Rito e contemporaneo

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    Potrà sembrare paradossale – ma, in fondo, dal punto di vista antropologico non lo è affatto – che la maggior parte delle riflessioni sul “contemporaneo” si possano leggere anche attraverso le dinamiche e le pratiche antichissime del rito e della liturgia. Del resto, non è un caso che proprio Agamben, seppure con risultati interessanti ma non del tutto condivisibili, abbia concentrato negli ultimi anni la sua attenzione proprio su tali campi di ricerca.

    La rottura e ricomposizione continua dell’apparente dualismo (dualismo che è più rappresentazione che partecipazione) mediante l’iperstimolazione sensoriale e la multimedialità; il ritorno al sinestetico nell’era digitale; la stessa dinamica di immersione e distanza nel contemporaneo prospettata dallo stesso Agamben – sono caratteristiche propriamente rituali, che ritroviamo in ogni seria e non ideologica analisi antropologica. Alcuni studiosi, come ad esempio Giorgio Bonaccorso, portano avanti un modello interpretativo legato proprio alla teoria della complessità, in cui queste caratteristiche potrebbero essere riassunte nell’etimologia attiva dell’illusione come in-ludus: stare in, stare dentro alla multimedialità e sinesteticità del contemporaneo come in un gioco – “cosa è un gioco?” così concludeva il suo intervento Giuseppe Genna – e, quindi, ponendosi contemporaneamente e continuamente anche a distanza, in un equilibrio dinamico incessante per poter toccare con la totalità dell’essere umano, inteso esso stesso come multimediale e sinestetico, anche l’occhio del ciclone o il “buio” agambeniano.

    Tutto questo ci porta ad interrogarci sempre e di nuovo sulla stessa percezione e le sue modalità: giustamente Magurno si chiede se un tale movimento è percepibile “in questo territorio mutevole, in questa faglia nella quale le cose deflagrano e si ricompongono allo stesso tempo” – e questo è propriamente il territorio del rito. E quindi, forse anche gli studi di questo ambito possono essere d’aiuto per una possibile risposta alla pratica della percezione del contemporaneo; del resto, è la stessa epistemologia della complessità a portarci verso l’integrazione non riduttivistica delle varie discipline.

    Secondo l’ottica in questione la percezione è possibile infatti solo come multimedialità, sinesteticità e complessità: la somma delle parti, di tutte le parti, che fanno il rito e l’uomo (spazio, tempo, corpo, codici linguistici ed extralinguistici, ecc.) non è mai riducibile ad unità concettuale o logica, ma, piuttosto, ad una esperienza immersiva e distanziante della percezione stessa in cui solo le ricadute successive (e quindi non più legate all’immediatezza del contemporaneo) possono condensarsi in dottrine, concetti e ideologie; la stessa ripetizione, nel rito, indica questa impossibilità e, nello stesso tempo, questa possibilità partecipativa: indica un modo di stare nello spazio-tempo in cui ogni volta si nasce di nuovo e nuovamente si muore, in un passaggio continuo che, “contro” ogni apparenza – o, meglio, proprio grazie al cuore vivo di ogni apparenza – ci permette di vivere quel vuoto e quel buio senza pre-giudizi o ri-cordi, ossia nel presente in atto del contemporaneo.

    Il “buio” richiamato da Agamben è forse proprio il punto in cui tutto ciò propriamente accade. La compresenza di buio e luce non ha quindi niente di concettuale e, quindi, niente di dualistico ma, piuttosto, rinvia continuamente alla pratica e al textum multimediale e sinestetico, alle sue infinite combinazioni di elementi, così come accade nella lettura complessa di un testo genetico.

    La struttura del rito non sarebbe altro che l’esperienza del Maelström, seguendo l’esempio di Magurno: la struttura elastica, multimediale e multisensoriale capace di farsi forma vuota significante allo stesso tempo come mediazione dell’immediato e come immediatezza delle mediazioni in cui viviamo, sentiamo e ci muoviamo. In questo senso, non possiamo dimenticare che il rito, uscendo dall’ignoranza purtroppo pervasiva in cui viene visto come mera fissazione di significati e di concetti, è piuttosto esperienza di significanti che possono diventare significativi solo in virtù dell’esperienza che ne facciamo attraverso il rito stesso.

    E, nello stesso tempo, il rito è quella forma che riprende il suo vero senso profondo e pratico nelle nostre società tecnologiche, così com’erano state prefigurate dallo stesso McLuhan, attraverso modalità immersive che per molti aspetti ricordano proprio certe pratiche meditative, per altro già studiate dagli specialisti delle neuroscienze, in cui l’hardware e il software, le forme e il mistico, si uniscono e disgiungono ogni volta di nuovo, toccando punti di consapevolezza inauditi oggi solo perchè non visibili con gli strumenti ormai obsoleti della nostra ragione classica e della nostra costituzione epistemologica – anche in questo caso rompendo la tradizionale rappresentazione dicotomica tra mente e cervello come, ad esempio, nell’essenziale How the body shapes the mind di Shaun Gallagher.

    Sul contemporaneo:

    Anna Lucia Cagnazzi, Pratiche di rigenerazione urbana

    Nicola Capone, Esplodono bombe. L’Europa alla prova del contemporaneo

    Giuseppe Genna, Innovatevi culturalmente

    Giuseppe Genna, Domande aperte sul futuro

    Giancarlo Liviano D’Arcangelo, Essere contemporaneo è scegliere di non parlare

    Marco Magurno, Contemporaneo: Maelström e il distacco

     

    Note