Ho speso buona parte del 2022 a Bruxelles. Ero in Belgio per il mio dottorato, per il mio periodo di studio all’estero. Stavo in una strada in discesa che partiva dalla fontana di piazza Ambiorix. Vivevo in un monolocale con pareti arancione squillante, un colore pallido e assurdo che faceva brillare ogni segno lasciato da chi, come me, era passato di lì per qualche mese, settimana, giorno. Restare di più in quella città mi sembrava impensabile. Le luci ronzavano, fuori batteva quella pioggia sottile che sembra essere una caratteristica climatica tipicamente belga. Sarei stato lì per sei mesi – che poi divennero cinque appena mi accorsi, o, meglio, scesi a patti col fatto che il dolore non era nelle pareti o nella pioggia, ma in me. Non mi sopportavo e Bruxelles non poteva farci nulla.
A tenermi insieme c’era un misto di gratitudine e sbigottimento. Le strade che stavo calpestando le avevano percorse autori e autrici a me cari; le sorelle Brontë, Charlotte ed Emily, ci avevano vissuto: Charlotte ci scrisse su il suo Vilette; Emily si limitò a morirci di nostalgia. Auden parlava di Bruxelles quando scrisse le sue parole più struggenti sul dolore. E prima di partire scoprì che lì aveva vissuto anche Gottfried Benn – ma non fingerò di essere così colto da apprezzare davvero Gottfried Benn.