altri sono divenuti tutti “filosofia e qualcos’altro”, dove in genere si può sostituire il “qualcos’altro” con una o più scienze umane (comunicazione, spettacolo, scienze religiose, letteratura, ecc.).

    Per sopravvivere la filosofia è stata assimilata ad altre discipline. Forse è un bene, forse è un male. Di sicuro la disciplina ha perso molti posti, dottorandi e ancor più finanziamenti. Un problema comune a tutte le scienze umane dopo la riforma universitaria, come rileva anche Galli della Loggia (“I sommersi e i salvati nell’università senza passato”, Corriere della sera, 16 marzo 2016)

    Oggi, inoltre, non solo non vi sono più patriarchi ma i giovani filosofi e filosofe devono spesso uscire dal proprio guscio per affermarsi e poter guadagnare una posizione. E quando escono dall’Italia, trovano un panorama molto diverso da quello che conoscevano. C’è innanzitutto molta competizione. È poi richiesto un approccio ai testi capace di dialogare con la filosofia contemporanea, con i problemi che si discutono oggi attualizzando i classici senza ovviamente volgarizzarli. Il giovane studioso si gratta il capo e cerca di capire come usare ciò che ha appreso ancora studente, spesso discusso in una prospettiva asfittica incapace di andare oltre le pubblicazioni del proprio professore di riferimento. Inizia a imparare ora che il proprio futuro dipende da come ha costruito la propria educazione filosofica e dal respiro che essa ha avuto.
    Ma, formatosi in Italia, quale indirizzo avrà scelto il nostro giovane filosofo?

    Bisogna dire prima di tutto che la forza della formazione italiana è nella storia. È comunemente riconosciuto il fatto che sappiamo formare ottimi storici della filosofia grazie alla nostra tradizione storicista—e forse grazie anche a una sensibilità che ci portiamo in dote. Se ha avuto questo tipo di formazione, probabilmente avrà una carriera con meno ostacoli, il giovane ricercatore. Le altre due grandi tradizioni ancora viventi accanto a quella storica sono quella “continentale” (diciamo di indirizzo franco-tedesco, che va da Husserl a Derrida passando per Heidegger) e quella “analitica” – con ottimi rappresentanti in Italia. Mentre la prima privilegia il commento al testo e favorisce un’attenzione all’autore personalizzando fortemente la filosofia, la seconda procede per posizioni di problemi e analisi di argomenti promettendosi di chiarire i concetti impiegati nei diversi campi filosofici senza piegarli ai singoli autori. Quasi completamente estinta è invece la tradizione marxista la quale ha avuto in Italia una sua scuola: da Gramsci e Labriola a Galvano della Volpe e Lucio Coletti. Un peccato perché — almeno per Gramsci — c’è oggi un ritorno d’interesse internazionale. Probabilmente l’errore è consistito nel mescolare lo studio con l’ideologia. Scomparsa quest’ultima, non si è più trovata una ragione nel primo.

    Il giovane studioso poi, confrontandosi con i colleghi stranieri più curiosi, si troverà ad affrontare la questione in merito a chi loro possono leggere tra i contemporanei del suo Paese, cosa c’è di nuovo sotto il nostro sole. È il momento in cui cade in imbarazzo e viene preso da un leggero sconforto. A fronte di ottimi studiosi, una pecca della filosofia italiana è la sua mancanza di originalità nel suo insieme. S’insegna come leggere e commentare il pensiero di un’altra persona (spesso molto lontano nel tempo), ma in un corso di filosofia raramente s’insegna come pensare un problema filosofico con la propria testa e osare una soluzione personale. Solo sporadicamente i filosofi italiani hanno aperto nuove prospettive in filosofia. Il problema centrale è forse che non abbiamo una tradizione filosofica di lingua italiana paragonabile a quella francese, tedesca o inglese. Questo ci rende fragili ed esposti facilmente al semplice ruolo di commentatori. Lo storicismo resta la nostra forza e la nostra debolezza. (Se invece il nostro giovane amico vorrà orientarsi nella filosofia contemporanea internazionale, potrà leggere l’utile Filosofia contemporanea, a cura di Tiziana Andina, Carocci, 2013, un’opera collettiva scritta da giovani filosofi e filosofe italiani, con prefazione di M. Ferraris).

    Due nuovi scenari tuttavia si sono aperti in questi ultimi anni: l’Italian Theory rappresentata da Roberto Esposito e il nuovo realismo proposto da Maurizio Ferraris.

    C’è un ampio interesse internazionale che abbraccia filosofi italiani diversi, da Antonio Negri a Giorgio Agamben, i quali rimangono in dialogo principalmente con la tradizione francese. Il libro Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana (Einaudi, 2010) di Roberto Esposito rappresenta questo indirizzo oggi molto discusso chiamato Italian Theory, che dovrebbe sostituire — questa la sua intenzione — la French Theory nei dipartimenti di Cultural Studies d’America. Non lo esaurisce, né lo riassume, questo movimento, ma ne dà una forma compiuta e ne imposta la discussione nelle sue linee essenziali — linee decise dall’autore stesso e che rinviano direttamente alla sua opera (Communitas: origine e destino della comunità, Einaudi, 1998; Immunitas: protezione e negazione della vita, Einaudi, 2002; Bios: biopolitica e filosofia, Einaudi, 2004).

    Quest’operazione pone al centro dell’interpretazione del reale la categoria di bios che l’autore riconosce come il tratto distintivo della filosofia italiana. Esposito parte dalla premessa che la filosofia tutta sia attraversata oggi da una crisi segnata dalla fine del primato del linguaggio da cui, invece, la filosofia italiana sarebbe immune poiché, a differenza degli ermeneutici e degli analitici, non ha mai posto il linguaggio al centro del proprio interesse. La sua peculiarità sta nel presentarsi come una filosofia senza centro ma calata nella vita sociale, nella storia, in ciò che appunto costituisce la vita del pensiero. Questa dovrebbe essere una via d’uscita dalla crisi della modernità.

    Quest’operazione, che vede impegnati lungo una linea immaginaria Machiavelli, Bruno, Vico, Cuoco, Leopardi, De Sanctis, fino a Pasolini, s’impone come genuinamente politica ma parla poco alla filosofia nella sua interezza, come invece sembra suggerire e auspicare. Se giudichiamo questa proposta da una prospettiva teorica in merito ai suoi impegni concettuali — se davvero dobbiamo prendere l’Italian Theory sul serio —, non è chiaro come, ad es., questa teoria lavori rispetto alla teoria della giustizia di John Rawls (se è vero che, come scrisse Robert Nozick, “i filosofi politici devono lavorare all’interno della teoria di Rawls, o chiarire perché non lo fanno”).

    Inoltre, la categoria di bios è troppo generica perché sia usata in modo efficace. Se per bios s’intende il nostro essere animali umani, non si capisce se la giustizia e la morale siano, secondo tale teoria, parte della nostra natura o ad essa avverse, un problema che aveva posto con estrema lucidità Hobbes all’alba della modernità. È questo che s’intende con modernità? In ogni caso trovare una via d’uscita dalla modernità non ci permette come filosofi di sfuggire a questo problema e ogni teoria politica è chiamata a rispondervi in modo limpido fin dalle sue premesse.

    Con la pubblicazione del Manifesto del nuovo realismo (Laterza, 2012) si propone “un cambio di stagione” in seno alla filosofia stessa con l’estinguersi di un paradigma, il costruzionismo sociale. La ricerca dell’oggettività e l’affermazione forte del senso granitico del reale, che non cambia al cambiare delle nostre opinioni, dovrebbero cogliere e propagare “il senso di una grande trasformazione che — a livello mondiale — ha investito la filosofia”. Il movimento che prende le mosse da quest’ultima fatica di Ferraris si promette di porre fine al postmodernismo.

    Non so se il nuovo realismo possa davvero dare tutto ciò che promette e l’enfasi con la quale è stato presentato sembra più affabulatoria che reale. La proposta sarebbe efficace se ciò che suggerisce di smontare — il costruzionismo sociale — fosse davvero il paradigma assunto dell’intera filosofia contemporanea. In realtà non è così, ciò accade solo in alcune facoltà di Arts & Humanities, dove si privilegia la sociologia della cultura, della scienza e della letteratura scambiando tutto ciò spesso per filosofia.

    Il dibattito che si è prodotto negli anni settanta in Inghilterra, ad es., a proposito del concetto di verità e della sua cognizione, inaugurato da Michael Dummett, è stato tra i più interessanti e fruttuosi della seconda metà di questo secolo. Ma nessuno si è mai sognato di poter derivare dalla teoria antirealista del significato una qualsivoglia posizione postmodernista. Né tantomeno politica. Sembra che la preoccupazione e il malcontento di Ferraris siano tutti interni al dibattito italiano o, al più, continentale, da cui procede per formazione e cultura e al quale oggi sembra opporsi. Rimane discutibile il confondere i diversi piani della discussione per mezzo di connessioni azzardate, passando da questioni ontologiche a visioni complessive della società e della cultura (il modernismo liquido, il post-modernismo gassoso, la difesa dell’Illuminismo…). Il nuovo realismo è una proposta meta-filosofica e come tale nella sua genericità intende toccare diversi campi della filosofia, dalla metafisica alla politica.

    L’impressione è che, sebbene le idee ispiratrici siano condivisibili, anche se non originali (il realismo è un soggetto in discussione da molti anni in ambito Anglo-Americano), l’operazione di profonda trasformazione che promette rischia di restare incrostata alla superficie delle idee, segnandone così il limite.

    Ci si può domandare inoltre se la filosofia italiana oggi sia solo quella fatta in Italia. Fra le novità di questi anni va menzionato, ad esempio, il libro di Emanuele Coccia, La vita sensibile, Il Mulino, 2011, tradotto oggi in diverse lingue. Come in questo caso, molti filosofi italiani oggi vivono e insegnano all’estero. Come va considerata questa filosofia? E poi ci sono delle nuove interpretazioni che hanno trovato terreno fertile in Italia e oggi stanno diventando internazionali. Penso ad esempio al caso di Wittgenstein, ai suoi originali e fini interpreti italiani come Aldo G. Gargani, Luigi Perissinotto, Piergiorgio Donatelli.

    Alla fine della chiacchierata, sarà dura per il giovane filosofo convincere i propri colleghi stranieri ad appassionarsi a nuove teorie italiane che cavalcano grandi questioni, ma sicuramente potrà suggerire loro alcune letture valide, certi autori, come bussola per orientarsi in una terra che sta cambiando lentamente la propria forma.


    Immagine di copertina: ph. di Henrik Dønnestad da Unsplash

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